Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1 (2024)

The Project Gutenberg eBook of Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1

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Title: Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1

Author: Giovanni Boccaccio

Editor: Domenico Guerri

Release date: May 12, 2007 [eBook #21424]

Language: Italian

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G. BOCCACCIO

OPERE VOLGARI

XII

GIOVANNI BOCCACCIO

IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE
A CURA DI DOMENICO GUERRI
VOLUME PRIMO

BARI

GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI

1918

PROPRIETÁ LETTERARIA

GIUGNO MCMXVIII—49326

A PIO RAJNA E GIROLAMO VITELLI

I

VITA DI DANTE

I

PROPOSIZIONE

Solone, il cui petto un umano tempio di divina sapienzia fu reputato,e le cui sacratissime leggi sono ancora alli presenti uomini chiaratestimonianza dell'antica giustizia, era, secondo che dicono alcuni,spesse volte usato di dire ogni republica, sí come noi, andare e staresopra due piedi; de' quali, con matura gravitá, affermava essere ildestro il non lasciare alcun difetto commesso impunito, e il sinistroogni ben fatto remunerare; aggiugnendo che, qualunque delle due cosegiá dette per vizio o per nigligenzia si sottraeva, o meno che bene siservava, senza niun dubbio quella republica, che 'l faceva, convenireandare sciancata: e se per isciagura si peccasse in amendue, quasicertissimo avea, quella non potere stare in alcun modo.

Mossi adunque piú cosí egregi come antichi popoli da questa laudevolesentenzia e apertissimamente vera, alcuna volta di deitá, altra dimarmorea statua, e sovente di celebre sepultura, e tal fiata ditriunfale arco, e quando di laurea corona secondo i meriti precedentionoravano i valorosi: le pene, per opposito, a' colpevoli date noncuro di raccontare. Per li quali onori e purgazioni la assiria, lamacedonica, la greca e ultimamente la romana republica aumentate, conl'opere le fini della terra, e con la fama toccaron le stelle. Levestigie de' quali in cosí alti esempli, non solamente da' successoripresenti, e massimamente da' miei fiorentini, sono male seguite, ma intanto s'è disviato da esse, che ogni premio di virtú possiedel'ambizione; per che, sí come e io e ciascun altro che a ciò conocchio ragionevole vuole guardare, non senza grandissima afflizioned'animo possiamo vedere li malvagi e perversi uomini a' luoghi eccelsie a' sommi ofici e guiderdoni elevare, e li buoni scacciare, deprimeree abbassare. Alle quali cose qual fine serbi il giudicio di Dio,coloro il veggiano che il timone governano di questa nave: perciochénoi, piú bassa turba, siamo trasportati dal fiotto, della fortuna, manon della colpa partecipi. E, comeché con infinite ingratitudini edissolute perdonanze apparenti si potessero le predette coseverificare, per meno scoprire li nostri difetti e per pervenire al mioprincipale intento, una sola mi fia assai avere raccontata (né questafia poco o picciola), ricordando l'esilio del chiarissimo uomo DanteAlighieri. Il quale, antico cittadino né d'oscuri parenti nato, quantoper vertú e per scienzia e per buone operazioni meritasse, assai ilmostrano e mostreranno le cose che da lui fatte appaiono: le quali, sein una republica giusta fossero state operate, niuno dubbio ci è cheesse non gli avessero altissimi meriti apparecchiati.

Oh scellerato pensiero, oh disonesta opera, oh miserabile esempio e difutura ruina manifesto argomento! In luogo di quegli, ingiusta efuriosa dannazione, perpetuo sbandimento, alienazione de' paternibeni, e, se fare si fosse potuto, maculazione della gloriosissimafama, con false colpe gli fûr donate. Delle quali cose le recenti ormedella sua fuga e l'ossa nelle altrui terre sepulte e la sparta proleper l'altrui case, alquante ancora ne fanno chiare. Se a tutte l'altreiniquitá fiorentine fosse possibile il nascondersi agli occhi di Dio,che veggono tutto, non dovrebbe quest'una bastare a provocare sopra séla sua ira? Certo sí. Chi in contrario sia esaltato, giudico che siaonesto il tacere. Sí che, bene ragguardando, non solamente è ilpresente mondo del sentiero uscito del primo, del quale di sopratoccai, ma ha del tutto nel contrario vòlti i piedi. Per che assaimanifesto appare che, se noi e gli altri che in simile modo vivono,contro la sopra toccata sentenzia di Solone, sanza cadere stiamo inpiede, niuna altra cosa essere di ciò cagione, se non che o per lungausanza la natura delle cose è mutata, come sovente veggiamo avvenire,o è speziale miracolo, nel quale, per li meriti d'alcuno nostropassato, Dio, contra ogni umano avvedimento ne sostiene, o è la suapazienzia, la quale forse il nostro riconoscimento attende; il qualese a lungo andare non seguirá, niuno dubiti che la sua ira, la qualecon lento passo procede alla vendetta, non ci serbi tanto piú gravetormento, che appieno supplisca la sua tarditá. Ma, percioché, comeche impunite ci paiono le mal fatte cose, quelle non solamentedobbiamo fuggire, ma ancora, bene operando, d'amendarle ingegnarci;conoscendo io me essere di quella medesima cittá, avvegnaché picciolaparte, della quale, considerati li meriti, la nobiltá e la vertú,Dante Alighieri fu grandissima, e per questo, sí come ciascun altrocittadino, a' suoi onori sia in solido obbligato; comeché io a tantacosa non sia sofficiente, nondimeno secondo la mia picciola facultá,quello ch'essa dovea verso lui magnificamente fare, non avendolofatto, m'ingegnerò di far io; non con istatua o con egregia sepoltura,delle quali è oggi appo noi spenta l'usanza, né basterebbono a ciò lemie forze, ma con lettere povere a tanta impresa. Di queste ho, e diqueste darò, accioché igualmente, e in tutto e in parte, non si possadire fra le nazioni strane, verso cotanto poeta la sua patria esserestata ingrata. E scriverò in istilo assai umile e leggiero, perochépiú alto nol mi presta lo 'ngegno, e nel nostro fiorentino idioma,accioché da quello, ch'egli usò nella maggior parte delle sue opere,non discordi, quelle cose le quali esso di sé onestamente tacette:cioè la nobiltá della sua origine, la vita, gli studi, i costumi;raccogliendo appresso in uno l'opere da lui fatte, nelle quali esso sésí chiaro ha renduto a' futuri, che forse non meno tenebre chesplendore gli daranno le lettere mie, come che ciò non sia di miointendimento né di volere; contento sempre, e in questo e inciascun'altra cosa, da ciascun piú savio, lá dove io difettuosamenteparlassi, essere corretto. Il che accioché non avvenga, umilementepriego Colui che lui trasse per sí alta scala a vedersi, comesappiamo, che al presente aiuti e guidi lo 'ngegno mio e la debolemano.

II

PATRIA E MAGGIORI DI DANTE

Fiorenza, intra l'altre cittá italiane piú nobile, secondo chel'antiche istorie e la comune opinione de' presenti pare che vogliano,ebbe inizio da' romani; la quale in processo di tempo aumentata, e dipopolo e di chiari uomini piena, non solamente cittá, ma potentecominciò a ciascun circunstante ad apparere. Ma qual si fosse, ocontraria fortuna o avverso cielo o li loro meriti, agli alti inizi dimutamento cagione, ci è incerto; ma certissimo abbiamo, essa non dopomolti secoli da Attila, crudelissimo re de' vandali e generaleguastatore quasi di tutta Italia, uccisi prima e dispersi tutti o lamaggior parte di quegli cittadini, che ['n] quella erano o per nobiltádi sangue o per qualunque altro stato d'alcuna fama, in cenere laridusse e in ruine: e in cotale maniera oltre al trecentesimo anno sicrede che dimorasse. Dopo il qual termine, essendo non senza cagionedi Grecia il romano imperio in Gallia translatato, e alla imperialealtezza elevato Carlo magno, allora clementissimo re de' franceschi;piú fatiche passate, credo da divino spirito mosso, allareedificazione della desolata cittá lo 'mperiale animo dirizzò; e daquegli medesimi che prima conditori n'erano stati, come che in picciolcerchio di mura la riducesse, in quanto poté, simile a Roma la fe'reedificare e abitare; raccogliendovi nondimeno dentro quelle pochereliquie, che si trovarono de' discendenti degli antichi scacciati.

Ma intra gli altri novelli abitatori, forse ordinatore dellareedificazione, partitore delle abitazioni e delle strade, e datore alnuovo popolo delle leggi opportune, secondo che testimonia la fama, vivenne da Roma un nobilissimo giovane per ischiatta de' Frangiapani, enominato da tutti Eliseo; il quale per avventura, poi ch'ebbe laprincipale cosa, per la quale venuto v'era, fornita, o dall'amoredella cittá nuovamente da lui ordinata, o dal piacere del sito, alquale forse vide nel futuro dovere essere il cielo favorevole, o daaltra cagione che si fosse, tratto, in quella divenne perpetuocittadino, e dietro a sé di figliuoli e di discendenti lasciò nonpicciola né poco laudevole schiatta: li quali, l'antico sopranome de'loro maggiori abbandonato, per sopranome presero il nome di colui chequivi loro aveva dato cominciamento, e tutti insieme si chiamâr gliElisei. De' quali di tempo in tempo, e d'uno in altro discendendo, tragli altri nacque e visse uno cavaliere per arme e per sennoragguardevole e valoroso, il cui nome fu Cacciaguida; al quale nellasua giovanezza fu data da' suo' maggior per isposa una donzella natadegli Aldighieri di Ferrara, cosí per bellezza e per costumi, come pernobiltá di sangue pregiata, con la quale piú anni visse, e di leigenerò piú figliuoli. E comeché gli altri nominati si fossero, in uno,sí come le donne sogliono esser vaghe di fare, le piacque di rinnovareil nome de' suoi passati, e nominollo Aldighieri; comeché il vocabolopoi, per sottrazione di questa lettera «d» corrotto, rimanesseAlighieri. Il valore di costui fu cagione a quegli che discesero dilui, di lasciare il titolo degli Elisei, e di cognominarsi degliAlighieri; il che ancora dura infino a questo giorno. Del quale,comeché alquanti figliuoli e nepoti e de' nepoti figliuolidiscendessero, regnante Federico secondo imperadore, uno ne nacque, ilcui nome fu Alighieri, il quale piú per la futura prole che per sédoveva esser chiaro; la cui donna gravida, non guari lontana al tempodel partorire, per sogno vide quale doveva essere il frutto del ventresuo; comeché ciò non fosse allora da lei conosciuto né da altrui, edoggi, per lo effetto seguíto, sia manifestissimo a tutti.

Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimoalloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, equivi si sentia partorire un figliuolo, il quale in brevissimo tempo,nutricandosi solo dell'orbache, le quali dell'alloro cadevano, edell'onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, es'ingegnasse a suo potere d'avere delle fronde dell'albero, il cuifrutto l'avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere,e nel rilevarsi non uomo piú, ma uno paone il vedea divenuto. Dellaqual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe il sonno; né guari ditempo passò che il termine debito al suo parto venne, e partorí unofigliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nomechiamaron Dante: e meritamente, percioché ottimamente, sí come sivedrá procedendo, seguí al nome l'effetto.

Questi fu quel Dante, del quale è il presente sermone; questi fu quelDante, che a' nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio;questi fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno delle muse,sbandite d'Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza delfiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni bellezza di volgarparlare sotto debiti numeri è regolata; per costui la morta poesímeritamente si può dir suscitata: le quali cose, debitamente guardate,lui niuno altro nome che Dante poter degnamente avere avutodimostreranno.

III

SUOI STUDI

Nacque questo singulare splendore italico nella nostra cittá, vacanteil romano imperio per la morte di Federigo giá detto, negli anni dellasalutifera incarnazione del Re dell'universo MCCLXV, sedente Urbanopapa quarto nella cattedra di san Piero, ricevuto nella paterna casada assai lieta fortuna: lieta, dico, secondo la qualitá del mondo cheallora correa. Ma, quale che ella si fosse, lasciando stare ilragionare della sua infanzia, nella quale assai segni apparirono dellafutura gloria del suo ingegno, dico che dal principio della suapuerizia, avendo giá li primi elementi delle lettere impresi, non,secondo il costume de' nobili odierni, si diede alle fanciulleschelascivie e agli ozi, nel grembo della madre impigrendo, ma nellapropia patria tutta la sua puerizia con istudio continuo diede alleliberali arti, e in quelle mirabilmente divenne esperto. E crescendoinsieme con gli anni l'animo e lo 'ngegno, non a' lucrativi studi,alli quali generalmente oggi corre ciascuno, si dispose, ma da unalaudevole vaghezza di perpetua fama [tratto], sprezzando letransitorie ricchezze, liberamente si diede a volere aver pienanotizia delle fizioni poetiche e dell'artificioso dimostramento diquelle. Nel quale esercizio familiarissimo divenne di Virgilio,d'Orazio, d'Ovidio, di Stazio e di ciascun altro poeta famoso; nonsolamente avendo caro il conoscergli, ma ancora, altamente cantando,s'ingegnò d'imitarli, come le sue opere mostrano, delle quali appressoa suo tempo favelleremo. E, avvedendosi le poetiche opere non esserevane o semplici favole o maraviglie, come molti stolti estimano, masotto sé dolcissimi frutti di veritá istoriografe o filosofiche averenascosti; per la quale cosa pienamente, sanza le istorie e la morale enaturale filosofia, le poetiche intenzioni avere non si potevanointere; partendo i tempi debitamente, le istorie da sé, e la filosofiasotto diversi dottori s'argomentò, non sanza lungo studio e affanno,d'intendere. E, preso dalla dolcezza del conoscere il vero delle coseracchiuse dal cielo, niuna altra piú cara che questa trovandone inquesta vita, lasciando del tutto ogni altra temporale sollecitudine,tutto a questa sola si diede. E, accioché niuna parte di filosofia nonveduta da lui rimanesse, nelle profonditá altissime della teologia conacuto ingegno si mise. Né fu dalla intenzione l'effetto lontano,percioché, non curando né caldi né freddi, vigilie né digiuni, néalcun altro corporale disagio, con assiduo studio pervenne a conosceredella divina essenzia e dell'altre separate intelligenzie quello cheper umano ingegno qui se ne può comprendere. E cosí come in varieetadi varie scienze furono da lui conosciute studiando, cosí in varistudi sotto vari dottori le comprese.

Egli li primi inizi, sí come di sopra è dichiarato, prese nella propiapatria, e di quella, sí come a luogo piú fertile di tal cibo, n'andò aBologna; e giá vicino alla sua vecchiezza n'andò a Parigi, dove, contanta gloria di sé, disputando, piú volte mostrò l'altezza del suoingegno, che ancora, narrandosi, se ne maravigliano gli uditori. E ditanti e sí fatti studi non ingiustamente meritò altissimi titoli:percioché alcuni il chiamarono sempre «poeta», altri «filosofo» emolti «teologo», mentre visse. Ma, percioché tanto è la vittoria piúgloriosa al vincitore, quanto le forze del vinto sono state maggiori,giudico esser convenevole dimostrare, di come fluttuoso e tempestosomare costui, gittato ora in qua ora in lá, vincendo l'onde parimentee' venti contrari, pervenisse al salutevole porto de' chiarissimititoli giá narrati.

IV

IMPEDIMENTI AVUTI DA DANTE AGLI STUDI

Gli studi generalmente sogliono solitudine e rimozione disollecitudine e tranquillitá d'animo disiderare, e massimamente glispeculativi, a' quali il nostro Dante, sí come mostrato è, si diedetutto. In luogo della quale rimozione e quiete, quasi dallo iniziodella sua vita infino all'ultimo della morte, Dante ebbe fierissima eimportabile passione d'amore, moglie, cura familiare e publica, esilioe povertá; l'altre lasciando piú particulari, le quali di necessitáqueste si traggon dietro: le quali, accioché piú appaia della lorogravezza, partitamente convenevole giudico di spiegarle.

V

AMORE PER BEATRICE

Nel tempo nel quale la dolcezza del cielo riveste de' suoi ornamentila terra, e tutta per la varietá de' fiori mescolati fra le verdifrondi la fa ridente, era usanza della nostra cittá, e degli uomini edelle donne, nelle loro contrade ciascuno in distinte compagniefesteggiare; per la qual cosa, infra gli altri per avventura, FolcoPortinari, uomo assai orrevole in que' tempi tra' cittadini, il primodí di maggio aveva i circustanti vicini raccolti nella propia casa afesteggiare, infra li quali era il giá nominato Alighieri. Al quale,sí come i fanciulli piccoli, e spezialmente a' luoghi festevoli,sogliono li padri seguire, Dante, il cui nono anno non era ancorafinito, seguito avea; e quivi mescolato tra gli altri della sua etá,de' quali cosí maschi come femmine erano molti nella casa delfesteggiante, servite le prime mense, di ciò che la sua picciola etápoteva operare, puerilmente si diede con gli altri a trastullare.

Era intra la turba de' giovinetti una figliuola del sopradetto Folco,il cui nome era Bice, comeché egli sempre dal suo primitivo, cioèBeatrice, la nominasse, la cui etá era forse d'otto anni, leggiadrettaassai secondo la sua fanciullezza, e ne' suoi atti gentilesca epiacevole molto, con costumi e con parole assai piú gravi e modesteche il suo picciolo tempo non richiedea; e, oltre a questo, aveva lefattezze del viso dilicate molto e ottimamente disposte, e piene,oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi unaangioletta era reputata da molti. Costei adunque, tale quale io ladisegno, o forse assai piú bella, apparve in questa festa, non credoprimamente, ma prima possente ad innamorare, agli occhi del nostroDante: il quale, ancoraché fanciul fosse, con tanta affezione la bellaimagine di lei ricevette nel cuore, che da quel giorno innanzi, mai,mentre visse, non se ne dipartí. Quale ora questa si fosse, niuno ilsa; ma, o conformitá di complessioni o di costumi o spezialeinfluenzia del cielo che in ciò operasse, o, sí come noi peresperienza veggiamo nelle feste, per la dolcezza de' suoni, per lagenerale allegrezza, per la dilicatezza de' cibi e de' vini, gli animieziandio degli uomini maturi, non che de' giovinetti, ampliarsi edivenire atti a poter essere leggiermente presi da qualunque cosa chepiace; è certo questo esserne divenuto, cioè Dante nella suapargoletta etá fatto d'amore ferventissimo servidore. Ma, lasciandostare il ragionare de' puerili accidenti, dico che con l'etámultiplicarono l'amorose fiamme, in tanto che niun'altra cosa gli erapiacere o riposo o conforto, se non il vedere costei. Per la qualcosa, ogni altro affare lasciandone, sollecitissimo andava lá dovunquecredeva potere vederla, quasi del viso o degli occhi di lei dovesseattignere ogni suo bene e intera consolazione.

Oh insensato giudicio degli amanti! chi altri che essi estimerebbe peraggiugnimento di stipa fare le fiamme minori? Quanti e quali fosseroli pensieri, li sospiri, le lagrime e l'altre passioni gravissime poiin piú provetta etá da lui sostenute per questo amore, egli medesimoin parte il dimostra nella sua Vita nova, e però piú distesamentenon curo di raccontarle. Tanto solamente non voglio che non dettotrapassi, cioè che, secondo che egli scrive e che per altrui, a cui funoto il suo disio, si ragiona, onestissimo fu questo amore, né maiapparve, o per isguardo o per parola o per cenno, alcuno libidinosoappetito né nello amante né nella cosa amata: non picciola maravigliaal mondo presente, del quale è sí fuggito ogni onesto piacere, eabituatosi l'avere prima la cosa che piace conformata alla sualascivia che diliberato d'amarla, che in miracolo è divenuto, sí comecosa rarissima, chi amasse altramente. Se tanto amore e sí lungo potéil cibo, i sonni e ciascun'altra quiete impedire, quanto si dee potereestimare lui essere stato avversario agli sacri studi e allo 'ngegno?Certo, non poco; comeché molti vogliano lui essere stato incitatore diquello, argomento a ciò prendendo dalle cose leggiadramente nelfiorentino idioma e in rima, in laude della donna amata, e accioché lisuoi ardori e amorosi concetti esprimesse, giá fatte da lui; ma certoio nol consento, se io non volessi giá affermare l'ornato parlareessere sommissima parte d'ogni scienza; che non è vero.

VI

DOLORE DI DANTE PER LA MORTE DI BEATRICE

Come ciascuno puote evidentemente conoscere, niuna cosa è stabile inquesto mondo; e, se niuna leggermente ha mutamento, la nostra vita èquella. Un poco di soperchio freddo o di caldo che noi abbiamo,lasciando stare gli altri infiniti accidenti e possibili, da essere anon essere sanza difficultá ci conduce; né da questo gentilezza,ricchezza, giovanezza, né altra mondana dignitá è privilegiata; dellaquale comune legge la gravitá convenne a Dante prima per l'altruimorte provare che per la sua. Era quasi nel fine del suovigesimoquarto anno la bellissima Beatrice, quando, sí come piacque aColui che tutto puote, essa, lasciando di questo mondo l'angosce,n'andò a quella gloria che li suoi meriti l'avevano apparecchiata.Della qual partenza Dante in tanto dolore, in tanta afflizione, intante lagrime rimase, che molti de' suoi piú congiunti e parenti edamici niuna fine a quelle credettero altra che solamente la morte; equesta estimarono dover essere in brieve, vedendo lui a niun conforto,a niuna consolazione pórtagli dare orecchie. Gli giorni erano allenotte iguali e agli giorni le notti; delle quali niuna ora sitrapassava senza guai, senza sospiri e senza copiosa quantitá dilagrime; e parevano li suoi occhi due abbondantissime fontane d'acquasurgente, in tanto che piú si maravigliarono donde tanto umore egliavesse che al suo pianto bastasse. Ma, sí come noi veggiamo, per lungausanza le passioni divenire agevoli a comportare, e similmente neltempo ogni cosa diminuire e perire; avvenne che Dante infra alquantimesi apparò a ricordarsi, senza lagrime, Beatrice esser morta, e conpiú dritto giudicio, dando alquanto il dolore luogo alla ragione, aconoscere li pianti e li sospiri non potergli, né ancora alcuna altracosa, rendere la perduta donna. Per la qual cosa con piú pazienzas'acconciò a sostenere l'avere perduta la sua presenzia; né guari dispazio passò che, dopo le lasciate lagrime, li sospiri, li quali giáerano alla loro fine vicini, cominciarono in gran parte a partirsisanza tornare.

Egli era sí per lo lagrimare, sí per l'afflizione che il cuore sentivadentro, e sí per lo non avere di sé alcuna cura, di fuori divenutoquasi una cosa salvatica a riguardare: magro, barbuto e quasi tuttotrasformato da quello che avanti esser solea; intanto che 'l suoaspetto, nonché negli amici, ma eziandio in ciascun altro che ilvedea, a forza di sé metteva compassione; comeché egli poco, mentrequesta vita cosí lagrimosa durò, altrui che ad amici veder silasciasse.

Questa compassione e dubitanza di peggio facevano li suoi parentistare attenti a' suoi conforti; li quali, come alquanto videro lelagrime cessate e conobbero li cocenti sospiri alquanto dare sosta alfaticato petto, con le consolazioni lungamente perdute rincominciaronoa sollecitare lo sconsolato; il quale, come che infino a quella oraavesse a tutte ostinatamente tenute le orecchie chiuse, alquanto lecominciò non solamente ad aprire, ma ad ascoltare volentieri ciò cheintorno al suo conforto gli fosse detto. La qual cosa veggendo i suoiparenti, accioché del tutto non solamente de' dolori il traessero, mail recassero in allegrezza, ragionarono insieme di volergli darmoglie; accioché, come la perduta donna gli era stata di tristiziacagione, cosí di letizia gli fosse la nuovamente acquistata. E,trovata una giovane, quale alla sua condizione era decevole, conquelle ragioni che piú loro parvero induttive, la loro intenzion gliscoprirono. E, accioché io particularmente non tocchi ciascuna cosa,dopo lunga tenzone, senza mettere guari di tempo in mezzo, alragionamento seguí l'effetto: e fu sposato.

VII

DIGRESSIONE SUL MATRIMONIO

Oh menti cieche, oh tenebrosi intelletti, oh argomenti vani di moltimortali, quanto sono le riuscite in assai cose contrarie a' vostriavvisi, e non sanza ragion le piú volte! Chi sarebbe colui che deldolce aere d'Italia, per soperchio caldo, menasse alcuno nelle cocentiarene di Libia a rinfrescarsi, o dell'isola di Cipri, per riscaldarsi,nelle eterne ombre de' monti Rodopei? qual medico s'ingegnerá dicacciare l'aguta febbre col fuoco, o il freddo delle medolla dell'ossacol ghiaccio o con la neve? Certo, niuno altro, se non colui che connuova moglie crederá l'amorose tribulazion mitigare. Non conosconoquegli, che ciò credono fare, la natura d'amore, né quanto ogni altrapassione aggiunga alla sua. Invano si porgono aiuti o consigli allesue forze, se egli ha ferma radice presa nel cuore di colui che halungamente amato. Cosí come ne' princípi ogni picciola resistenza ègiovevole, cosí nel processo le grandi sogliono essere spesse voltedannose. Ma da ritornare è al proposito, e da concedere al presenteche cose sieno, le quali per sé possano l'amorose fatiche fareobliare.

Che avrá fatto però chi, per trarmi d'un pensiero noioso, mi metteráin mille molto maggiori e di piú noia? Certo niuna altra cosa, se nonche per giunta del male che m'avrá fatto, mi fará disiderare ditornare in quello, onde m'ha tratto; il che assai spesso veggiamoaddivenire a' piú, li quali o per uscire o per essere tratti d'alcunefatiche, ciecamente o s'ammogliano o sono da altrui ammogliati; néprima s'avveggiono, d'uno viluppo usciti, essere intrati in mille, chela pruova, sanza potere, pentendosi, indietro tornare, n'ha dataesperienza. Dierono gli parenti e gli amici moglie a Dante, perché lelagrime cessassero di Beatrice. Non so se per questo, comeché lelagrime passassero, anzi forse eran passate, sí passò l'amorosafiamma; ché nol credo; ma, conceduto che si spegnesse, nuove cose eassai poterono piú faticose sopravvenire. Egli, usato di vegghiare ne'santi studi, quante volte a grado gli era, cogl'imperadori, co' re econ qualunque altri altissimi prencipi ragionava, disputava co'filosofi, e co' piacevolissimi poeti si dilettava, e l'altrui angosceascoltando, mitigava le sue. Ora, quanto alla nuova donna piace, è concostoro, e quel tempo, ch'ella vuole tolto da cosí celebre compagnia,gli conviene ascoltare i femminili ragionamenti, e quegli, se non vuolcrescer la noia, contra il suo piacere non solamente acconsentir, malodare. Egli, costumato, quante volte la volgar turba gli rincresceva,di ritrarsi in alcuna solitaria parte e, quivi speculando, vederequale spirito muove il cielo, onde venga la vita agli animali che sonoin terra, quali sieno le cagioni delle cose, o premeditare alcuneinvenzioni peregrine o alcune cose comporre, le quali appo li futurifacessero lui morto viver per fama; ora non solamente dallecontemplazioni dolci è tolto quante volte voglia ne viene alla nuovadonna, ma gli conviene essere accompagnato di compagnia male a cosífatte cose disposta. Egli, usato liberamente di ridere, di piagnere,di cantare o di sospirare, secondo che le passioni dolci e amare ilpungevano, ora o non osa, o gli conviene non che delle maggiori cose,ma d'ogni picciol sospiro rendere alla donna ragione, mostrando che 'lmosse, donde venne e dove andò; la letizia cagione dell'altrui amore,la tristizia esser del suo odio estimando.

Oh fatica inestimabile, avere con cosí sospettoso animale a vivere, aconversare, e ultimamente a invecchiare o a morire! Io voglio lasciarestare la sollecitudine nuova e gravissima, la quale si conviene averea' non usati (e massimamente nella nostra cittá), cioè onde vengano ivestimenti, gli ornamenti e le camere piene di superflue dilicatezze,le quali le donne si fanno a credere essere al ben vivere opportune;onde vengano li servi, le serve, le nutrici, le cameriere; ondevengano i conviti, i doni, i presenti che fare si convengono a'parenti delle novelle spose, a quegli che vogliono che esse credano daloro essere amate; e appresso queste, altre cose assai prima nonconosciute da' liberi uomini; e venire a cose che fuggir non sipossono. Chi dubita che della sua donna, che ella sia bella o nonbella, non caggia il giudicio nel vulgo? Se bella fia reputata, chidubita che essa subitamente non abbia molti amadori, de' quali alcunocon la sua bellezza, altri con la sua nobiltá, e tale con maraviglioselusinghe, e chi con doni, e quale con piacevolezza infestissimamentecombatterá il non stabile animo? E quel, che molti disiderano,malagevolmente da alcuno si difende. E alla pudicizia delle donne nonbisogna d'essere presa piú che una volta, a fare sé infame e i maritidolorosi in perpetuo. Se per isciagura di chi a casa la si mena, fiasozza, assai aperto veggiamo le bellissime spesse volte e tostorincrescere; che dunque dell'altre possiamo pensare, se non che, nonche esse, ma ancora ogni luogo nel quale esse sieno credute trovare dacoloro, a' quali sempre le conviene aver per loro, è avuto in odio?Onde le loro ire nascono, né alcuna fiera è piú né tanto crudelequanto la femmina adirata, né può viver sicuro di sé, chi sé commettead alcuna, alla quale paia con ragione esser crucciata; che pare atutte.

Che dirò de' loro costumi? Se io vorrò mostrare come e quanto essisieno tutti contrari alla pace e al riposo degli uomini, io tirerò introppo lungo sermone il mio ragionare; e però uno solo, quasi a tuttegenerale, basti averne detto. Esse immaginano il bene operare ognimenomo servo ritener nella casa, e il contrario fargli cacciare; perche estimano, se ben fanno, non altra sorte esser la lor che d'unservo: per che allora par solamente loro esser donne, quando, maleadoperando, non vengono al fine che' fanti fanno. Perché voglio ioandare dimostrando particularmente quello che gli piú sanno? Iogiudico che sia meglio il tacersi che dispiacere, parlando, alle vaghedonne. Chi non sa che tutte l'altre cose si pruovano, prima che colui,di cui debbono esser, comperate, le prenda, se non la moglie, acciochéprima non dispiaccia che sia menata? A ciascuno che la prende, laconviene avere non tale quale egli la vorrebbe, ma quale la fortunagliele concede. E se le cose che di sopra son dette son vere (che ilsa chi provate l'ha), possiamo pensare quanti dolori nascondano lecamere, li quali di fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacitátrapassi le mura sono reputati diletti. Certo io non affermo questecose a Dante essere avvenute, ché nol so; comeché vero sia che, osimili cose a queste, o altre che ne fosser cagione, egli, una voltada lei partitosi, che per consolazione de' suoi affanni gli era statadata, mai né dove ella fosse volle venire, né sofferse che lá doveegli fosse ella venisse giammai; con tutto che di piú figliuoli egliinsieme con lei fosse parente. Né creda alcuno che io per le su dettecose voglia conchiudere gli uomini non dover tôrre moglie; anzi illodo molto, ma non a ciascuno. Lascino i filosofanti lo sposarsi a'ricchi stolti, a' signori e a' lavoratori, e essi con la filosofia sidilettino, molto migliore sposa che alcuna altra.

VIII

OPPOSTE VICENDE DELLA VITA PUBBLICA DI DANTE

Natura generale è delle cose temporali, l'una l'altra tirarsi didietro. La familiar cura trasse Dante alla publica, nella quale tantol'avvilupparono li vani onori che alli publici ofici congiunti sono,che, senza guardare donde s'era partito e dove andava con abbandonateredine, quasi tutto al governo di quella si diede; e fugli tanto inciò la fortuna seconda, che niuna legazion s'ascoltava, a niuna sirispondea, niuna legge si fermava, niuna se ne abrogava, niuna pace sifaceva, niuna guerra publica s'imprendeva, e brievemente niunadiliberazione, la quale alcuno pondo portasse, si pigliava, s'egli inciò non dicesse prima la sua sentenzia. In lui tutta la publica fede,in lui ogni speranza, in lui sommariamente le divine cose e l'umaneparevano esser fermate. Ma la Fortuna, volgitrice de' nostri consiglie inimica d'ogni umano stato, comeché per alquanti anni nel colmodella sua rota gloriosamente reggendo il tenesse, assai diverso fineal principio recò a lui, in lei fidantesi di soperchio.

IX

COME LA LOTTA DELLE PARTI LO COINVOLSE

Era al tempo di costui la fiorentina cittadinanza in due partiperversissimamente divisa, e, con l'operazioni di sagacissimi eavveduti prencipi di quelle, era ciascuna assai possente; intanto chealcuna volta l'una e alcuna l'altra reggeva oltre al piacere dellasottoposta. A volere riducere a unitá il partito corpo della suarepublica, pose Dante ogni suo ingegno, ogni arte, ogni studio,mostrando a' cittadini piú savi come le gran cose per la discordia inbrieve tempo tornano al niente, e le picciole per la concordiacrescere in infinito. Ma, poi che vide essere vana la sua fatica, econobbe gli animi degli uditori ostinati; credendolo giudicio di Dio,prima propose di lasciar del tutto ogni publico oficio e vivere secoprivatamente; poi dalla dolcezza della gloria tirato e dal vano favorpopolesco e ancora dalle persuasioni de' maggiori; credendosi, oltre aquesto, se tempo gli occorresse, molto piú di bene potere operare perla sua cittá, se nelle cose publiche fosse grande, che a sé privato eda quelle del tutto rimosso (oh stolta vaghezza degli umani splendori,quanto sono le tue forze maggiori, che creder non può chi provati nongli ha!): il maturo uomo e nel santo seno della filosofia allevato,nutricato e ammaestrato, al quale erano davanti dagli occhi icadimenti de' re antichi e de' moderni, le desolazioni de' regni,delle province e delle cittá e li furiosi impeti della Fortuna, niunaltro cercanti che l'alte cose, non si seppe o non si poté dalla tuadolcezza guardare.

Fermossi adunque Dante a volere seguire gli onori caduchi e la vanapompa dei publici ofici; e, veggendo che per se medesimo non potea unaterza parte tenere, la quale, giustissima, l'ingiustizia dell'altredue abbattesse, tornandole ad unitá; con quella s'accostò, nellaquale, secondo il suo giudicio, era piú di ragione e di giustizia;operando continuamente ciò che salutevole alla sua patria e a'cittadini conoscea. Ma gli umani consigli le piú delle volte rimangonvinti dalle forze del cielo. Gli odii e l'animositá prese, ancora chesanza giusta cagione nati fossoro, di giorno in giorno divenivanmaggiori, in tanto che non senza grandissima confusione de' cittadini,piú volte si venne all'arme con intendimento di por fine alla lor litecol fuoco e col ferro: sí accecati dall'ira, che non vedevano sé conquella miseramente perire. Ma, poi che ciascuna delle parti ebbe piúvolte fatta pruova delle sue forze con vicendevoli danni dell'una edell'altra; venuto il tempo che gli occulti consigli della minacciantefortuna si doveano scoprire, la fama, parimente del vero e del falsorapportatrice, nunziando gli avversari della parte presa da Dante, dimaravigliosi e d'astuti consigli esser forte e di grandissimamoltitudine d'armati, sí gli prencipi de' collegati di Dante spaventò,che ogni consilio, ogni avvedimento e ogni argomento cacciò da loro,se non il cercare con fuga la loro salute; co' quali insieme Dante, inun momento prostrato della sommitá del reggimento della sua cittá, nonsolamente gittato in terra si vide, ma cacciato di quella. Dopo questacacciata non molti dí, essendo giá stato dal popolazzo corso alle casede' cacciati, e furiosamente votate e rubate, poi che i vittoriosiebbero la cittá riformata secondo il loro giudicio, furono tutti iprencipi de' loro avversari, e con loro, non come de' minori ma quasiprincipale, Dante, sí come capitali nemici della republica dannati aperpetuo esilio, e li loro stabili beni o in publico furon ridotti, oalienati a' vincitori.

X

SI MALEDICE ALL'INGIUSTA CONDANNA D'ESILIO

Questo merito riportò Dante del tenero amore avuto alla sua patria!questo merito riportò Dante dell'affanno avuto in voler tôrre via lediscordie cittadine! questo merito riportò Dante dell'avere con ognisollecitudine cercato il bene, la pace e la tranquillitá de' suoicittadini! Per che assai manifestamente appare quanto sieno vòti diveritá i favori de' popoli, e quanta fidanza si possa in essi avere.Colui, nel quale poco avanti pareva ogni publica speranza esser posta,ogni affezione cittadina, ogni rifugio populare; subitamente, senzacagione legittima, senza offesa, senza peccato, da quel romore, ilquale per addrieto s'era molte volte udito le sue laude portare infinoalle stelle, è furiosamente mandato in inrevocabile esilio. Questa fula marmorea statua fattagli ad eterna memoria della sua virtú! conqueste lettere fu il suo nome tra quegli de' padri della patriascritto in tavole d'oro! con cosí favorevole romore gli furono rendutegrazie de' suoi benefici! Chi sará dunque colui che, a queste coseguardando, dica la nostra republica da questo piè non andaresciancata?

Oh vana fidanza de' mortali, da quanti esempli altissimi se' tucontinuamente ripresa, ammonita e gastigata! Deh! se Cammillo,Rutilio, Coriolano, e l'uno e l'altro Scipione, e gli altri antichivalenti uomini per la lunghezza del tempo interposto ti sono dellamemoria caduti, questo ricente caso ti faccia con piú temperate redinecorrer ne' tuoi piaceri. Niuna cosa ci ha meno stabilita che lapopolesca grazia; niuna piú pazza speranza, niuno piú folle consiglioche quello che a crederle conforta nessuno. Levinsi adunque gli animial cielo, nella cui perpetua legge, nelli cui eterni splendori, nellacui vera bellezza si potrá senza alcuna oscuritá conoscere lastabilitá di Colui che lui e le altre cose con ragione muove;accioché, sí come in termine fisso, lasciando le transitorie cose, inlui si fermi ogni nostra speranza, se trovare non ci vogliamoingannati.

XI

LA VITA DEL POETA ESULE SINO ALLA VENUTA IN ITALIA DI ARRIGO SETTIMO

Uscito adunque in cotal maniera Dante di quella cittá, della qualeegli non solamente era cittadino, ma n'erano li suoi maggiori statireedificatori, e lasciatavi la sua donna, insieme con l'altrafamiglia, male per picciola etá alla fuga disposta; di lei sicuro,percioché di consanguinitá la sapeva ad alcuno de' prencipi dellaparte avversa congiunta, di se medesimo or qua or lá incerto, andavavagando per Toscana. Era alcuna particella delle sue possessioni dalladonna col titolo della sua dote dalla cittadina rabbia stata confatica difesa, de' frutti della quale essa sé e i piccioli figliuolidi lui assai sottilmente reggeva; per la qual cosa povero, conindustria disusata gli convenia il sostentamento di se medesimoprocacciare. Oh quanti onesti sdegni gli convenne posporre, piú duri alui che morte a trapassare, promettendogli la speranza questi doveresser brievi, e prossima la tornata! Egli, oltre al suo stimare,parecchi anni, tornato da Verona (dove nel primo fuggire a messerAlberto della Scala n'era ito, dal quale benignamente era statoricevuto), quando col conte Salvatico in Casentino, quando colmarchese Morruello Malespina in Lunigiana, quando con quegli dellafa*ggiuola ne' monti vicini ad Orbino, assai convenevolmente, secondoil tempo e secondo la loro possibilitá, onorato si stette. Quindi poise n'andò a Bologna, dove poco stato n'andò a Padova, e quindi da caposi ritornò a Verona. Ma poi ch'egli vide da ogni parte chiudersi lavia alla tornata, e di dí in dí piú divenire vana la sua speranza; nonsolamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata, passati i monti chequella dividono dalla provincia di Gallia, come poté, se n'andò aParigi; e quivi tutto si diede allo studio e della filosofia e dellateologia, ritornando ancora in sé dell'altre scienzie ciò che forseper gli altri impedimenti avuti se ne era partito. E in ciò il tempostudiosamente spendendo, avvenne che oltre al suo avviso, Arrigo,conte di Luzimborgo, con volontá e mandato di Clemente papa V, ilquale allora sedea, fu eletto in re de' romani, e appresso coronatoimperadore. Il quale sentendo Dante della Magna partirsi persoggiogarsi Italia, alla sua maestá in parte rebelle, e giá conpotentissimo braccio tenere Brescia assediata, avvisando lui per molteragioni dover essere vincitore; prese speranza con la sua forza edalla sua giustizia di potere in Fiorenza tornare, comeché a lui lasentisse contraria. Perché ripassate l'alpi, con molti nemici difiorentini e di lor parte congiuntosi, e con ambascerie e con letteres'ingegnarono di tirare lo 'mperadore da l'assedio di Brescia,accioché a Fiorenza il ponesse, sí come a principale membro de' suoinemici; mostrandogli che, superata quella, niuna fatica gli restava, opiccola, ad avere libera ed espedita la possessione e il dominio ditutta Italia. E comeché a lui e agli altri a ciò tenenti venisse fattoil trarloci, non ebbe perciò la sua venuta il fine da loro avvisato:le resistenze furon grandissime, e assai maggiori che da loro avvisatenon erano; per che, senza avere niuna notevole cosa operata, lo'mperadore, partitosi quasi disperato, verso Roma drizzò il suocammino. E come che in una parte e in altra piú cose facesse, assai neordinasse e molte di farne proponesse, ogni cosa ruppe la troppoavacciata morte di lui: per la qual morte generalmente ciascuno che alui attendea disperatosi, e massimamente Dante, sanza andare di suoritorno piú avanti cercando, passate l'alpi d'Appennino, se ne andò inRomagna, lá dove l'ultimo suo dí, e che alle sue fatiche doveva porfine, l'aspettava.

XII

DANTE OSPITE DI GUIDO NOVEL DA POLENTA

Era in que' tempi signore di Ravenna, famosa e antica cittá diRomagna, uno nobile cavaliere, il cui nome era Guido Novel da Polenta;il quale, ne' liberali studi ammaestrato, sommamente i valorosi uominionorava, e massimamente quegli che per iscienza gli altri avanzavano.Alle cui orecchie venuto Dante, fuori d'ogni speranza, essere inRomagna (avendo egli lungo tempo avanti per fama conosciuto il suovalore) in tanta disperazione, sí dispose di riceverlo e d'onorarlo.Né aspettò di ciò da lui essere richiesto, ma con liberale animo,considerata qual sia a' valorosi la vergogna del domandare, e conproferte, gli si fece davanti, richiedendo di spezial grazia a Dantequello ch'egli sapeva che Dante a lui dovea dimandare: cioè che secoli piacesse di dover essere. Concorrendo adunque i due voleri a unmedesimo fine, e del domandato e del domandatore, e piacendosommamente a Dante la liberalitá del nobile cavaliere, e d'altra parteil bisogno strignendolo, senza aspettare piú inviti che 'l primo, sen'andò a Ravenna, dove onorevolemente dal signore di quella ricevuto,e con piacevoli conforti risuscitata la caduta speranza, copiosamentele cose opportune donandogli, in quella seco per piú anni il tenne,anzi infino a l'ultimo della vita di lui.

XIII

SUA PERSEVERANZA AL LAVORO

Non poterono gli amorosi disiri, né le dolenti lagrime, né lasollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de' publici ofici,né il miserabile esilio, né la intollerabile povertá giammai con lelor forze rimuovere il nostro Dante dal principale intento, cioè da'sacri studi; percioché, sí come si vederá dove appresso partitamentedell'opere da lui fatte si fará menzione, egli, nel mezzo di qualunquefu piú fiera delle passioni sopradette, si troverá componendo essersiesercitato. E se, obstanti cotanti e cosí fatti avversari, quanti equali di sopra sono stati mostrati, egli per forza d'ingegno e diperseveranza riuscí chiaro qual noi veggiamo; che si può sperarech'esso fosse divenuto, avendo avuti altrettanti aiutatori, o almenoniuno contrario, o pochissimi, come hanno molti? Certo, io non so; mase licito fosse a dire, io direi ch'egli fosse in terra divenuto unoiddio.

XIV

GRANDEZZA DEL POETA VOLGARE-SUA MORTE

Abitò adunque Dante in Ravenna, tolta via ogni speranza di ritornaremai in Firenze (comeché tolto non fosse il disio) piú anni sotto laprotezione del grazioso signore; e quivi con le sue dimostrazioni fecepiú scolari in poesia e massimamente nella volgare; la quale, secondoil mio giudicio, egli primo non altramenti fra noi italici esaltò erecò in pregio, che la sua Omero tra' greci o Virgilio tra' latini.Davanti a costui, come che per poco spazio d'anni si creda che innanzitrovata fosse, niuno fu che ardire o sentimento avesse, dal numerodelle sillabe e dalla consonanza delle parti estreme in fuori, difarla essere strumento d'alcuna artificiosa materia; anzi solamente inleggerissime cose d'amore con essa s'esercitavano. Costui mostrò coneffetto con essa ogni alta materia potersi trattare, e glorioso sopraogni altro fece il volgar nostro.

Ma, poiché la sua ora venne segnata a ciascheduno, essendo egli giánel mezzo o presso del cinquantesimo sesto suo anno infermato, esecondo la cristiana religione ogni ecclesiastico sacramento umilmentee con divozione ricevuto, e a Dio per contrizione d'ogni cosa commessada lui contra al suo piacere, sí come da uomo, riconciliatosi; delmese di settembre negli anni di Cristo MCCCXXI, nel dí che laesaltazione della santa Croce si celebra dalla Chiesa, non sanzagrandissimo dolore del sopradetto Guido, e generalmente di tutti glialtri cittadini ravignani, al suo Creatore rendé il faticato spirito;il quale non dubito che ricevuto non fosse nelle braccia della suanobilissima Beatrice, con la quale nel cospetto di Colui ch'è sommobene, lasciate le miserie della presente vita, ora lietissimamentevive in quella, alla cui felicitá fine giammai non s'aspetta.

XV

SEPOLTURA E ONORI FUNEBRI

Fece il magnanimo cavaliere il morto corpo di Dante d'ornamentipoetici sopra uno funebre letto adornare; e quello fatto portare sopragli omeri de' suoi cittadini piú solenni, infino al luogo de' fratiminori in Ravenna, con quello onore che a sí fatto corpo degnoestimava, infino quivi quasi con publico pianto seguitolo, in una arcalapidea, nella quale ancora giace, il fece porre. E, tornato alla casanella quale Dante era prima abitato, secondo il ravignano costume,esso medesimo, sí a commendazione dell'alta scienzia e della vertú deldefunto, e sí a consolazione de' suoi amici, li quali egli avea inamarissima vita lasciati, fece un ornato e lungo sermone; disposto, selo stato e la vita fossero durati, di sí egregia sepoltura onorarlo,che, se mai alcuno altro suo merito non l'avesse memorevole renduto a'futuri, quella l'avrebbe fatto.

XVI

GARA DI POETI PER L'EPITAFIO DI DANTE

Questo laudevole proponimento infra brieve spazio di tempo fumanifesto ad alquanti, li quali in quel tempo erano in poesísolennissimi in Romagna; per che ciascuno sí per mostrare la suasofficienzia, sí per rendere testimonianza della portata benivolenziada loro al morto poeta, sí per captare la grazia e l'amore delsignore, il quale ciò sapevano disiderare, ciascuno per sé fece versi,li quali, posti per epitafio alla futura sepultura. con debite lodefacessero la posteritá certa chi dentro da essa giacesse; e almagnifico signore gli mandarono. Il quale con gran peccato dellafortuna non dopo molto tempo, toltogli lo Stato, si morí a Bologna;per la qual cosa e il fare il sepolcro e il porvi li mandati versi sirimase. Li quali versi stati a me mostrati poi piú tempo appresso, eveggendo loro avere avuto luogo per lo caso giá dimostrato, pensandole presenti cose per me scritte, comeché sepoltura non sienocorporale, ma sieno, sí come quella sarebbe stata, perpetueconservatrici della colui memoria; imaginai non essere sconvenevolequegli aggiugnere a queste cose. Ma, percioché piú che quegli chel'uno di coloro avesse fatti (che furon piú) non si sarebbero ne'marmi intagliati, cosí solamente quegli d'uno qui estimai che fosserda scrivere; per che, tutti meco esaminatigli, per arte e perintendimento piú degni estimai che fossero quattordici fattine damaestro Giovanni del Virgilio bolognese, allora famosissimo e granpoeta, e di Dante stato singularissimo amico; li quali sono questiappresso scritti:

XVII

EPITAFIO

Theologus Dantes, nullius dogmatis expers,
quod foveat claro philosophia sinu:
gloria musarum, vulgo gratissimus auctor,
hic iacet, et fama pulsat utrumque polum:
qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis
distribuit, laicis rhetoricisque modis.
Pascua Pieriis demum resonabat avenis;
Atropos heu laetum livida rupit opus.
Huic ingrata tulit tristem Florentia fructum,
exilium, vati patria cruda suo.
Quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli
gaudet honorati continuisse ducis,
mille trecentenis ter septem Numinis annis,
ad sua septembris idibus astra redit.

XVIII

RIMPROVERO AI FIORENTINI

Oh ingrata patria, quale demenzia, qual trascutaggine ti teneva,quando tu il tuo carissimo cittadino, il tuo benefattore precipuo, iltuo unico poeta con crudeltá disusata mettesti in fuga; o posciatenuta t'ha? Se forse per la comune furia di quel tempo malconsigliata ti scusi; ché, tornata, cessate l'ire, la tranquillitádell'animo, ripentútati del fatto, nol rivocasti? Deh! non tirincresca lo stare con meco, che tuo figliuol sono, alquanto aragione, e quello che giusta indegnazion mi fa dire, come da uomo cheti ramendi disidera e non che tu sii punita, piglierai. Párti egliessere gloriosa di tanti titoli e di tali che tu quello uno del qualenon hai vicina cittá che di simile si possa esaltare, tu abbi volutoda te cacciare? Deh! dimmi: di qua' vittorie, di qua' triunfi, diquali eccellenzie, di quali valorosi cittadini se' tu splendente? Letue ricchezze, cosa mobile e incerta; le tue bellezze, cosa fragile ecaduca; le tue dilicatezze, cosa vituperevole e femminile, ti fannonota nel falso giudicio de' popoli, il quale piú ad apparenza che adesistenza sempre riguarda. Deh! gloriera'ti tu de' tuoi mercatanti ede' molti artisti, donde tu se' piena? Scioccamente farai: l'uno fu,continuamente l'avarizia operandolo, mestiere servile; l'arte, laquale un tempo nobilitata fu dagl'ingegni, intanto che una secondanatura la fecero, dall'avarizia medesima è oggi corrotta, e nientevale. Gloriera'ti tu della viltá e ignavia di coloro li quali,percioché di molti loro avoli si ricordano, vogliono dentro da tedella nobiltá ottenere il principato, sempre con ruberie e contradimenti e con falsitá contra quella operanti? Vana gloria sará latua, e da coloro, le cui sentenzie hanno fondamento debito e stabilefermezza, schernita. Ahi! misera madre, apri gli occhi e guarda conalcuno rimordimento quello che tu facesti; e vergógnati almeno,essendo reputata savia come tu se', d'avere avuta ne' falli tuoi falsaelezione! Deh! se tu da te non avevi tanto consiglio, perché nonimitavi tu gli atti di quelle cittá, le quali ancora per le lorolaudevoli opere son famose? Atene, la quale fu l'uno degli occhi diGrecia, allora che in quella era la monarchia del mondo, periscienzia, per eloquenzia e per milizia splendida parimente; Argos,ancora pomposa per li titoli de' suoi re; Smirna, a noi reverenda inperpetuo per Niccolaio suo pastore; Pilos, notissima per lo vecchioNestore; Chimi, Chios e Colofon, cittá splendidissime per adietro,tutte insieme, qualora piú gloriose furono, non si vergognarono nédubitarono d'avere agra quistione della origine del divino poetaOmero, affermando ciascuna lui di sé averla tratta; e si ciascuna fececon argomenti forte la sua intenzione, che ancora la quistion vive; néè certo donde si fosse, perché parimente di cotal cittadino cosí l'unacome l'altra ancor si gloria. E Mantova, nostra vicina, di quale altracosa l'è piú alcuna fama rimasa, che l'essere stato Virgiliomantovano? il cui nome hanno ancora in tanta reverenzia, e sí è appotutti accettevole, che non solamente ne' publici luoghi, ma ancora inmolti privati si vede la sua imagine effigiata; mostrando in ciò che,non ostante che il padre di lui fosse lutifigolo, esso di tutti lorosia stato nobilitatore. Sulmona d'Ovidio, Venosa d'Orazio, Aquino diGiovenale, e altre molte, ciascuna si gloria del suo, e della lorosufficienzia fanno quistione. L'esemplo di queste non t'era vergognadi seguitare; le quali non è verisimile sanza cagione essere state evaghe e ténere di cittadini cosí fatti. Esse conobbero quello che tumedesima potevi conoscere e puoi; cioè che le costoro perpetueoperazioni sarebbero ancora dopo la lor ruina ritenitrici eterne delnome loro; cosí come al presente divulgate per tutto il mondo le fannoconoscere a coloro che non le vider giammai. Tu sola, non so da qualcechitá adombrata, hai voluto tenere altro cammino, e quasi molto date lucente, di questo splendore non hai curato: tu sola, quasi iCamilli, i Publicoli, i Torquati, i Fabrizi, i Catoni, i Fabi e gliScipioni con le loro magnifiche opere ti facessero famosa e in tefossero; non solamente, avendoti lasciato l'antico tuo cittadinoClaudiano cader delle mani, non hai avuto del presente poeta cura; mal'hai da te cacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto, deltuo sopranome. Io non posso fuggire di vergognarmene in tuo servigio.Ma ecco: non la fortuna, ma il corso della natura delle cose è statoal tuo disonesto appetito favorevole in tanto, in quanto quello che tuvolentieri, bestialmente bramosa, avresti fatto se nelle mani ti fossevenuto, cioè uccisolo, egli con la sua eterna legge l'ha operato.Morto è il tuo Dante Alighieri in quello esilio che tu ingiustamente,del suo valore invidiosa, gli désti. Oh peccato da non ricordare, chela madre alle virtú d'alcuno suo figliuolo porti livore! Ora adunquese' di sollicitudine libera, ora per la morte di lui vivi ne' tuoidifetti sicura, e puoi alle tue lunghe e ingiuste persecuzioni porrefine. Egli non ti può far, morto, quello che mai, vivendo, non t'avriafatto; egli giace sotto altro cielo che sotto il tuo, né piú déiaspettar di vederlo giammai, se non quel dí, nel quale tutti li tuoicittadini veder potrai, e le lor colpe da giusto giudice esaminate epunite.

Adunque se gli odii, l'ire e le inimicizie cessano per la morte diqualunque è che muoia, come si crede, comincia a tornare in temedesima e nel tuo diritto conoscimento; comincia a vergognartid'avere fatto contra la tua antica umanitá; comincia a volere apparirmadre e non piú inimica; concedi le debite lagrime al tuo figliuolo;concedigli la materna pietá; e colui, il quale tu rifiutasti, anzicacciasti vivo sí come sospetto, disidera almeno di riaverlo morto;rendi la tua cittadinanza, il tuo seno, la tua grazia alla suamemoria. In veritá, quantunque tu a lui ingrata e proterva fossi, eglisempre come figliuolo ebbe te in reverenza, né mai di quello onore cheper le sue opere seguire ti dovea, volle privarti, come tu lui dellatua cittadinanza privasti. Sempre fiorentino, quantunque l'esiliofosse lungo, si nominò e volle essere nominato, sempre a ogni altra tiprepose, sempre t'amò. Che dunque farai? starai sempre nella tuainiquitá ostinata? sará in te meno d'umanitá che ne' barbari, li qualitroviamo non solamente aver li corpi delli lor morti raddomandati, maper riavergli essersi virilmente disposti a morire? Tu vuogli che 'lmondo creda te essere nepote della famosa Troia e figliuola di Roma:certo, i figliuoli deono essere a' padri e agli avoli simiglianti.Priamo nella sua miseria non solamente raddomandò il corpo del mortoEttore, ma quello con altrettanto oro ricomperò. Li romani, secondoche alcuni pare che credano, feciono da Linterno venire l'ossa delprimo Scipione, da lui a loro con ragione nella sua morte vietate. Ecome che Ettore fosse con la sua prodezza lunga difesa de' troiani, eScipione liberatore non solamente di Roma, ma di tutta Italia (dellequali due cose forse cosí propiamente niuna si può dire di Dante),egli non è perciò da posporre; niuna volta fu mai che l'armi nondessero luogo alla scienzia. Se tu primieramente, e dove piú si sariaconvenuto, l'esemplo e l'opere delle savie cittá non imitasti, amendaal presente, seguendole. Niuna delle sette predette fu che o vera ofittizia sepultura non facesse ad Omero. E chi dubita che i mantovani,li quali ancora in Piettola onorano la povera casetta e i campi chefûr di Virgilio, non avessero a lui fatta onorevole sepoltura, seOttaviano Augusto, il quale da Brandizio a Napoli le sue ossa aveatrasportate, non avesse comandato quello luogo dove poste l'avea,volere loro essere perpetua requie? Sermona niun'altra cosa pianselungamente, se non che l'isola di Ponto tenga in certo luogo il suoOvidio; e cosí di Cassio Parma si rallegra tenendolo. Cerca tu adunquedi volere essere del tuo Dante guardiana; raddomandalo; mostra questaumanitá, presupposto che tu non abbi voglia di riaverlo; togli a temedesima con questa fizione parte del biasimo per adietro acquistato.Raddomandalo. Io son certo ch'egli non ti fia renduto; e a una ora tisarai mostrata pietosa, e goderai, non riavendolo, della tua innatacrudeltá. Ma a che ti conforto io? Appena che io creda, se i corpimorti possono alcuna cosa sentire, che quello di Dante si potessepartire di lá dove è, per dovere a te tornare. Egli giace concompagnia troppo piú laudevole che quella che tu gli potessi dare.Egli giace in Ravenna, molto piú per etá veneranda di te; e comeché lasua vecchiezza alquanto la renda deforme, ella fu nella sua giovanezzatroppo piú florida che tu non se'. Ella è quasi un generale sepolcrodi santissimi corpi, né niuna parte in essa si calca, dove su perreverendissime ceneri non si vada. Chi dunque disidererebbe di tornarea te per dovere giacere fra le tue, le quali si può credere che ancoraservino la rabbia e l'iniquitá nella vita avute, e male concordeinsieme si fuggano l'una da l'altra, non altramenti che facessero lefiamme de' due tebani? E comeché Ravenna giá quasi tutta del preziososangue di molti martiri si bagnasse, e oggi con reverenzia servi leloro reliquie, e similemente i corpi di molti magnifici imperadori ed'altri uomini chiarissimi e per antichi avoli e per opere virtuose,ella non si rallegra poco d'esserle stato da Dio, oltre a l'altre suedote, conceduto d'essere perpetua guardiana di cosí fatto tesoro, comeè il corpo di colui, le cui opere tengono in ammirazione tutto ilmondo, e del quale tu non ti se' saputa far degna. Ma certo egli non ètanta l'allegrezza d'averlo, quanta la invidia ch'ella ti porta che tut'intitoli della sua origine, quasi sdegnando che dove ella sia perl'ultimo dí di lui ricordata, tu allato a lei sii nominata per loprimo. E perciò con la tua ingratitudine ti rimani, e Ravenna de' tuoionori lieta si glori tra' futuri.

XIX

BREVE RICAPITOLAZIONE

Cotale, quale di sopra è dimostrata, fu a Dante la fine della vitafaticata da' vari studi; e, percioché assai convenevolemente le suefiamme, la familiare e la publica sollecitudine e il miserabile esilioe la fine di lui mi pare avere secondo la mia promessa mostrate,giudico sia da pervenire a mostrare della statura del corpo,dell'abito, e generalmente de' piú notabili modi servati nella suavita da lui; da quegli poi immediatamente vegnendo all'opere degne dinota, compilate da esso nel tempo suo, infestato da tanta turbinequanta di sopra brievemente è dichiarata.

XX

FATTEZZE E COSTUMI DI DANTE

Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che allamatura etá fu pervenuto, andò alquanto curvetto, ed era il suo andaregrave e mansueto, d'onestissimi panni sempre vestito in quell'abitoche era alla sua maturitá convenevole. Il suo volto fu lungo, e ilnaso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascellegrandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il coloreera bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e semprenella faccia malinconico e pensoso. Per la qual cosa avvenne un giornoin Verona, essendo giá divulgata pertutto la fama delle sue opere, emassimamente quella parte della sua Comedia, la quale egli intitolaInferno, ed esso conosciuto da molti e uomini e donne, che, passandoegli davanti a una porta dove piú donne sedevano, una di quellepianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui era nonfosse udita, disse all'altre donne:—Vedete colui che va nell'inferno,e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che lá giúsono?—Alla quale una dell'altre rispose semplicemente:—In veritá tudéi dir vero: non vedi tu com'egli ha la barba crespa e il color brunoper lo caldo e per lo fummo che è lá giú?—Le quali parole udendo eglidir dietro a sé, e conoscendo che da pura credenza delle donnevenivano, piacendogli, e quasi contento ch'esse in cotale opinionefossero, sorridendo alquanto, passò avanti.

Ne' costumi domestici e publici mirabilmente fu ordinato e composto, ein tutti piú che alcun altro cortese e civile.

Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sí in prenderlo all'ore ordinatee sí in non trapassare il segno della necessitá, quel prendendo; néalcuna curiositá ebbe mai piú in uno che in uno altro: li dilicatilodava, e il piú si pasceva di grossi, oltremodo biasimando coloro, liquali gran parte del loro studio pongono e in avere le cose elette equelle fare con somma diligenzia apparare; affermando questi cotalinon mangiare per vivere, ma piú tosto vivere per mangiare.

Niuno altro fu piú vigilante di lui e negli studi e in qualunque altrasollecitudine il pugnesse; intanto che piú volte e la sua famiglia ela donna se ne dolfono, prima che, a' suoi costumi adusate, ciòmettessero in non calere.

Rade volte, se non domandato, parlava, e quelle pesatamente e con voceconveniente alla materia di che diceva; non pertanto, lá dove sirichiedeva, eloquentissimo fu e facundo, e con ottima e prontaprolazione.

Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e aciascuno che a que' tempi era ottimo cantatore o sonatore fu amico eebbe sua usanza; e assai cose, da questo diletto tirato compose, lequali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali facea rivestire.

Quanto ferventemente esso fosse ad amor sottoposto, assai chiaro è giámostrato. Questo amore è ferma credenza di tutti che fosse movitoredel suo ingegno a dovere, prima imitando, divenir dicitore in volgare;poi, per vaghezza di piú solennemente mostrare le sue passioni, e digloria, sollecitamente esercitandosi in quella, non solamente passòciascuno suo contemporaneo, ma in tanto la dilucidò e fece bella, chemolti allora e poi di dietro a sé n'ha fatti e fará vaghi d'essereesperti.

Dilettossi similemente d'essere solitario e rimoto dalle genti,accioché le sue contemplazioni non gli fossero interrotte; e se purealcuna che molto piaciuta gli fosse ne gli veniva, essendo esso tragente, quantunque d'alcuna cosa fosse stato addomandato, giammaiinfino a tanto che egli o fermata o dannata la sua imaginazioneavesse, non avrebbe risposto al dimandante: il che molte volte,essendo egli alla mensa, ed essendo in cammino con compagni, e inaltre parti, domandato, gli avvenne.

Ne' suoi studi fu assiduissimo, quanto è quel tempo che ad essi sidisponea, in tanto che niuna novitá che s'udisse, da quegli il potevarimuovere. E, secondo che alcuni degni di fede raccontano di questodarsi tutto a cosa che gli piacesse, egli, essendo una volta tral'altre in Siena, e avvenutosi per accidente alla stazzone d'unospeziale, e quivi statogli recato uno libretto davanti promessogli, etra' valenti uomini molto famoso, né da lui stato giammai veduto, nonavendo per avventura spazio di portarlo in altra parte, sopra la pancache davanti allo speziale era, si pose col petto, e, messosi illibretto davanti, quello cupidissimamente cominciò a vedere. E comechépoco appresso in quella contrada stessa, e dinanzi da lui, per alcunageneral festa de' sanesi si cominciasse da gentili giovani e facesseuna grande armeggiata, e con quella grandissimi romori da' circustanti(sí come in cotal casi con istrumenti vari e con voci applaudenti suolfarsi), e altre cose assai v'avvenissero da dover tirare altrui avedersi, sí come balli di vaghe donne e giuochi molti di giovani; mainon fu alcuno che muovere quindi il vedesse, né alcuna volta levaregli occhi dal libro: anzi, postovisi quasi a ora di nona, prima fupassato vespro, e tutto l'ebbe veduto e quasi sommariamente compreso,che egli da ciò si levasse; affermando poi ad alcuni, che ildomandavano come s'era potuto tenere di riguardare a cosí bella festacome davanti a lui s'era fatta, sé niente averne sentito; per che allaprima maraviglia non indebitamente la seconda s'aggiunse a'dimandanti.

Fu ancora questo poeta di maravigliosa capacitá e di memoriafermissima e di perspicace intelletto, intanto che, essendo egli aParigi, e quivi sostenendo in una disputazione de quolibet che nellescuole della teologia si facea, quattordici quistioni da diversivalenti uomini e di diverse materie, con gli loro argomenti pro econtra fatti dagli opponenti, senza mettere in mezzo raccolse, eordinatamente, come poste erano state, recitò; quelle poi, seguendoquello medesimo ordine, sottilmente solvendo e rispondendo agliargomenti contrari. La qual cosa quasi miracolo da tutti i circustantifu reputata.

D'altissimo ingegno e di sottile invenzione fu similmente, sí come lesue opere troppo piú manifestano agl'intendenti che non potrebbonofare le mie lettere.

Vaghissimo fu e d'onore e di pompa per avventura piú che alla suaincl*ta virtú non si sarebbe richiesto. Ma che? qual vita è tantoumile, che dalla dolcezza della gloria non sia tócca? E per questavaghezza credo che oltre a ogni altro studio amasse la poesia,veggendo, comeché la filosofia ogni altra trapassi di nobiltá, laeccellenzia di quella con pochi potersi comunicare, e esserne per lomondo molti famosi: e la poesia piú essere apparente e dilettevole aciascuno, e li poeti rarissimi. E perciò, sperando per la poesí alloinusitato e pomposo onore della coronazione dell'alloro poterpervenire, tutto a lei si diede e istudiando e componendo. E certo ilsuo disiderio veniva intero, se tanto gli fosse stata la fortunagraziosa, che egli fosse giammai potuto tornare in Firenze, nellaquale sola sopra le fonti di San Giovanni s'era disposto di coronare;accioché quivi, dove per lo battesimo aveva preso il primo nome, quivimedesimo per la coronazione prendesse il secondo. Ma cosí andò che,quantunque la sua sufficienzia fosse molta, e per quella in ogniparte, ove piaciuto gli fosse, avesse potuto l'onore della laureapigliare (la quale non iscienzia accresce, ma è dell'acquistatacertissimo testimonio e ornamento); pur, quella tornata, che mai nondoveva essere, aspettando, altrove pigliar non la volle; e cosí, senzail molto disiderato onore avere, si morí. Ma, percioché spessaquistione si fa tra le genti, e che cosa sia la poesí e che il poeta,e donde sia questo nome venuto e perché di lauro sieno coronati ipoeti, e da pochi pare essere stato mostrato; mi piace qui di farealcuna transgressione, nella quale io questo alquanto dichiari,tornando, come piú tosto potrò, al proposito.

XXI

DIGRESSIONE SULL'ORIGINE DELLA POESIA

La prima gente ne' primi secoli, comeché rozzissima e inculta fosse,ardentissima fu di conoscere il vero con istudio, sí come noi veggiamoancora naturalmente disiderare a ciascuno. La quale veggendo il cielomuoversi con ordinata legge continuo, e le cose terrene avere certoordine e diverse operazioni in diversi tempi, pensarono di necessitádovere essere alcuna cosa, dalla quale tutte queste cose procedessero,e che tutte l'altre ordinasse, sí come superiore potenzia daniun'altra potenziata. E, questa investigazione seco diligentementeavuta, s'immaginarono quella, la quale «divinitá» ovvero «deitá»nominarono, con ogni cultivazione, con ogni onore e con piú che umanoservigio esser da venerare. E perciò ordinarono, a reverenza del nomedi questa suprema potenzia, ampissime ed egregie case, le quali ancoraestimarono fossero da separare cosí di nome, come di forma separateerano, da quelle che generalmente per gli uomini si abitavano; enominaronle «templi». E similmente avvisarono doversi [ordinar]ministri, li quali fossero sacri e, da ogni altra mondanasollecitudine rimoti, solamente a' divini servigi vacassero, permaturitá, per etá e per abito, piú che gli altri uomini, reverendi;gli quali appellarono «sacerdoti». E oltre a questo, inrappresentamento della immaginata essenzia divina, fecero in varieforme magnifiche statue, e a' servigi di quella vasellamenti d'oro emense marmoree e purpurei vestimenti e altri apparati assai pertinentia' sacrifici per loro istabiliti. E, accioché a questa cotale potenziatacito onore o quasi mutolo non si facesse, parve loro che con paroled'alto suono essa fosse da umiliare e alle loro necessitá renderepropizia. E cosí come essi estimavano questa eccedere ciascuna altracosa di nobilitá, cosí vollono che, di lungi da ogni plebeio o publicostilo di parlare, si trovassero parole degne di ragionare dinanzi alladivinitá, nelle quali le si porgessero sacrate lusinghe. E oltre aquesto, accioché queste parole paressero aver piú d'efficacia, volleroche fossero sotto legge di certi numeri composte, per li quali alcunadolcezza si sentisse, e cacciassesi il rincrescimento e la noia. Ecerto, questo non in volgar forma o usitata, ma con artificiosa edesquisita e nuova convenne che si facesse. La qual forma li greciappellano «poetes»; laonde nacque, che quello che in cotale formafatto fosse s'appellasse «poesis»; e quegli, che ciò facessero ocotale modo di parlare usassono, si chiamassero «poeti».

Questa adunque fu la prima origine del nome della poesia, e perconsequente de' poeti, comeché altri n'assegnino altre ragioni, forsebuone: ma questa mi piace piú.

Questa buona e laudevole intenzione della rozza etá mosse molti adiverse invenzioni nel mondo multiplicante per apparere; e dove iprimi una sola deitá onoravano, mostrarono i seguenti molte esserne,comeché quella una dicessono oltre ad ogni altra ottenere ilprincipato; le quali molte vollero che fossero il Sole, la Luna,Saturno, Giove e ciascuno degli altri de' sette pianeti, dagli loroeffetti dando argomento alla loro deitá; e da questi vennero amostrare ogni cosa utile agli uomini, quantunque terrena fosse, deitáessere, sí come il fuoco, l'acqua, la terra e simiglianti. Alle qualitutte e versi e onori e sacrifici s'ordinarono. E poi susseguentementecominciarono diversi in diversi luoghi, chi con uno ingegno, chi conun altro, a farsi sopra la moltitudine indòtta della sua contradamaggiori; diffinendo le rozze quistioni, non secondo scritta legge,ché non l'aveano ancora, ma secondo alcuna naturale equitá, dellaquale piú uno che un altro era dotato; dando alla loro vita e alliloro costumi ordine, dalla natura medesima piú illuminati; resistendocon le loro corporali forze alle cose avverse possibili ad avvenire; ea chiamarsi re; e mostrarsi alla plebe e con servi e con ornamenti nonusati infino a que' tempi dagli uomini a farsi ubbidire; e ultimamentea farsi adorare. Il che, solo che fosse chi 'l presumesse, sanzatroppa difficultá avvenia; percioché a' rozzi popoli parevano, cosívedendogli, non uomini ma iddii. Questi cotali, non fidandosi tantodelle lor forze, cominciarono ad aumentare le religioni, e con la fededi quelle a impaurire i suggetti e a strignere con sacramenti allaloro obbedienza quegli li quali non vi si sarebbono potuti con forzacostrignere. E oltre a questo diedono opera a deificare li lor padri,li loro avoli e li loro maggiori, accioché piú fossero e temuti eavuti in reverenzia dal vulgo. Le quali cose non si poteronocomodamente fare senza l'oficio de' poeti, li quali, sí per ampliarela loro fama, sí per compiacere a' prencipi, sí per dilettare isudditi, e sí per persuadere il virtuosamente operare a ciascuno;quello che con aperto parlare saria suto della loro intenzionecontrario, con fizioni varie e maestrevoli, male da' grossi oggi nonche a quel tempo intese, facevano credere quello che li prencipivolevan che si credesse; servando negli nuovi iddii e negli uomini,gli quali degl'iddii nati fingevano, quello medesimo stile che nelvero Iddio solamente e nel suo lusingarlo avevan gli primi usato. Daquesto si venne allo adequare i fatti de' forti uomini a queglidegl'iddii; donde nacque il cantare con eccelso verso le battaglie egli altri notabili fatti degli uomini mescolatamente con queglidegl'iddii; il quale e fu ed è oggi, insieme con l'altre cose di sopradette, uficio ed esercizio di ciascuno poeta. E percioché molti nonintendenti credono la poesia niuna altra cosa essere che solamente unfabuloso parlare, oltre al promesso mi piace brievemente quella essereteologia dimostrare, prima ch'io vegna a dire perché di lauro sicoronino i poeti.

XXII

DIFESA DELLA POESIA

Se noi vorremo por giú gli animi e con ragion riguardare, io mi credoche assai leggiermente potremo vedere gli antichi poeti avere imitate,tanto quanto a lo 'ngegno umano è possibile, le vestigie dello Spiritosanto; il quale, sí come noi nella divina Scrittura veggiamo, per labocca di molti, i suoi altissimi secreti revelò a' futuri, facendoloro sotto velame parlare ciò che a debito tempo per opera, senzaalcuno velo, intendeva di dimostrare. Impercioché essi, se noiragguarderemo ben le loro opere, accioché lo imitatore non paressediverso dallo imitato, sotto coperta d'alcune fizioni, quello chestato era, o che fosse al loro tempo presente, o che disideravano oche presumevano che nel futuro dovesse avvenire, discrissono; per che,come che ad uno fine l'una scrittura e l'altra non riguardasse, masolo al modo del trattare, al che piú guarda al presente l'animo mio,ad amendune si potrebbe dare una medesima laude, usando di Gregorio leparole. Il quale della sacra Scrittura dice ciò che ancora dellapoetica dir si puote, cioè che essa in un medesimo sermone, narrando,apre il testo e il misterio a quel sottoposto; e cosí ad un'oracoll'uno gli savi esercita e con l'altro gli semplici riconforta, e hain publico donde li pargoletti nutrichi, e in occulto serva quelloonde essa le menti de' sublimi intenditori con ammirazione tengasospese. Percioché pare essere un fiume, accioché io cosí dica, pianoe profondo, nel quale il piccioletto agnello con gli piè vada, e ilgrande elefante ampissimamente nuoti. Ma da procedere è al verificaredelle cose proposte.

Intende la divina Scrittura, la qual noi «teologia» appelliamo, quandocon figura d'alcuna istoria, quando col senso d'alcuna visione, quandocon lo 'ntendimento d'alcun lamento, e in altre maniere assai,mostrarci l'alto misterio della incarnazione del Verbo divino, la vitadi quello, le cose occorse nella sua morte, e la resurrezionevittoriosa, e la mirabile ascensione, e ogni altro suo atto, per loquale noi ammaestrati, possiamo a quella gloria pervenire, la qualeEgli e morendo e resurgendo ci aperse, lungamente stata serrata a noiper la colpa del primiero uomo. Cosí li poeti nelle loro opere, lequali noi chiamiamo «poesia», quando con fizioni di vari iddii, quandocon trasmutazioni d'uomini in varie forme, e quando con leggiadrepersuasioni, ne mostrano le cagioni delle cose, gli effetti dellevirtú e de' vizi, e che fuggire dobbiamo e che seguire, acciochépervenire possiamo, virtuosamente operando, a quel fine, il qualeessi, che il vero Iddio debitamente non conosceano, somma salutecredevano. Volle lo Spirito santo mostrare nel rubo verdissimo, nelquale Moisé vide, quasí come una fiamma ardente, Iddio, la verginitádi Colei che piú che altra creatura fu pura, e che dovea essereabitazione e ricetto del Signore della natura, non doversi, per laconcezione né per lo parto del Verbo del Padre, contaminare. Volle perla visione veduta da Nabucodonosor, nella statua di piú metalliabbattuta da una pietra convertita in monte, mostrare tutte lepreterite etá dalla dottrina di Cristo, il quale fu ed è viva pietra,dovere summergersi; e la cristiana religione, nata di questa pietra,divenire una cosa immobile e perpetua, sí come gli monti veggiamo.Volle nelle lamentazioni di Ieremia, l'eccidio futuro di Ierusalemdichiarare.

Similemente li nostri poeti, fingendo Saturno avere molti figliuoli, equegli, fuori che quattro, divorar tutti, niuna altra cosa vollono pertale fizione farci sentire, se non per Saturno il tempo, nel qualeogni cosa si produce, e come ella in esso è prodotta, cosí è esso ditutte corrompitore, e tutte le riduce a niente. I quattro suoifigliuoli non divorati da lui, è l'uno Giove, cioè l'elemento delfuoco; il secondo è Giunone, sposa e sorella di Giove, cioè l'aere,mediante la quale il fuoco quaggiú opera li suoi effetti: il terzo èNettuno, iddio del mare, cioè l'elemento dell'acqua; e il quarto eultimo è Plutone, iddio del ninferno, cioè la terra, piú bassa chealcuno altro elemento. Similemente fingono li nostri poeti Erculed'uomo essere in dio trasformato, e Licaone in lupo: moralmentevolendo mostrarci che, virtuosamente operando, come fece Ercule,l'uomo diventa iddio per participazione in cielo; e, viziosamenteoperando, come Licaone fece, quantunque egli paia uomo, nel vero sipuò dire quella bestia, la quale da ciascuno si conosce per effettopiú simile al suo difetto: sí come Licaone per rapacitá e peravarizia, le quali a lupo sono molto conformi, si finge in lupo essermutato. Similemente fingono li nostri poeti la bellezza de' campielisi, per la quale intendo la dolcezza del paradiso; e la oscuritá diDite, per la quale prendo l'amaritudine dello 'nferno; accioché noi,tratti dal piacere dell'uno, e dalla noia dell'altro spaventati,seguitiamo le virtú che in Eliso ci meneranno, e i vizi fuggiamo chein Dite ci farieno trarupare. Io lascio il tritare con piú particulariesposizioni queste cose, percioché, se quanto si converrebbe epotrebbe le volessi chiarire, comeché elle piú piacevoli nedivenissero e piú facessero forte il mio argomento, dubito non mitirassero piú oltre molto che la principale materia non richiede e cheio non voglio andare. E certo, se piú non se ne dicesse che quelloch'è detto, assai si dovrebbe comprendere la teologia e la poesiaconvenirsi quanto nella forma dell'operare, ma nel suggetto dicoquelle non solamente molto essere diverse, ma ancora avverse in alcunaparte: percioché il suggetto della sacra teologia è la divina veritá,quello dell'antica poesí sono gl'iddii de' gentili e gli uomini.Avverse sono, in quanto la teologia niuna cosa presuppone se non vera;la poesia ne suppone alcune per vere, le quali sono falsissime ederronee e contra la cristiana religione. Ma, percioché alcunidisensati si levano contra li poeti, dicendo loro sconce favole e malea niuna veritá consonanti avere composte, e che in altra forma che confavole dovevano la loro sofficienzia mostrare e a' mondani dare laloro dottrina; voglio ancora alquanto piú oltre procedere col presenteragionamento.

Guardino adunque questi cotali le visioni di Daniello, quelle d'Isaia,quelle d'Ezechiel e degli altri del Vecchio Testamento con divinapenna discritte, e da Colui mostrate al quale non fu principio né saráfine. Guardinsi ancora nel Nuovo le visioni dell'evangelista, pieneagl'intendenti di mirabile veritá; e, se niuna poetica favola sitruova tanto di lungi dal vero o dal verisimile, quanto nellacorteccia appaiono queste in molte parti, concedasi che solamente ipoeti abbiano dette favole da non potere dare diletto né frutto. Senzadire alcuna cosa alla riprensione che fanno de' poeti, in quanto laloro dottrina in favole ovvero sotto favole hanno mostrata, mi potreipassare; conoscendo che, mentre che essi mattamente gli poetiriprendono di ciò, incautamente caggiono in biasimare quello Spirito,il quale nulla altra cosa è che via, vita e veritá: ma pure alquantointendo di soddisfargli.

Manifesta cosa è che ogni cosa, che con fatica s'acquista, averealquanto piú di dolcezza che quella che vien senz'affanno. La veritápiana, percioch'è tosto compresa con piccole forze, diletta e passanella memoria. Adunque, accioché con fatica acquistata fosse piúgrata, e perciò meglio si conservasse, li poeti sotto cose molto adessa contrarie apparenti, la nascosero; e perciò favole fecero, piúche altra coperta, perché la bellezza di quelle attraesse coloro, liquali né le dimostrazion filosofiche, né le persuasioni avevano potutoa sé tirare. Che dunque direm de' poeti? terremo ch'essi sieno statiuomini insensati, come li presenti dissensati, parlando e nonsappiendo che, gli giudicano? Certo, no; anzi furono nelle lorooperazioni di profondissimo sentimento, quanto è nel frutto nascoso, ed'eccellentissima e d'ornata eloquenzia nelle cortecce e nelle frondiapparenti. Ma torniamo dove lasciammo.

Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, doveuno medesimo sia il suggetto; anzi dico piú, che la teologianiun'altra cosa è che una poesia di Dio. E ch'altra cosa è che poeticafizione nella Scrittura dire Cristo essere ora leone e ora agnello eora vermine, e quando drago e quando pietra, e in altre maniere molte,le quali voler tutte raccontare sarebbe lunghissimo? che altro suonanole parole del Salvatore nello evangelio, se non uno sermone da' sensialieno? il quale parlare noi con piú usato vocabolo chiamiamo«allegoria». Dunque bene appare, non solamente la poesí essereteologia, ma ancora la teologia essere poesia. E certo, se le mieparole meritano poca fede in sí gran cosa, io non me ne turberò; macredasi ad Aristotile, degnissimo testimonio a ogni gran cosa, ilquale afferma sé aver trovato li poeti essere stati li primiteologizzanti. E questo basti quanto a questa parte; e torniamo amostrare perché a' poeti solamente, tra gli scienziati, l'onore dellacorona dell'alloro conceduto fosse.

XXIII

DELL'ALLORO CONCEDUTO AI POETI

Tra l'altre nazioni, le quali sopra il circuito della terra son molte,li greci si crede che sieno quegli alli quali primieramente lafilosofia sé e li suoi segreti aprisse; de' tesori della quale essitrassero la dottrina militare, la vita politica e altre care coseassai, per le quali essi oltre a ogni altra nazione divennero famosi ereverendi. Ma intra l'altre, tratte del costei tesoro da loro, fu lasantissima sentenzia di Solone nel principio posta di questa operetta;e accioché la loro republica, la quale piú che altra allora fioriva,diritta e andasse e stesse sopra due piedi, e le pene a' nocenti e imeriti ai valorosi magnificamente ordinarono e osservarono. Ma, intragli altri meriti stabiliti da loro a chi bene adoperasse, fu questo ilprecipuo: di coronare in publico, e con publico consentimento, difrondi d'alloro li poeti dopo la vittoria delle loro fatiche, egl'imperadori, li quali vittoriosamente avessero la republicaaumentata; giudicando che igual gloria si convenisse a colui per lacui virtú le cose umane erano e servate e aumentate, che a colui dacui le divine eran trattate. E comeché di questo onore li grecifossero inventori, esso poi trapassò a' latini, quando la gloria el'arme parimente di tutto il mondo diedero luogo al romano nome; eancora, almeno nelle coronazioni de' poeti, comeché rarissimamenteavvenga, vi dura. Ma, perché a tale coronazione piú il lauro che altrafronda eletto sia, non dovrá essere a veder rincrescevole.

XXIV

ORIGINE DI QUESTA USANZA

Sono alcuni li quali credono, percioché sanno Danne amata da Febo e inlauro convertita, essendo Febo e il primo autore e fautore de' poetistato e similmente triunfatore, per amore a quelle frondi portato, diquelle le sue cetere e i triunfi aver coronati; e quinci essere statopreso esempio dagli uomini, e per conseguente essere quello, che daFebo fu prima fatto, cagione di tale coronazione e di tai frondiinfino a questo giorno a' poeti e agl'imperadori. E certo taleopinione non mi spiace, né nego cosí poter essere stato; ma tuttaviame muove altra ragione, la quale è questa. Secondo che voglionocoloro, li quali le virtú delle piante ovvero la loro naturainvestigarono, il lauro tra l'altre piú sue proprietá n'ha trelaudevoli e notevoli molto: la prima si è, come noi veggiamo, che maiegli non perde né verdezza, né fronda; la seconda si è, che non sitruova questo albore mai essere stato fulminato, il che di niuno altroleggiamo essere avvenuto; la terza, che egli è odorifero molto, sícome noi sentiamo: le quali tre proprietá estimarono gli antichiinventori di questo onore convenirsi con le virtuose opere de' poeti ede' vittoriosi imperadori. E primieramente la perpetua viriditá diqueste frondi dissono dimostrare la fama delle costoro opere, cioè dicoloro che d'esse si coronavano o coronerebbono nel futuro, sempredovere stare in vita. Appresso estimarono l'opere di questi cotaliessere di tanta potenzia, che né il fuoco della invidia, né la folgoredella lunghezza del tempo, la quale ogni cosa consuma, dovesse maiqueste potere fulminare, se non come quello albero fulminava laceleste folgore. E oltre a questo diceano queste opere de' giá dettiper lunghezza di tempo mai dover divenire meno piacevoli e graziose achi l'udisse o le leggesse, ma sempre dovere essere accettevoli eodorose. Laonde meritamente si confaceva la corona di cotai frondi,piú ch'altra, a cotali uomini, gli cui effetti, in tanto quanto vederepossiamo, erano a lei conformi. Per che non senza cagione il nostroDante era ardentissimo disideratore di tale onore ovvero di cotaletestimonia di tanta vertú, quale questa è a coloro, li quali degni sifanno di doversene ornare le tempie. Ma tempo è di tornare lá onde,intrando in questo, ci dipartimmo.

XXV

CARATTERE DI DANTE

Fu il nostro poeta, oltre alle cose predette, d'animo alto edisdegnoso molto; tanto che, cercandosi per alcun suo amico, il qualead istanzia de' suoi prieghi il facea, che egli potesse ritornare inFiorenza, il che egli oltre ad ogni altra cosa sommamente disiderava,né trovandosi a ciò alcun modo con coloro li quali il governo dellarepublica allora aveano nelle mani, se non uno, il quale era questo:che egli per certo spazio stesse in prigione, e dopo quello in alcunasolennitá publica fosse misericordievolmente alla nostra principaleecclesia offerto, e per conseguente libero e fuori d'ognicondennagione per adietro fatta di lui; la qual cosa parendogliconvenirsi e usarsi in qualunque e depressi e infami uomini, e non inaltri: per che oltre al suo maggiore disiderio, preelesse di stare inesilio, anzi che per cotal via tornare in casa sua. Oh isdegnolaudevole di magnanimo, quanto virilmente operasti, reprimendol'ardente disio del ritornare per via meno che degna ad uomo nelgrembo della filosofia nutricato!

Molto simigliantemente presunse di sé, né gli parve meno valere,secondo che li suoi contemporanei rapportano, che el valesse; la qualcosa, tra l'altre volte, apparve una notabilmente, mentre ch'egli eracon la sua setta nel colmo del reggimento della republica. Che,conciofossecosaché per coloro li quali erano depressi fosse chiamato,mediante Bonifazio papa ottavo, a ridirizzare lo stato della nostracittá, un fratello ovvero congiunto di Filippo allora re di Francia,il cui nome fu Carlo; si ragunarono a uno consiglio per provedere aquesto fatto tutti li prencipi della setta, con la quale esso tenea; equivi tra l'altre cose providero, che ambasceria si dovesse mandare alpapa, il quale allora era a Roma, per la quale s'inducesse il dettopapa a dovere ostare alla venuta del detto Carlo, ovvero lui, conconcordia della setta, la quale reggeva, far venire. E venuto aldiliberare chi dovesse esser prencipe di cotale legazione, fu pertutti detto che Dante fosse desso. Alla quale richiesta Dante,alquanto sopra a sé stato, disse:—Se io vo, chi rimane? se iorimango, chi va?,—quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse,e per cui tutti gli altri valessero. Questa parola fu intesa eraccolta, ma quello che di ciò seguisse non fa al presente proposito,e però, passando avanti, il lascio stare.

Oltre a queste cose, fu questo valente uomo in tutte le sue avversitáfortissimo: solo in una cosa non so se io mi dica fu impaziente oanimoso, cioè in opera pertenente a parte, poi che in esilio fu,troppo piú che alla sua sufficienzia non appartenea, e ch'egli nonvolea che di lui per altrui si credesse. E accioché a qual parte fossecosí animoso e pertinace appaia, mi pare sia da procedere alquanto piúoltre scrivendo.

Io credo che giusta ira di Dio permettesse, giá è gran tempo, quasitutta Toscana e Lombardia in due parti dividersi: delle quali, ondecotali nomi s'avessero, non so; ma l'una si chiamò e chiama «parteguelfa», e l'altra fu «ghibellina» chiamata. E di tanta efficacia ereverenzia furono negli stolti animi di molti questi due nomi, che,per difendere quello che alcuno avesse eletto per suo contra ilcontrario, non gli era di perdere gli suoi beni e ultimamente la vita,se bisogno fosse fatto, malagevole. E sotto questi titoli molte voltele cittá italiche sostennero di gravissime pressure e mutamenti; eintra l'altre la nostra cittá, quasi capo e dell'uno nome edell'altro, secondo il mutamento de' cittadini; intanto che glimaggiori di Dante per guelfi da' ghibellini furono due volte cacciatidi casa loro, ed egli similemente, sotto il titolo di guelfo, tenne ifreni della republica in Firenze. Della quale cacciato, come mostratoè, non da' ghibellini ma da' guelfi, e veggendo sé non potereritornare, in tanto mutò l'animo, che niuno piú fiero ghibellino e a'guelfi avversario fu come lui; e quello di che io piú mi vergogno inservigio della sua memoria è che publichissima cosa è in Romagna, luiogni femminella, ogni piccol fanciullo ragionante di parte e dannantela ghibellina, l'avrebbe a tanta insania mosso, che a gittare lepietre l'avrebbe condotto, non avendo taciuto. E con questa animositási visse infino alla morte.

Certo, io mi vergogno dovere con alcuno difetto maculare la fama dicotanto uomo; ma il cominciato ordine delle cose in alcuna parte ilrichiede; percioché, se nelle cose meno che laudevoli in lui, mitacerò, io torrò molta fede alle laudevoli giá mostrate. A luimedesimo adunque mi scuso, il quale per avventura me scrivente conisdegnoso occhio d'alta parte del cielo ragguarda.

Tra cotanta virtú, tra cotanta scienzia, quanta dimostrato è di sopraessere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo lalussuria, e non solamente ne' giovani anni, ma ancora ne' maturi. Ilquale vizio, comeché naturale e comune e quasi necessario sia, nelvero non che commendare, ma scusare non si può degnamente. Ma chi sarátra' mortali giusto giudice a condennarlo? Non io. Oh poca fermezza,oh bestiale appetito degli uomini, che cosa non possono le femmine innoi, s'elle vogliono, che, eziandio non volendo, posson gran cose?Esse hanno la vaghezza, la bellezza e il naturale appetito e altrecose assai continuamente per loro ne' cuori degli uomini procuranti; eche questo sia vero, lasciamo stare quello che Giove per Europa, oErcule per Iole, o Paris per Elena facessero; che, percioché poetichecose sono, molti di poco sentimento le dirien favole; ma mostrisi perle cose non convenevoli ad alcuno di negare. Era ancora nel mondo piúche una femmina quando il nostro primo padre, lasciato il comandamentofattogli dalla propia bocca di Dio, s'accostò alle persuasioni di lei?Certo no. E David, non ostante che molte n'avesse, solamente vedutaBersabé, per lei dimenticò Iddio, il suo regno, sé e la sua onestá, eadultero prima e poi omicida divenne: che si dee credere ch'egliavesse fatto, se ella alcuna cosa avesse comandato? E Salomone, al cuisenno niuno, dal figliuolo di Dio in fuori, aggiunse mai, nonabbandonò colui che savio l'aveva fatto, e per piacere a una femminas'inginocchiò e adorò Baalim? Che fece Erode? che altri molti, daniuna altra cosa tirati che dal piacer loro? Adunque tra tanti e talinon iscusato, ma, accusato con assai meno curva fronte che solo, puòpassare il nostro poeta. E questo basti al presente de' suoi costumipiú notabili avere contato.

XXVI

DELLE OPERE COMPOSTE DA DANTE

Compose questo glorioso poeta piú opere ne' suoi giorni, delle qualifare ordinata memoria credo che sia convenevole, accioché né alcunodelle sue s'intitolasse, né a lui fossero per avventura intitolatel'altrui. Egli primieramente, duranti ancora le lagrime della mortedella sua Beatrice, quasi nel suo ventesimosesto anno compose in unvolumetto, il quale egli intitolò Vita nova, certe operette, sí comesonetti e canzoni, in diversi tempi davanti in rima fatte da lui,maravigliosamente belle; di sopra da ciascuna partitamente eordinatamente scrivendo le cagioni che a quelle fare l'avean mosso, edi dietro ponendo le divisioni delle precedenti opere. E comeché eglid'avere questo libretto fatto, negli anni piú maturi si vergognassemolto, nondimeno, considerata la sua etá, è egli assai bello epiacevole, e massimamente a' volgari.

Appresso questa compilazione piú anni, raguardando egli della sommitádel governo della republica, sopra la quale stava, e veggendo ingrandissima parte, cosí come di sí fatti luoghi si vede, qual fosse lavita degli uomini, e quali fossero gli errori del vulgo, e comefossero pochi i disvianti da quello e di quanto onore degni fossero, equegli, che a quello s'accostassero, di quanta confusione; dannandogli studi di questi cotali e molto piú li suoi commendando, gli vennenell'animo un alto pensiero, per lo quale a un'ora, cioè in unamedesima opera, propose, mostrando la sua sofficienzia, di mordere congravissime pene i viziosi, e con altissimi premi li valorosi onorare,e a sé perpetua gloria apparecchiare. E, percioché, come giá èmostrato, egli aveva a ogni studio preposta la poesia, poetica operaestimò di comporre. E, avendo molto davanti premeditato quello chefare dovesse, nel suo trentacinquesimo anno si cominciò a dare almandare ad effetto ciò che davanti premeditato avea, cioè a voleresecondo i meriti e mordere e premiare, secondo la sua diversitá, lavita degli uomini. La quale, percioché conobbe essere di tre maniere,cioè viziosa, o da' vizi partentesi e andante alla vertú, o virtuosa;quella in tre libri, dal mordere la viziosa cominciando e finendo nelpremiare la virtuosa, mirabilmente distinse in un volume, il qualetutto intitolò Comedia. De' quali tre libri egli ciascuno distinseper canti e i canti per rittimi, sí come chiaro si vede; e quello inrima volgare compose con tanta arte, con sí mirabile ordine e con síbello, che niuno fu ancora che giustamente quello potesse in alcunoatto riprendere. Quanto sottilmente egli in esso poetasse pertutto,coloro, alli quali è tanto ingegno prestato che 'ntendano, il possonovedere. Ma, sí come noi veggiamo le gran cose non potersi in brievetempo comprendere, e per questo conoscer dobbiamo cosí alta, cosígrande, cosí escogitata impresa, come fu tutti gli atti degli uomini ei loro meriti poeticamente volere sotto versi volgari e rimatiracchiudere, non essere stato possibile in picciolo spazio avere alsuo fine recata: e massimamente da uomo, il quale da molti e vari casidella fortuna, pieni tutti d'angoscia e d'amaritudine venenati, siastato agitato (come di sopra mostrato è che fu Dante): per chedall'ora che di sopra è detta che egli a cosí alto lavorio si diedeinfino allo stremo della sua vita, comeché altre opere, come apparirá,non ostante questa, componesse in questo mezzo, gli fu faticacontinua. Né fia di soperchio in parte toccare d'alcuni accidentiintorno al principio e alla fine di quella avvenuti.

Dico che, mentre che egli era piú attento al glorioso lavoro, e giádella prima parte di quello, la quale intitola Inferno, avevacomposti sette canti, mirabilmente fingendo, e non mica come gentile,ma come cristianissimo poetando, cosa sotto questo titolo mai avantinon fatta; sopravvenne il gravoso accidente della sua cacciata, o fugache chiamar si convegna, per lo quale egli e quella e ogni altra cosaabbandonata, incerto di se medesimo, piú anni con diversi amici esignori andò vagando. Ma, come noi dovemo certissimamente credere aquello che Iddio dispone niuna cosa contraria la fortuna potereoperare, per la quale, e se forse vi può porre indugio, istôrla possadal debito fine; avvenne che alcuno per alcuna sua scrittura forse alui opportuna, cercando fra cose di Dante in certi forzieri statefuggite subitamente in luoghi sacri, nel tempo che tumultuosamente laingrata e disordinata plebe gli era, piú vaga di preda che di giustavendetta, corsa alla casa, trovò li detti sette canti stati da Dantecomposti, gli quali con ammirazione, non sappiendo che si fossero,lesse, e, piacendogli sommamente, e con ingegno sottrattigli del luogodove erano, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino dimesser Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore per rima inFirenze, e mostrogliele. Li quali veggendo Dino, uomo d'altointelletto, non meno che colui che portati gliele avea, si maravigliòsí per lo bello e pulito e ornato stile del dire, sí per la profonditádel senso, il quale sotto la bella corteccia delle parole gli parevasentire nascoso: per le quali cose agevolmente insieme col portatoredi quegli, e sí ancora per lo luogo onde tratti gli avea, estimòquegli essere, come erano, opera stata di Dante. E, dolendosi quellaessere imperfetta rimasa, comeché essi non potessero seco presumere aqual fine fosse il termine suo, fra loro diliberarono di sentire doveDante fosse, e quello, che trovato avevan, mandargli, accioché, sepossibile fosse, a tanto principio desse lo 'mmaginato fine. E,sentendo dopo alcuna investigazione lui essere appresso il marcheseMorruello, non a lui, ma al marchese scrissono il loro disiderio, emandarono li sette canti; gli quali poi che il marchese, uomo assaiintendente, ebbe veduti e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante,domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero; li quali Dantericonosciuti subito, rispose che sua. Allora il pregò il marcheseche gli piacesse di non lasciare senza debito fine sí altoprincipio.—Certo—disse Dante,—io mi credea nella ruina delle miecose questi con molti altri miei libri avere perduti, e perciò, sí perquesta credenza e sí per la moltitudine dell'altre fatiche per lo mioesilio sopravvenute, del tutto avea l'alta fantasia, sopra quest'operapresa, abbandonata; ma, poiché la fortuna inopinatamente me gli haripinti dinanzi, e a voi aggrada, io cercherò di ritornarmi a memoriail primo proposito, e procederò secondo che data mi fia la grazia.—Ereassunta, non sanza fatica, dopo alquanto tempo la fantasia lasciata,seguí: «Io dico, seguitando, ch'assai prima» ecc.; dove assaimanifestamente, chi ben riguarda, può la ricongiunzione dell'operaintermessa conoscere.

Ricominciata adunque da Dante la magnifica opera, non forse, secondoche molti estimerebbono, senza piú interromperla la perdusse allafine, anzi piú volte, secondo che la gravitá de' casi sopravvegnentirichiedea, quando mesi e quando anni, senza potervi operare alcunacosa, mise in mezzo; né tanto si poté avacciare, che prima nolsopraggiugnesse la morte, ch'egli tutta publicare la potesse. Egli erasuo costume, qualora sei o otto o piú o meno canti fatti n'avea,quegli, prima che alcun altro gli vedesse, donde che egli fosse,mandare a messer Cane della Scala, il quale egli oltre a ogni altrouomo avea in reverenza; e, poi che da lui eran veduti, ne facea copiaa chi la ne volea. E in cosí fatta maniera avendogliele tutti, fuoriche gli ultimi tredici canti, mandati, e quegli avendo fatti, néancora mandatigli; avvenne ch'egli, senza avere alcuna memoria dilasciargli, si mori. E, cercato da que' che rimasero, e figliuoli ediscepoli, piú volte e in piú mesi, fra ogni sua scrittura, se allasua opera avesse fatta alcuna fine, né trovandosi per alcun modo licanti residui, essendone generalmente ogni suo amico cruccioso, cheIddio non l'aveva almeno tanto prestato al mondo ch'egli il picciolorimanente della sua opera avesse potuto compiere, dal piú cercare, nontrovandogli, s'erano, disperati, rimasi.

Eransi Iacopo e Piero, figliuoli di Dante, de' quali ciascuno eradicitore in rima, per persuasioni d'alcuni loro amici, messi a volere,in quanto per loro si potesse, supplire la paterna opera, acciochéimperfetta non procedesse; quando a Iacopo, il quale in ciò era moltopiú che l'altro fervente, apparve una mirabile visione, la quale nonsolamente dalla stolta presunzione il tolse, ma gli mostrò dovefossero li tredici canti, li quali alla divina Comedia mancavano, eda loro non saputi trovare.

Raccontava uno valente uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino,lungamente discepolo stato di Dante, che, dopo l'ottavo mese dellamorte del suo maestro, era una notte, vicino all'ora che noi chiamiamo«matutino», venuto a casa sua il predetto Iacopo, e dettogli sé quellanotte, poco avanti a quell'ora, avere nel sonno veduto Dante suopadre, vestito di candidissimi vestimenti e d'una luce non usatarisplendente nel viso, venire a lui; il quale gli parea domandares'egli vivea, e udire da lui per risposta di sí, ma della vera vita,non della nostra; per che, oltre a questo, gli pareva ancoradomandare, s'egli avea compiuta la sua opera anzi il suo passare allavera vita, e, se compiuta l'avea, dove fosse quello che vi mancava, daloro giammai non potuto trovare. A questo gli parea la seconda voltaudire per risposta:—Sí, io la compie'—; e quinci gli parea che 'lprendesse per mano e menasselo in quella camera dove era uso didormire quando in questa vita vivea; e, toccando una parte di quella,dicea:—Egli è qui quello che voi tanto avete cercato.—E questaparola detta, ad una ora il sonno e Dante gli parve che si partissono.Per la qual cosa affermava, sé non esser potuto stare senza venirgli asignificare ciò che veduto avea, accioché insieme andassero a cercarenel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente nella memoriaaveva segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gliavesse disegnato. Per la quale cosa, restando ancora gran pezzo dinotte, mossisi insieme, vennero al mostrato luogo, e quivi trovaronouna stuoia al muro confitta, la quale leggermente levatane, videro nelmuro una finestretta da niuno di loro mai piú veduta, né saputoch'ella vi fosse, e in quella trovarono alquante scritte, tutte perl'umiditá del muro muffate e vicine al corrompersi, se guari piú statevi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, leggendole,videro contenere li tredici canti tanto da loro cercati. Per la qualcosa lietissimi, quegli riscritti, secondo l'usanza dell'autore primagli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta opera ricongiunsonocome si convenia. In cotale maniera l'opera, in molti anni compilata,si vide finita.

Muovono molti, e intra essi alcuni savi uomini generalmente unaquistione cosí fatta: che conciofossecosa Dante fosse in iscienziasolennissimo uomo, perché a comporre cosí grande, di sí alta materia esí notabile libro, come è questa sua Comedia, nel fiorentino idiomasi disponesse; perché non piú tosto in versi latini, come gli altripoeti precedenti hanno fatto. A cosí fatta domanda rispondere, tramolte ragioni, due a l'altre principali me ne occorrono. Delle qualila prima è per fare utilitá piú comune a' suoi cittadini e agli altriitaliani: conoscendo che, se metricamente in latino, come gli altripoeti passati, avesse scritto, solamente a' letterati avrebbe fattoutile; scrivendo in volgare fece opera mai piú non fatta, e non tolseil non potere esser inteso da' letterati, e mostrando la bellezza delnostro idioma e la sua eccellente arte in quello, e diletto eintendimento di sé diede agl'idioti, abbandonati per adrieto daciascheduno. La seconda ragione, che a questo il mosse, fu questa.Vedendo egli li liberali studi del tutto abbandonati, e massimamenteda' prencipi e dagli altri grandi uomini, a' quali si soleano lepoetiche fatiche intitolare, e per questo e le divine opere diVirgilio e degli altri solenni poeti non solamente essere in pocopregio divenute, ma quasi da' piú disprezzate; avendo egliincominciato, secondo che l'altezza della materia richiedea, in questaguisa:

Ultima regna canam, fluido contermina mundo, spiritibus quae lata paient, quæ premia solvunt pro meritis cuicumque suis, ecc.

il lasciò stare; e, immaginando invano le croste del pane porsi allabocca di coloro che ancora il latte suggano, in istile atto a' modernisensi ricominciò la sua opera e perseguilla in volgare.

Questo libro della Comedia, secondo il ragionare d'alcuno, intitolòegli a tre solennissimi uomini italiani, secondo la sua triplicedivisione, a ciascuno la sua, in questa guisa: la prima parte, cioè lo'Nferno, intitolò a Uguiccione della fa*ggiuola, il quale allora inToscana signore di Pisa era mirabilmente glorioso; la seconda parte,cioè il Purgatoro, intitolò al marchese Moruello Malespina; la terzaparte, cioè il Paradiso, a Federigo terzo re di Cicilia. Alcunivogliono dire lui averlo intitolato tutto a messer Cane della Scala;ma, quale si sia di queste due la veritá, niuna cosa altra n'abbiamoche solamente il volontario ragionare di diversi; né egli è sí granfatto che solenne investigazione ne bisogni.

Similemente questo egregio autore nella venuta d'Arrigo settimoimperadore fece un libro in latina prosa, il cui titolo è Monarchia,il quale, secondo tre quistioni le quali in esso ditermina, in trelibri divise. Nel primo, loicalmente disputando, pruova che a benessere del mondo sia di necessitá essere imperio; la quale è la primaquistione. Nel secondo, per argomenti istoriografi procedendo, mostraRoma di ragione ottenere il titolo dello imperio; ch'è la secondaquistione. Nel terzo, per argomenti teologi pruova l'autoritá dello'mperio immediatamente procedere da Dio, e non mediante alcuno suovicario, come li cherici pare che vogliano; ch'è la terza quistione.

Questo libro piú anni dopo la morte dell'autore fu dannato da messerBeltrando cardinale del Poggetto e legato di papa nelle parti diLombardia, sedente Giovanni papa ventesimosecondo. E la cagione fuperò che Lodovico duca di Baviera, dagli elettori della Magna elettoin re de' romani, e venendo per la sua coronazione a Roma, contra ilpiacere del detto Giovanni papa essendo in Roma, fece contra gliordinamenti ecclesiastici un frate minore, chiamato frate Pietro dellaCorvara, papa, e molti cardinali e vescovi; e quivi a questo papa sifece coronare. E, nata poi in molti casi della sua autoritá quistione,egli e' suoi seguaci, trovato questo libro, a difensione di quella edi sé molti degli argomenti in esso posti cominciarono a usare; per laqual cosa il libro, il quale infino allora appena era saputo, divennemolto famoso. Ma poi, tornatosi il detto Lodovico nella Magna, e lisuoi seguaci, e massimamente i cherici, venuti al dichino e dispersi;il detto cardinale, non essendo chi a ciò s'opponesse, avuto ilsoprascritto libro, quello in publico, sí come cose eretichecontenente, dannò al fuoco. E il simigliante si sforzava di faredell'ossa dell'autore a eterna infamia e confusione della sua memoria,se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile cavalierefiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora a Bologna,dove ciò si trattava, si trovò, e con lui messer Ostagio da Polenta,potente ciascuno assai nel cospetto del cardinale di sopra detto.

Oltre a questi compose il detto Dante due egloghe assai belle, lequali furono intitolate e mandate da lui, per risposta di certi versimandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio, del quale di sopra altravolta è fatta menzione.

Compuose ancora un comento in prosa in fiorentino volgare sopra tredelle sue canzoni distese, comeché egli appaia lui avere avutointendimento, quando il cominciò, di commentarle tutte, benché poi, oper mutamento di proposito o per mancamento di tempo che avvenisse,piú commentate non se ne truovano da lui; e questo intitolòConvivio, assai bella e laudevole operetta.

Appresso, giá vicino alla sua morte, compuose uno libretto in prosalatina, il quale egli intitolò De vulgari eloquentia, dove intendeadi dare dottrina, a chi imprendere la volesse, del dire in rima; ecomeché per lo detto libretto apparisca lui avere in animo di doverein ciò comporre quattro libri, o che piú non ne facesse dalla mortesoprapreso, o che perduti sieno gli altri, piú non appariscono che duesolamente.

Fece ancora questo valoroso poeta molte pistole prosaiche in latino,delle quali ancora appariscono assai. Compuose molte canzoni distese,sonetti e ballate assai e d'amore e morali, oltre a quelle che nellasua Vita Nova appariscono; delle quali cose non curo di fare spezialmenzione al presente.

In cosí fatte cose, quali di sopra sono dimostrate, consumò ilchiarissimo uomo quella parte del suo tempo, la quale egli agliamorosi sospiri, alle pietose lacrime, alle sollecitudini private epubliche e a' vari fluttuamenti della iniqua fortuna poté imbolare:opere troppo piú a Dio e agli uomini accettevoli che gl'inganni, lefraudi, le menzogne, le rapine e' tradimenti, li quali la maggiorparte degli uomini usano oggi, cercando per diverse vie un medesimotermine, cioè il divenire ricco, quasi in quelle ogni bene, ognionore, ogni beatitudine stea. Oh menti sciocche, una brieve particelladi una ora, separará dal caduco corpo lo spirito, e tutte questevituperevoli fatiche annullerá, e il tempo, nel quale ogni cosa suolconsumarsi, o annullerá prestamente la memoria del ricco, o quella peralcuno spazio con gran vergogna di lui serverá! Che del nostro poetacerto non avverrá, anzi, sí come noi veggiamo degli strumenti belliciaddivenire, che per l'usargli diventan piú chiari, cosí avverrá delsuo nome: egli, per essere stropicciato dal tempo, sempre diventerápiú lucente. E perciò fatichi chi vuole nelle sue vanitá, e bastiglil'esser lasciato fare, senza volere, con riprensione da se medesimonon intesa, l'altrui virtuoso operare andar mordendo.

XXVII

RICAPITOLAZIONE

Mostrato è sommariamente qual fosse l'origine, gli studi e la vita e'costumi, e quali sieno l'opere state dello splendido uomo DanteAlighieri, poeta chiarissimo, e con esse alcuna altra cosa, facendotransgressione, secondo che conceduto m'ha Colui che d'ogni grazia èdonatore. Ben so, per molti altri molto meglio e piú discretamente sisaria potuto mostrare; ma chi fa quel che sa, piú non gli è richiesto.Il mio avere scritto come io ho saputo, non toglie il poter dire a unaltro, che meglio ciò creda di scrivere che io non ho fatto; anziforse, se io in parte alcuna ho errato, darò materia altrui discrivere, per dire il vero, del nostro Dante, ove infino a qui niunotruovo averlo fatto. Ma la mia fatica non è ancora alla sua fine. Unaparticella, nel processo promessa di questa operetta, mi resta adichiarare, cioè il sogno della madre del nostro poeta, quando in luiera gravida, veduto da lei; del quale io, quanto piú brievemente sapròe potrò, intendo di dilivrarmi, e porre fine al ragionare.

XXVIII

ANCORA IL SOGNO DELLA MADRE DI DANTE

Vide la gentil donna nella sua gravidezza sé a piè d'uno altissimoalloro, allato a una chiara fontana partorire un figliuolo, il qualedi sopra altra volta narrai, in brieve tempo, pascendosi delle bachedi quello alloro cadenti e dell'onde della fontana, divenire un granpastore e vago molto delle frondi di quello alloro sotto il quale era;alle quali avere mentre ch'egli si sforzava, le parea ch'egli cadesse;e subitamente non lui, ma di lui un bellissimo paone le parea vedere.Dalla qual maraviglia la gentil donna commossa, ruppe, senza vedere dilui piú avanti, il dolce sonno.

XXIX

SPIEGAZIONE DEL SOGNO

La divina bontá, la quale ab aeterno, sí come presente ogni cosafutura previde, suole, da sua propra benignitá mossa, qualora lanatura, sua generale ministra, è per producere alcuno inusitatoeffetto infra' mortali, di quello con alcuna dimostrazione o in segnoo in sogno o in altra maniera farci avveduti, accioché dallapredimostrazione argomento prendiamo ogni conoscenza consistere nelSignore della natura producente ogni cosa; la quale predimostrazione,se ben si riguarda, ne fece nella venuta del poeta, del quale tanto disopra è parlato, nel mondo. E a quale persona la poteva egli fare checon tanta affezione e veduta e servata l'avesse, quanto colei chedella cosa mostrata doveva essere madre, anzi giá era? Certo a niuna.Mostrollo dunque a lei, e quello ch'egli a lei mostrasse ci è giámanifesto per la scrittura di sopra; ma quello ch'egli intendesse conpiú aguto occhio è da vedere. Parve adunque alla donna partorire unfigliuolo, e certo cosí fece ella infra picciolo termine dalla vedutavisione. Ma che vuole significare l'alto alloro sotto il quale ilpartorisce, è da vedere.

Opinione è degli astrologi e di molti naturali filosofi, per la vertúe influenzia de' corpi superiori gl'inferiori e producersi enutricarsi, e, se potentissima ragione da divina grazia illuminata nonresiste, guidarsi. Per la qual cosa, veduto quale corpo superiore siapiú possente nel grado che sopra l'orizzonte sale in quella ora chealcun nasce, secondo quello cotal corpo piú possente, anzi secondo lesue qualitá, dicono del tutto il nato disporsi. Per che per lo alloro,sotto il quale alla donna pareva il nostro Dante dare al mondo, mipare che sia da intendere la disposizione del cielo la quale fu nellasua nativitá, mostrante sé essere tale che magnanimitá e eloquenziapoetica dimostrava; le quali due cose significa l'alloro, álbore diFebo, e delle cui fronde li poeti sono usi di coronarsi, come di sopraè giá mostrato assai.

Le bache, delle quali nutrimento prendeva il fanciullo nato, glieffetti da cosí fatta disposizione di cielo, quale è mostrata, giáproceduti, intendo; li quali sono i libri poetici e le loro dottrine,da' quali libri e dottrine fu altissimamente nutricato, cioèammaestrato il nostro Dante.

Il fonte chiarissimo, della cui acqua le parea che questi bevesse,niuna altra cosa giudico che sia da intendere se non l'ubertá dellafilosofica dottrina morale e naturale; la quale sí come dalla ubertánascosa nel ventre della terra procede, cosí e queste dottrine dallecopiose ragioni dimostrative, che terrena ubertá si possono dire,prendono essenza e cagione: senza le quali, cosí come il cibo non puòbene disporsi, senza bere, negli stomaci di chi 'l prende, non si puòalcuna scienzia bene negl'intelletti adattare di nessuno, se dallifilosofici dimostramenti non v'è ordinata e disposta. Per cheottimamente possiamo dire, lui con le chiare onde, cioè con lafilosofia, disporre nel suo stomaco, cioè nel suo intelletto, le bachedelle quali si pasce, cioè la poesia, la quale, come giá è detto, contutta la sua sollecitudine studiava.

Il divenire subitamente pastore ne mostra la eccellenzia del suoingegno, in quanto subitamente; il quale fu tanto e tale, che inbrieve spazio di tempo comprese per istudio quello che opportuno era adivenire pastore, cioè datore di pastura agli altri ingegni di ciòbisognosi. E sí come assai leggermente ciascuno può comprendere, duemaniere sono di pastori: l'una sono pastori corporali, l'altraspirituali. Li corporali pastori sono di due maniere, delle quali laprima è quella di coloro che volgarmente da tutti sono appellati«pastori», cioè i guardatori delle pecore o de' buoi o di qualunquealtro animale; la seconda maniera sono i padri delle famiglie, dallasollecitudine de' quali convegnono essere e pasciuti e guardati egovernati la gregge de' figliuoli e de' servidori e degli altrisuggetti di quegli. Li spirituali pastori similmente si possono diredi due maniere, delle quali l'una è quella di coloro li qualipascolano l'anime de' viventi della parola di Dio; e questi sono iprelati, li predicatori e' sacerdoti, nella cui custodia sono commessel'anime labili di qualunque sotto il governo a ciascuno ordinatodimora: l'altra è quella di coloro li quali, d'ottima dottrina, oleggendo quello che gli passati hanno scritto, o scrivendo di nuovociò che loro pare o non tanto chiaro mostrato o omesso, informano el'anime e gl'intelletti degli ascoltanti o de' leggenti, li qualigeneralmente dottori, in qual che facultá si sia, sono appellati. Diquesta maniera di pastori subitamente, cioè in poco tempo, divenne ilnostro poeta. E che ciò sia vero, lasciando stare l'altre operecompilate da lui, riguardisi la sua Comedia, la quale con ladolcezza e bellezza del testo pasce non solamente gli uomini, ma ifanciulli e le femine; e con mirabile soavitá de' profondissimi sensisotto quella nascosi, poi che alquanto gli ha tenuti sospesi, ricrea epasce gli solenni intelletti.

Lo sforzarsi ad avere di quelle frondi, il frutto delle quali l'hanutricato, niun'altra cosa ne mostra che l'ardente disiderio avuto dalui, come di sopra si dice, della corona laurea; la quale per nullaaltro si disidera, se non per dare testimonianza del frutto. Le qualifrondi mentre ch'egli piú ardentemente disiderava, lui dice che videcadere; il quale cadere niuna altra cosa fu se non quello cadimentoche tutti facciamo senza levarci, cioè il morire; il quale, se bene siricorda di ciò che di sopra è detto, gli avvenne quando piú la sualaureazione disiava.

Seguentemente dice che di pastore subitamente il vide divenuto unpaone; per lo qual mutamento assai bene la sua posteritá comprenderepossiamo, la quale, come che nell'altre sue opere stea, sommamentevive nella sua Comedia, la quale, secondo il mio giudicio,ottimamente è conforme al paone, se le propietá de l'uno e de l'altrasi guarderanno. Il paone tra l'altre sue propietá, per quello cheappaia, n'ha quattro notabili. La prima si è ch'egli si ha pennaangelica, e in quella ha cento occhi; la seconda si è ch'egli ha sozzipiedi e tacita andatura; la terza si è ch'egli ha voce molto orribilea udire; la quarta e ultima si è che la sua carne è odorifera eincorruttibile. Queste quattro cose pienamente ha in sé la Comediadel nostra poeta; ma, percioché acconciamente l'ordine posto di quellenon si può seguire, come verranno piú in concio or l'una ora l'altrale verrò adattando, e comincerommi da l'ultima.

Dico che il senso della nostra Comedia è simigliante alla carne delpaone, percioché esso, o morale o teologo che tu il déi a quale partepiú del libro ti piace, è semplice e immutabile veritá, la quale nonsolamente corruzione non può ricevere, ma quanto piú si ricerca,maggiore odore della sua incorruttibile soavitá porge a' riguardanti.E di ciò leggermente molti esempli si mostrerebbero, se la presentemateria il sostenesse; e però, senza p*rne alcuno, lascio il cercarneagl'intendenti.

Angelica penna dissi che copría questa carne; e dico «angelica», nonperché io sappia se cosí fatte o altramenti gli angeli n'abbianoalcuna, ma, congetturando a guisa de' mortali, udendo che gli angelivolino, avviso loro dovere avere penne; e, non sappiendone alcuna fraquesti nostri uccelli piú bella, né piú peregrina, né cosí come quelladel paone, imagino loro cosí doverle avere fatte; e però non quelle daqueste, ma queste da quelle dinomino, perché piú nobile uccello èl'angelo che 'l paone. Per le quali penne, onde questo corpo sicuopre, intendo la bellezza della peregrina istoria, che nellasuperficie della lettera della Comedia suona: sí come l'esseredisceso in inferno e veduto l'abito del luogo e le varie condizionidegli abitanti; essere ito su per la montagna del purgatorio, udite lelagrime e i lamenti di coloro che sperano d'essere santi; e quindisalito in paradiso e la ineffabile gloria de' beati veduta: istoriatanto bella e tanto peregrina, quanto mai da alcuno piú non fu pensatanon che udita, distinta in cento canti, sí come alcuni vogliono ilpaone avere nella coda cento occhi. Li quali canti cosíprovvedutamente distinguono le varietá del trattato opportune, comegli occhi distinguono i colori o la diversitá delle cose obiette.Dunque bene è d'angelica penna coperta la carne del nostro paone.

Sono similmente a questo paone li piè sozzi e l'andatura queta: lequali cose ottimamente alla Comedia del nostro autore si confanno,percioché, sí come sopra i piedi pare che tutto il corpo si sostenga,cosí prima facie pare che sopra il modo del parlare ogni opera iniscrittura composta si sostenga: e il parlare volgare, nel quale esopra il quale ogni giuntura della Comedia si sostiene, a rispettodell'alto e maestrevole stilo letterale che usa ciascun altro poeta, èsozzo, comeché egli sia piú che gli altri belli agli odierni ingegniconforme. L'andar queto significa l'umiltá dello stilo, il quale nellecommedie di necessitá si richiede, come color sanno che intendono chevuole dire «comedia».

Ultimamente dico che la voce del paone è orribile; la quale, come chela soavitá delle parole del nostro poeta sia molta quanto alla primaapparenza, sanza niuno fallo a chi bene le medolle dentro ragguarderá,ottimamente a lui si confá. Chi piú orribilmente grida di lui, quandocon invezione acerbissima morde le colpe di molti viventi, e quellede' preteriti gastiga? Qual voce è piú orrida che quella delgastigante a colui ch'è disposto a peccare? Certo niuna. Egli a un'oracolle sue dimostrazioni spaventa i buoni e contrista i malvagi; per laqual cosa quanto in questo adopera, tanto veramente orrida voce si puòdire avere. Per la qual cosa, e per l'altre di sopra toccate, assaiappare, colui, che fu vivendo pastore, dopo la morte essere divenutopaone, sí come credere si puote essere stato per divina spirazione nelsonno mostrato alla cara madre.

Questa esposizione del sogno della madre del nostro poeta conoscoessere assai superficialmente per me fatta; e questo per piú cagioni.Primierarmente, perché forse la sufficienzia, che a tanta cosa sirichiederebbe, non c'era; appresso, posto che stata ci fosse, laprincipale intenzione nol patía; ultimamente, quando e la sufficienziaci fosse stata e la materia l'avesse patito, era ben fatto da me nonessere piú detto che detto sia, accioché ad altrui piú di mesofficiente e piú vago alcuno luogo si lasciasse di dire. E perciòquello, che per me detto n'è, quanto a me dee convenevolmente bastare,e quel, che manca, rimanga nella sollecitudine di chi segue.

XXX

CONCLUSIONE

La mia piccioletta barca è pervenuta al porto, al quale ella dirizzòla proda partendosi dallo opposito lito: e comeché il peleggio siastato picciolo, e il mare, il quale ella ha solcato, basso etranquillo, nondimeno, di ciò che senza impedimento è venuta, ne sonoda rendere grazie a Colui che felice vento ha prestato alle sue vele.Al quale con quella umiltá, con quella divozione, con quella affezioneche io posso maggiore, non quelle, né cosí grandi come si converrieno,ma quelle che io posso, rendo, benedicendo in eterno il suo nome e 'lsuo valore.

II

REDAZIONI COMPENDIOSE DELLA VITA DI DANTE
(PRIMO E SECONDO COMPENDIO)

AVVERTENZA

Nel testo si è dato il secondo compendio: le varianti del primo sonoriferite a piè di pagina.

I

PROPOSIZIONE

Solone, il cui petto un umano tempio di divina sapienza fu reputato, ele cui sacratissime leggi sono ancora testimonianza dell'anticagiustizia e della sua gravitá, era, secondo che dicono alcuni, usatotalvolta di dire ogni republica, sí come noi, andare e stare sopra duepiedi; de' quali con maturitá affermava essere il destro il nonlasciare alcun difetto commesso impunito, e il sinistro ogni ben fattoremunerare; aggiugnendo che, qualunque delle due cose mancava, senzadubbio da quel piè la republica zoppicare.

Dalla quale laudevole sentenza mossi alcuni cosí egregi come antichipopoli, alcuna volta di deitá, altra di marmorea statua, e sovente dicelebre sepoltura, di triunfale arco, di laurea corona o d'altraspettabile cosa, secondo i meriti, onoravano i valorosi; per oppositoagrissime pene a' colpevoli infligendo. Per li quali meriti l'assiria,la macedonica e ultimamente la romana republica aumentate, con l'opereli fini della terra, e con la fama toccaron le stelle. Le vestigie de'quali non solamente da' successor presenti, e massimamente da' mieifiorentini, sono mal seguite, ma in tanto s'è disviato da esse, cheogni premio di virtú possiede l'ambizione. Il che, se ogni altra cosaoccultasse, non lascerá nascondere l'esilio ingiustamente dato alchiarissimo uomo Dante Alighieri, uomo di sangue nobile, ragguardevoleper scienza e per operazioni laudevole e degno di glorioso onore.Intorno alla quale opera pessimamente fatta non è la presente miaintenzione di volere insistere con debite riprensioni, ma piú tosto inquella parte, che le mie piccole forze possono, quella emendare;percioché, quantunque picciol sia, pur di quella [cittá] soncittadino, e agli onor d'essa mi conosco in solido obbligato.

Quello adunque che la nostra cittá dovria verso il suo valorosocittadino magnificamente operare, accioché in tutto non sia detto noiesorbitare dagli antichi, intendo di fare io, non con istatua o conegregia sepoltura, delle quali è oggi dell'una appo noi spental'usanza, né all'altra basterieno le mie facultadi, ma con poverelettere a tanta impresa, volendo piú tosto di presunzione ched'ingratitudine potere esser ripreso. Scriverò adunque in istilo assaiumile e leggiero, peroché piú sublime nol mi presta lo 'ngegno, e nelnostro fiorentino idioma, accioché da quello che Dante medesimo usònella maggior parte delle sue opere non discordi, quelle cose, lequali esso di sé onestamente tacette, cioè la nobiltá della suaorigine, la vita, gli studi e i costumi; raccogliendo appresso in unol'opere da lui fatte, nelle quali esso sé chiaro ha renduto a' futuri.Il che accioché compiutamente si possa fare, umilmente priego Colui,il quale di spezial grazia lui trasse, come leggiamo, per sí altascala a contemplarsi, che me al presente aiuti, e, in onore e gloriadel suo santissimo nome, e la debole mano guidi, e regga lo 'ngegnomio.

II

PATRIA E MAGGIORI DI DANTE

Fiorenza, intra l'altre cittá italiane piú nobile, secondo la generaleopinione de' presenti, ebbe inizio da' romani; e in processo di tempoaumentata di popoli e di chiari uomini e giá potente parendo, ocontrario cielo, o i lor meriti, che in sé l'ira di Dio provocassero,non dopo molti secoli da Attila, crudelissimo re de' vandali e generalguastatore quasi di tutta Italia, molti de' cittadini uccisi, quellaridusse in cenere e in ruine. Poi, trapassato giá il trecentesimoanno, e Carlomagno, clementissimo re de' franceschi, essendoall'altezza del romano imperio elevato, avvenne che, o per propiomovimento, forse da Dio a ciò spirato, o per prieghi pòrtigli daalcuni, che il detto Carlo alla reedificazione della detta cittál'animo dirizzò, e a coloro medesimi, li quali primi conditori n'eranostati, la fatica commise. Li quali in piccol cerchio riducendola,quanto poterono, sí come ancora appare, a Roma la fêr simigliante,seco raccogliendovi dentro quelle poche reliquie che de' discendentidegli antichi scacciati si potêr ritrovare.

Vennevi, secondo che testimonia la fama, tra' novelli reedificatori ungiovane, per origine de' Frangiapani, nominato Eliseo; il quale, cheche cagion sel movesse, di quella divenne perpetuo cittadino; delquale rimasi laudevoli discendenti ed onorati molto, non l'anticocognome ritennero, ma, da colui, che quivi loro aveva dato principio,prendendolo, si chiamâr gli Elisei. De' quali, di tempo in tempo ed'uno in altro discendendo, tra gli altri nacque e visse un cavaliereper arme e per senno ragguardevole, il cui nome fu Cacciaguida; ilquale per isposa ebbe una donzella nata degli Aldighieri di Ferrara,della quale forse piú figliuoli ricevette. Ma, come che gli altrinominati si fossero, in uno, sí come le donne sogliono esser vaghe difare, le piacque di rinnovare il nome de' suoi maggiori, e nominolloAldighieri; comeché il vocabol poi, per sottrazione d'alcuna lettera,rimanesse Alighieri. Il valor del quale fu cagione a quegli, chedisceser di lui, di lasciare il titolo degli Elisei e di cognominarsidegli Alighieri. Del quale, come che alquanti e figliuoli e nepoti ede' nepoti figliuoli discendessero, regnante Federigo secondoimperadore, uno ne nacque, il quale dal suo avolo nominato fuAlighieri, piú per colui di cui fu padre che per sé chiaro. Questinella sua donna generò colui del quale dee essere il futuro sermone.Né pretermise il nostro signore Iddio, che alla madre nel sonno nondimostrasse cui ella portasse nel ventre. Il che allora poco inteso enon curato, in processo di tempo e nella vita e nella morte di colui,che nascer doveva di lei, chiarissimamente si manifestò, sí come conla grazia di Dio mostreremo vicino al fine della presente operetta.

Venuto adunque il tempo del parto, partorí la donna questa futurachiarezza della nostra cittá, e di pari consentimento il padre edella, non senza divina disposizione, sí come io credo, il nominaronDante, volendone Iddio per cotal nome mostrare lui dovere essere dimaravigliosa dottrina datore.

III

SUOI STUDI

Nacque adunque questo singulare splendore italico nella nostra cittá,vacante il romano imperio per la morte di Federigo, negli anni dellasalutifera incarnazione del Re dell'universo MCCLXV, sedente Urbanopapa quarto, ricevuto nella paterna casa da assai lieta fortuna:lieta, dico, secondo la qualitá del mondo che allora s'usava. E nellasua puerizia cominciò a dare, a chi avesse a ciò riguardato, manifestisegni qual dovea la sua matura etá divenire; peroché, lasciata ognipueril mollizie, nella propria patria con istudio continuo tutto sidiede alle liberali arti, e, in quelle giá divenuto esperto, non allelucrative facultadi, alle quali oggi ciascun cupido di guadagnares'avventa innanzi tempo, ma da laudevole vaghezza di perpetua famatratto, alle speculative si diede. E, peroché a ciò, sí come appare,era dal ciel produtto, a vedere con aguto intelletto e le fizioni el'artificio mirabile de' poeti si mise; e in brieve tempo, nontrovandogli semplicemente favolosi, come si parla, familiarissimodivenne di tutti, e massimamente de' piú famosi. E, come giá è detto,conoscendo le poetiche opere non esser vane o stolte favole, comemolti dicono, ma sotto sé dolcissimi frutti di veritá istoriografe ofilosofiche aver nascosti, accioché piena notizia n'avesse, e alleistorie e alla filosofia, i tempi debitamente partiti, si diede; e giádivenuto di quelle e di questa esperto, cresciuta, con la dolcezza delconoscere la veritá delle cose, la vaghezza del piú sapere, a volerinvestigar quello che per umano ingegno se ne può comprendere dellecelestiali intelligenzie e della prima causa con ogni sollecitudinetutto si diede. Né questi studi in picciol tempo sí feciono, né senzagrandissimi disagi s'esercitarono, né nella patria sola s'acquistò ilfrutto di quegli. Egli, sí come a luogo piú fertile del cibo che 'lsuo alto intelletto disiderava, a Bologna andatone, non piccol tempovi spese; e, giá vicino alla sua vecchiezza, non gli parve gravel'andarne a Parigi, dove, non dopo molta dimora, con tanta gloria disé, disputando, piú volte mostrò l'altezza del suo ingegno, che ancoranarrandosi se ne maravigliano gli uditori. Di tanti e sí fatti studinon ingiustamente il nostro Dante meritò altissimi titoli: perciochéalcuni assai chiari uomini in scienza il chiamavano sempre «maestro»,altri l'appellavan «filosofo», e di tali furono che «teologo» ilnominavano, e quasi generalmente ogn'uomo il diceva «poeta», sí comeancora è appellato da tutti. Ma, percioché tanto è la vittoria piúgloriosa quanto le forze del vinto sono state maggiori, giudico esserconvenevole dimostrare di come fluttuoso anzi tempestoso mare costui,ora in qua e ora in lá ributtato, con forte petto parimente letraverse onde e i contrari venti vincendo, pervenisse al salutevoleporto de' chiarissimi titoli giá narrati.

IV

IMPEDIMENTI AVUTI DA DANTE AGLI STUDI

Gli studi generalmente sogliono solitudine e rimozion di sollecitudinedisiderare e tranquillitá d'animo, e massimamente gli speculativi, a'quali, sí come mostrato è, il nostro Dante, in quanto la possibilitápermetteva, s'era donato. In luogo della quale rimozione e quiete,quasi dallo inizio della sua puerizia infino allo stremo della suavita, Dante ebbe fierissima e importabile passion d'amore. Ebbe oltrea ciò moglie; le quali chi 'l pruova sa come capitali nemiche sienodello studio della filosofia. Similmente ebbe ad aver cura della refamiliare e oltre a ciò della republica, e, sopr'a tutte queste,lungamente sostenne esilio e povertá; accioché io lasci stare l'altreparticulari noie, che queste si tirano appresso. Le quali, permostrare quanta in sé superficialmente di gravezza portassono eaccioché per questo parte della promessa fatta s'osservi, giudicoconvenevole sia alquanto piú distesamente spiegarle.

V

AMORE PER BEATRICE

Era usanza nella nostra cittá e degli uomini e delle donne, come ildolce tempo della primavera ne veniva, nelle lor contrade ciascuno perdistinte compagnie festeggiare. Per la qual cosa infra gli altri FolcoPortinari, onorevole cittadino, il primo dí di maggio aveva i suoivicini nella propria casa raccolti a festeggiare, infra' quali era ilsopradetto Alighieri; e lui, sí come far sogliono i piccoli figliuolii lor padri, e massimamente alle feste, seguíto avea il nostro Dante,la cui etá ancor non aggiungnea all'anno nono. Il quale con gli altridella sua etá, che nella casa erano, puerilmente si diede atrastullare.

Era tra gli altri una figliuola del detto Folco, chiamata Bice, laquale di tempo non passava l'anno ottavo, leggiadretta assai e ne'suoi costumi piacevole e gentilesca, bella nel viso, e nelle sueparole con piú gravezza che la sua piccola etá non richiedea. La qualeriguardando Dante e una e altra volta, con tanta affezione, ancor chefanciul fusse, piacendogli, la ricevette nell'animo, che mai altrosopravvegnente piacere la bella imagine di lei spegnere né poté nécacciare. E, lasciando stare de' puerili accidenti il ragionare, nonsolamente continuandosi, ma crescendo di giorno in giorno l'amore, nonavendo niuno altro disidèro maggiore né consolazione se non di vedercostei, gli fu in piú provetta etá di cocentissimi sospiri e d'amarelagrime assai spesso dolorosa cagione, sí come egli in parte nella suaVita nuova dimostra. Ma quello che rade volte suole negli altri cosífatti amori intervenire, in questo essendo avvenuto, non è senza dirloda trapassare. Fu questo amor di Dante onestissimo, qual che delleparti, o forse amendue, fosse di ciò cagione. Egli quantunque, almenodalla parte di Dante, ardentissimo fosse, niuno sguardo, niuna parola,niun cenno, niun sembiante, altro che laudevole, per alcun se ne videgiammai. Che piú? Dal viso di questa giovine donna, la quale non Bice,ma dal suo primitivo sempre chiamò Beatrice, fu primieramente nelpetto suo desto lo 'ngegno al dovere parole rimate comporre. Dellequali, sí come manifestamente appare, in sonetti, ballate e canzoni ealtri stili, molte in laude di questa donna eccellentissimamentecompose, e tal maestro, sospingnendolo Amor, ne divenne, che, tolta digran lunga la fama a' dicitor passati, mise in opinion molti che niunonel futuro esser ne dovesse, che lui in ciò potesse avanzare.

VI

DOLORE DI DANTE PER LA MORTE DI BEATRICE

Gravi erano stati i sospiri e le lagrime, mosse assai sovente dal nonpotere aver veduto, quanto il concupiscibile appetito disiderava, ilgrazioso viso della sua donna; ma troppo piú ponderosi gliele serbavaquella estrema e inevitabile sorte che, mentre viver dovesse, ne 'ldoveva privare. Avvenne adunque che, essendo quasi nel fine del suovigesimoquarto anno la bellissima Beatrice, piacque a Colui che tuttopuote di trarla delle temporali angosce e chiamarla alla sua eternagloria. La partita della quale tanto impazientemente sostenne ilnostro Dante, che, oltre a' sospiri e a' pianti continui, assai de'suoi amici lui quel senza morte non dover finire estimarono. Lunghefurono e molte [le sue lagrime], e per lungo spazio ad ogni confortodatogli tenne gli orecchi serrati. Ma pur poi, in processo di tempomaturatasi alquanto l'acerbitá del dolore, e facendo alquanto lapassion luogo alla ragione, cominciò senza pianto a potersi ricordareche morta fosse la donna sua, e per conseguente ad aprir gli orecchia' conforti; ed essendo lungamente stato rinchiuso, incominciò adapparire in publico tra le genti. Né fu solo da questo amor passionatoil nostro poeta, anzi, inchinevole molto a questo accidente, per altriobietti in piú matura etá troviam lui sovente aver sospirato, emassimamente dopo il suo esilio, dimorando in Lucca, per una giovine,la quale egli nomina Pargoletta. E oltre a ciò, vicino allo stremodella sua vita, nell'alpi di Casentino per una alpigina, la quale, sem*ntito non m'è, quantunque bel viso avesse, era gozzuta. E, perqualunque fu l'una di queste, compose piú e piú laudevoli cose inrima.

VII

MATRIMONIO DI DANTE

Agro e valido nemico degli studi è amore, come veramente testificarpuò ciascuno che a tal passione è soggiaciuto; percioché, poi che conlusinghevole speranza ha tutta la mente occupata di chi nel principionon l'ha con forte resistenza scacciato, niun pensiero, niunameditazione, niuno appetito in quella patisce che stea se non quellesole, le quali esso medesimo vi reca; e chenti queste siano e comecontrarie allo specular filosofico o alle poetiche invenzioni, símanifesto mi pare, che superfluo estimo sarebbe il metterci tempo apiú chiarirlo.

A questo stimolo un altro forse non minore se n'aggiunse; percioché,poi che, allenate le lagrime della morte di Beatrice, diede agli amicisuoi alcuna speranza della sua vita, incontanente loro entrònell'animo che, dandogli per moglie una giovane, colei del tutto se nepotesse cacciare, che, benché partita del mondo fosse, gli avea nelpetto la sua imagine lasciata perpetua donna: e, lui a ciò inclinato,senza alcuno indugio misero ad effetto il lor pensiero.

Saranno per avventura di quegli che laudevole diranno cotal consiglio;e questo avverrá perché non considereranno quanto pericolo porti lospegnere il fuoco temporal con l'eterno. Era a Dante l'amore, il qualea Beatrice portava, per lo suo troppo focoso disiderio spesse voltenoioso e grave a sofferire; ma pur talvolta alcun soave pensiero,alcuna dolce speranza, qualche dilettevole imaginazion ne traeva; dovedella compagnia della moglie, secondo che coloro afferman che 'lpruovano, altro che sollecitudine continua e battaglia senzaintermission non si trae. Ma lasciamo star quello che la moglie inqualunque meccanico possa adoperare, e a quel vegniamo che la presentemateria richiede.

VIII

DIGRESSIONE SUL MATRIMONIO

Quanto le mogli sieno nimiche degli studi assai leggermente puoteapparire a' riguardanti. Rincresce spesse volte a' filosofanti laturba volgare: per che, da essa partendosi e raccoltosi in alcunasolitaria parte della sua casa, sé contra sé con la consideraziontrasportando, talvolta ragguarda quale spirito muove il cielo, ondevenga la vita agli animali, quali sieno delle cose le prime cagioni; etalvolta nello splendido consistoro de' filosofi mischiatosi colpensiero, con Aristotile, con Socrate, con Platone e con gli altridisputerá della veritá d'alcuna conclusione acutissimamente; e spessefiate con sottilissima meditazione se ne entrerá sotto la cortecciad'alcuna poetica fizione, e, con grandissimo suo piacere, quanto siadiverso lo 'ntrinseco dalla crosta riguarderá. Né fia che non avvenga,quando vorrá, che gl'imperadori eccelsi, i potentissimi re e prencipigloriosi con lui nella solitudine non si convengano, e con luiragionino de' governamenti publici, dell'arti delle guerre e deimutamenti della fortuna. Alle quali eccelse e piacevoli cosesopravverrá la donna e, cacciata via la contemplazion laudevole etanta e tal compagnia, biasimerá il suo star solitario e 'l suopensiero, e spesse volte, sospicando, dirá questo non solergliavvenire avanti ch'ella a lui venisse, e però assai manifestamenteapparire lui esser di lei pessimamente contento. E, postasi quivi asedere, non prima si leverá che, esaminati i pensieri del marito, luidi piacevolissima considerazione in noiosa turbazione avrá recato. Chedirò dell'odio ch'elle portano a' libri, qualora alcuno ne veggionoaprire? che delle notturne vigilie, non solamente utili, ma opportuneagli studianti? Tutto a' suoi diletti quel tempo esser tolto,lagrimando, confermano. Lascio le notturne battaglie, li loro costumigravi a sostenere, la spesa inestimabile che nelli loro ornamentiricheggiono: tutte cose, quanto esser possono, avverse a'contemplativi pensieri. Che dirò se gelosia v'interviene? che, secruccio che per lunghezza si converta in odio? Io corro troppo questamateria, percioché bastar dee agl'intendenti averne superficialmentetoccato. Ma, chenti che l'altre si sieno, accioché io quando che siami riduca al proposito, tal fu quella che a Dante fu data, che, da leiuna volta partitosi, né volle mai dove ella fosse tornare, né che ellaandasse lá dove egli fosse. Né creda alcuno che io per le sudette cosevoglia conchiuder gli uomini non dover tôrre moglie; anzi il lodo, manon a tutti. I filosofanti, che 'l mio giudicio in questoseguiteranno, lasceranno lo sposarsi a' ricchi stolti e a' signori esimilmente ai lavoratori; ed essi con la filosofia si diletteranno,molto piú piacevole e migliore sposa che alcuna altra.

IX

CURE FAMILIARI E PUBBLICHE

Tirò appresso di sé lo stimolo della moglie al nostro poeta un'altraquasi inevitabil gravezza, e questa fu la sollecitudine d'allevare ifigliuoli, percioché in brieve tempo padre di famiglia divenne; e,strignendolo la domestica cura, quel tempo, che alle eccelsemeditazioni, soluto, soleva prestare, costretto da necessitá,conveniva che egli concedesse a' pensieri donde dovessero i salaridelle nutrici venire, i vestimenti de' figliuoli, e l'altre coseopportune a chi piú secondo la opinion del vulgo che secondo lafilosofica veritá convien che viva. Il che quanto d'impedimento allisuoi studi prestasse, assai leggermente conoscer si dee da ciascuno.

Da questa per avventura ne gli nacque una maggiore; perciochél'altiero animo avendo le minor cose in fastidio, e per le maggioriestimando quelle potersi cessare, dalla familiar cura transvolò allapublica: nella qual tanto e subitamente sí l'avvilupparono i vanionori, che, senza guardare donde s'era partito e dove andava conabbandonate redine, messa la filosofia in oblio, quasi tutto dellarepublica con gli altri cittadin piú solenni al governo si diede. Efugli tanto in ciò alcun tempo la fortuna seconda, che di tutte lemaggior cose occorrenti la sua diliberazion s'attendeva. In lui tuttala publica fede, in lui tutta la speranza publica, in luisommariamente le divine cose e l'umane parevano esser fermate. Chequesta gloria vana, questa pompa, questo vento fallace gonfimaravigliosamente i petti de' mortali; e gli atti e portamenti dicoloro, che ne' reggimenti delle cittá son maggiori, e il ferventeappetito, che di quegli hanno generalmente gli stolti, assaileggermente agli occhi de' savi il possono dimostrare. E come si deecredere che intra tanto tumulto, intra tanto rivolgimento di cose,quanto dee continuamente essere nelle gonfiate menti de' presidenti,deano potere aver luogo le considerazion filosofiche, le quali, comegiá detto è, somma pace d'animo vogliono? In queste tumultuositá fu ilnostro Dante inviluppato piú anni, e tanto piú che un altro, quanto ilsuo disiderio tutto tirava al ben publico, dove quello degli altri odella maggior parte tirannescamente al privato badava: per che, oltreall'altre sollecitudini, in continua battaglia esser gli conveniva. Mala fortuna, volgitrice de' nostri consigli e inimica d'ogni umanostato, assai diverso fine pose al principio. Al qual voler dimostrare,un pochetto s'amplierá la novella.

X

COME LA LOTTA DELLE PARTI LO COINVOLSE

Era ne' tempi del glorioso stato del nostro poeta la fiorentinacittadinanza in due parti perversissimamente divisa, alle quali partiriducere ad unitá Dante invano si faticò molte volte. Di che poi ches'accorse, prima seco propose, posto giú ogni uficio publico, di viverseco privatamente; ma, dalla dolcezza della gloria tratto e dal favorpopolesco, e ancora dalle persuasioni de' maggiori, sperando dipotere, se tempo gli fosse prestato, molto di bene adoperare, lasciòla disposizione utile e perseverando seguitò la dannosa. E,accorgendosi che per se medesimo non poteva una terza parte tenere, laquale, giusta, la ingiustizia dell'altre due abbattesse, con quellas'accostò nella quale, secondo il suo giudicio, era meno di malvagitá.E, aumentandosi per vari accidenti continuamente gli odii delle parti,e il tempo vegnendo che gli occulti consigli della minacciante fortunasi doveano scoprire, nacque una voce per tutta la cittá: la parteavversa a quella, con la qual Dante teneva, grandissima multitudined'armati in disfacimento de' loro avversari aver nelle case loro. Laqual cosa creduta spaventò sí i collegati di Dante, che, ogni altroconsiglio abbandonato che di fuggire, non cacciati s'usciron dallacittá e, con loro insieme, Dante. Né molti dí trapassarono che, avendoi lor nemici il reggimento tutto della cittá, come nemici publicitutti quegli, che fuggiti s'erano, furono in perpetuo esilio dannati,e i lor beni ridotti in publico o conceduti a' vincitori.

XI

LA VITA DEL POETA ESULE SINO ALLA VENUTA IN ITALIA DI ARRIGO SETTIMO

Questo fine ebbe la gloriosa maggioranza di Dante, e da' suoicittadini le sue pietose fatiche questo merito riportaro. Lasciatiadunque la moglie e i piccioli figliuoli nelle mani della fortuna, euscito di quella cittá, nella qual mai tornar non dovea, sperando inbrieve dovere essere la ritornata, piú anni per Toscana e perLombardia, quasi da estrema povertá costretto, gravissimi sdegniportando nel petto, s'andò avvolgendo. Egli primieramente rifuggí aVerona. Quivi dal signor della terra e ricevuto e onorato fuvolentieri e sovvenuto. Quindi in Toscana tornatosene, per alcun tempofu col conte Salvatico in Casentino. Di quindi fu col marcheseMoruello Malespina in Lunigiana. E ancora per alcuno spazio fu co'signori della fa*ggiuola ne' monti vicini ad Orbino. Quindi n'andò aBologna, e da Bologna a Padova, e da Padova ancor si ritornò a Verona.Ma, essendo giá dopo la sua partita di Firenze piú anni passati, néapparendo alcuna via da potere in quella tornare, ingannato trovandosidel suo avviso, e quasi del mai dovervi tornar disperandosi, sidispose del tutto d'abbandonare Italia; e, passati gli Alpi, come potése n'andò a Parigi, accioché, quivi a suo potere studiando, allafilosofia il tempo, che nell'altre sollecitudini vane tolto le avea,restituisse. Udí adunque quivi e filosofia e teologia alcun tempo, nonsenza gran disagio delle cose opportune alla vita. Da questo il tolseuna speranza presa di potere in casa sua ritornare con la forzad'Arrigo di Luzimborgo imperadore. Per che, lasciati gli studi e inItalia tornatosi, e con certi rubelli de' fiorentini congiuntosi, conloro insieme con prieghi, con lettere e con ambasciate s'ingegnò dirimuovere il detto Arrigo dallo assedio di Brescia e di conducerlointorno alla sua cittá, estimando quella contro a lui non potersitenere. Ma la riuscita contraria gli fece palese il suo avviso esserestato vano. Assediò Arrigo la cittá di Fiorenza; e ultimamente, vanavedendo la stanza, se ne partí e, non dopo molto tempo passando diquesta vita, ogni speranza ruppe nel nostro poeta, il quale in Romagnase ne passò, dove l'ultimo suo dí, il quale alle sue fatiche dovevapor fine, l'aspettava.

XII

DANTE OSPITE DI GUIDO NOVEL DA POLENTA

Era in que' tempi signor di Ravenna, antichissima cittá di Romagna, unnobile cavaliere, il cui nome era Guido Novel da Polenta, ne' liberalistudi ammaestrato e amatore degli scenziati uomini. Il quale, udendoDante, cui per fama lungamente avanti avea conosciuto, come disperatoessersene venuto in Romagna, conoscendo la vergogna de' valorosi neldomandare, con liberale animo si fece incontro al suo bisogno, e lui,di ció volonteroso, onorevolmente ricevette e tenne, infino all'ultimodí di lui.

Assai credo che manifesto sia da quanti e quali accidenti contrariagli studi fosse infestato il nostro poeta. Il quale né gli amorosidisiri, né le dolenti lagrime, né gli stimoli della moglie, né lasollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de' publici ofici,né il súbito e impetuoso mutamento della fortuna, né le faticosecircuizioni, né il lungo e misero esilio, né la intollerabile povertá,tutte imbolatrici di tempo agli studianti, non poterono con le lorforze vincere, né dal principale intento rimuovere, cioè da' sacristudi della filosofia, sí come assai chiaramente dimostrano l'opereche da lui composte leggiamo. Che diranno qui coloro, agli studi de'quali non bastando della lor casa, cercano le solitudini delle selve?che coloro, a' quali è riposo continuo, e a' quali l'ampie facultásenza alcun lor pensiero ogni cosa opportuna ministrano? che coloroche, soluti da moglie e da figliuoli, liberi posson vacare a' lorpiaceri? De' quali assai sono che, se ad agio non sedessero, oudissero un mormorio, non potrebbono, non che meditare, ma leggere, néscrivere, se non stasse il gomito riposato. Certo niuna altra cosapotranno dire, se non che il nostro poeta, e per gli impeti superati eper l'acquistata scienza, sia di doppia corona da onorare. Ma daritornare è alla intralasciata materia.

XIII

MORTE DI DANTE

Abitò adunque Dante in Ravenna piú anni nella grazia di quel signore,e quivi a molti dimostrò la ragione del dire in rima, la qualemaravigliosamente esaltò. Ed essendo giá al cinquantesimosesto annodella sua etá pervenuto, infermò, e come fedel cristianoriconciliatosi, per vera contrizione e confessione delle colpecommesse, a Dio, del mese di settembre, correnti gli anni di CristoMCCCXXI, il dí che la esaltazione della santa Croce si celebra, passòdella presente vita. La cui anima creder possiamo essere stata nellebraccia della sua nobile Beatrice ricevuta e presentata nel cospettodi Dio, accioché quivi in riposo perpetuo prenda merito delle fatichepassate.

Fu la morte del nostro poeta al magnifico cavaliere assai gravosa. Ilquale, fatto il corpo del defunto ornare d'ornamenti poetici, e quelloporre sopra un funebre letto, sopra gli omeri de' piú eccellentiravignani il fece alla chiesa de' frati minori, con quello onore che atanto uomo si conveniva, portare, e quivi in una arca lapideaseppellire, con animo di fargli una egregia e notabile sepoltura.Quindi alla casa, nella quale era Dante prima abitato, tornandosi,secondo il ravignan costume, esso medesimo, a commendazione deltrapassato poeta e a consolazione de' figliuoli e degli amici che dopolui rimanieno, fece uno esquisito e lungo sermone. Ma poi, infrabrieve spazio essendogli tolto lo Stato, cessò il proponimento dellamagnifica sepoltura; per la qual cosa ancora in quella arca, dove fuposto, le venerabili ossa dimorano.

XIV

GARA DI POETI PER L'EPITAFIO DI DANTE

Furono in que' tempi piú uomini nell'arte metrica ammaestrati, liquali, sentendo che far si dovea al corpo di Dante una mirabilesepoltura, fecero versi per porre in quella, testificanti e la scienzae alcun de' piú memorabili casi di Dante, de' quali niun vi si poseper lo sopradetto accidente. Nondimeno, piú tempo poi, me ne furonomonstrati: de' quali alquanti, fattine dal maestro Giovanni delVirgilio, sí come piú laudevoli al mio giudicio, ne elessi; edestimando questa operetta quello testificare, che in parte avrebbefatto la sepoltura, di porglici diliberai come segue:

Theologus Dantes nullius dogmatis expers,
quod foveat claro philosophia sinu:
gloria musarum, vulgo gratissimus auctor,
hic iacet, et fama pulsat utrumque polum:
qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis
distribuit, laicis rhetoricisque modis.
Pascua Pieriis demum resonabat avenis;
Atropos heu! laetum livida rupit opus.
Huic ingrata tulit tristem Florentia fructum,
exilium, vati patria cruda suo.
Quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli
gaudet honorati continuisse ducis,
mille trecentenis ter septem Numinis annis,
ad sua septembris idibus astra redit.

XV

RIMPROVERO AI FIORENTINI

Sogliono gli odii nella morte degli odiati finirsi; il che neltrapassamento di Dante non si trovò avvenire. L'ostinata malivolenzade' suoi cittadini nella sua rigidezza stette ferma; niuna publicalagrima gli fu conceduta, né alcuno uficio funebre fatto. Nella qualpertinacia assai manifestamente sí dimostrò, i fiorentini tanto esseredal cognoscimento della scienzia rimoti, che fra loro niuna distinzionfosse da un vilissimo calzolaio ad un solenne poeta. Ma essi con lalor superbia rimangansi; e noi, avendo gli affanni dimostrati di Dantee il suo fine, all'altre cose che di lui, oltre alle dette, dir sipossono, ci volgiamo.

XVI

FATTEZZE E COSTUMI DI DANTE

Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed ebbe il volto lungo e ilnaso aquilino, le mascelle grandi, e il labbro di sotto proteso tanto,che alquanto quel di sopra avanzava; nelle spalle alquanto curvo, egli occhi anzi grossi che piccoli, e il color bruno, e i capelli e labarba crespi e neri, e sempre malinconico e pensoso. Per la qual cosaavvenne un giorno in Verona (essendo giá divulgata per tutto la famadelle sue opere, ed esso conosciuto da molti e uomini e donne) che,passando egli davanti ad una porta, dove piú donne sedevano, una diquelle pianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui eranon fosse udita, disse all'altre donne:—Vedete colui che va ininferno, e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro chelá giú sono!—Alla quale semplicemente una dell'altre rispose:—Inveritá egli dee cosí essere: non vedi tu come egli ha la barba crespae il color bruno per lo caldo e per lo fummo che è lá giú?—Di cheDante, perché da pura credenza venir lo sentia, sorridendo passòavanti.

Li suoi vestimenti sempre onestissimi furono, e l'abito convenientealla maturitá, e il suo andare grave e mansueto, e ne' domesticicostumi e ne' publici mirabilmente fu composto e civile.

Nel cibo e nel poto fu modestissimo. Né fu alcuno piú vigilante di luie negli studi e in qualunque altra sollecitudine il pugnesse.

Rade volte, se non domandato, parlava, quantunque eloquentissimofosse.

Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e, pervaghezza di quegli, quasi di tutti i cantatori e sonatori famosi suoicontemporanei fu dimestico.

Quanto ferventemente esso fosse da amor passionato, assai è dimostratodi sopra.

Solitario fu molto e di pochi dimestico. E negli studi, quel tempo chelor poteva concedere, fu assiduo molto.

Fu ancora Dante di maravigliosa capacitá e di memoria fermissima, comepiú volte nelle disputazioni in Parigi e altrove mostrò.

Fu similmente d'intelletto perspicacissimo e di sublime ingegno e,secondo che le sue opere dimostrano, furono le sue invenzioni mirabilie pellegrine assai.

Vaghissimo fu e d'onore e di pompa, per avventura piú che non siappartiene a savio uomo. Ma qual vita è tanto umile, che dalladolcezza della gloria non sia tócca? Questa vaghezza credo che cagiongli fosse d'amare sopra ogni altro studio quel della poesia, acciochéper lei al pomposo e inusitato onore della coronazion pervenisse. Ilquale senza fallo, sí come degno n'è, avrebbe ricevuto, se fermatonell'animo non avesse di quello non prendere in altra parte, che nellasua patria e sopra il fonte nel quale il battesimo avea ricevuto; madallo esilio impedito e dalla morte prevenuto, nol fece. Ma, perochéspessa quistion si fa tra le genti, e che cosa sia la poesí e che ilpoeta, e donde questo nome venuto, e perché di lauro sieno coronati ipoeti, e da pochi pare esser mostrato, mi piace qui di fare alcunatransgressione, nella quale questo alquanto dichiari, e quindiprestamente tornare al proposito.

XVII

DIGRESSIONE SULL'ORIGINE DELLA POESIA

La prima gente ne' primi secoli, comeché rozzissima e inculta fosse,ardentissima fu di conoscere il vero con istudio, sí come noi veggiamoancora naturalmente disiderare a ciascuno. La quale veggendo il cielmoversi con ordinata legge continuo, e le cose terrene aver certoordine e diverse operazioni in diversi tempi, pensarono di necessitádovere essere alcuna cosa, dalla quale tutte queste cose procedesseroe che tutte l'altre ordinasse, sí come superiore potenza da niunaaltra potenziata. E, questa investigazione seco diligentemente avuta,s'imaginaron quella, la quale «divinitá» ovvero «deitá» appellarono,con ogni cultivazione, con ogni onore e con piú che umano servigioesser da venerare. E perciò ordinarono, a reverenzia di questa supremapotenza, ampissime ed egregie case, le quali ancora estimaron fosseroda separare cosí di nome, come di forma separate erano, da quelle chegeneralmente per gli uomini si abitano; e nominaronle «templi». Esimilmente avvisaron doversi ministri, li quali fossero sacri e, daogni altra mondana sollecitudine rimoti, solamente a' divini servigivacassero, per maturitá, per etá e per abito, piú che gli altriuomini, reverendi; li quali appellaron «sacerdoti». E oltre a questo,in rappresentamento della imaginata essenzia divina, fecero in varieforme magnifiche statue, e a' servigi di quelle vasellamenti d'oro emense marmoree e purpurei vestimenti e altri apparati assai pertinentia' sacrifici stabiliti per loro. E accioché a questa cotal potenziatacito onore o quasi mutolo non si facesse, parve loro che con paroled'alto suono essa deitá fosse da umiliare e alle loro necessitá renderpropizia. E cosí come essi estimarono questa eccedere ogni altra cosadi nobiltá, cosí vollono che, di lungi ad ogni plebeio o publico stiledi parlare, si trovasser parole degne di proferire dinanzi alladivinitá, nelle quali, oltre alle sue lode, si porgessero sacratelusinghe. E oltre a questo, accioché queste parole potessero avere piúd'efficacia, vollero che fossero sotto legge di certi numeri,corrispondenti per brevitá e per lunghezza a certi tempi ordinati,composte, per li quali alcuna dolcezza si sentisse, e cacciassesi ilrincrescimento e la noia; e questo non in volgar forma o usitata, comedicemmo, ma con artificiosa ed esquisita di modi e di vocaboli,convenne che si facesse. La qual forma, cioè di parlare esquisito, ligreci appellan «poetes»; laonde nacque, che quello parlare, che incotal modo fatto fosse, «poesie» s'appellasse; e quegli, che ciòfacessero o cotal modo di parlare usassero, si chiamasson «poeti».

Questa adunque fu la prima origine della poesia e del suo nome, e perconseguente de' poeti, come che altri n'assegnino altre ragioni forsebuone: ma questa mi piace piú.

Adunque questa buona e laudevole intenzione della rozza etá mossemolti a diverse invenzioni nel mondo multiplicante per apparere; e,dove i primi una sola deitá adoravano, stoltamente mostrarono a'segnenti esserne molte, comeché quella una dicessero, oltre ad ognialtra, ottenere il principato. Tra le quali molte, mostrarono essereil Sole, la Luna, Saturno, Giove e qualunque altro pianeto, la loroerronea dimostrazion roborando da' loro effetti. E da questi vennero amostrare, ogni cosa utile agli uomini, quantunque terrena fosse, in séocculta deitá conservare; alle quali tutte e versi e onori e sacrificidivini s'ordinarono. E poi susseguentemente avendo giá cominciatodiversi in diversi luoghi, chi con uno ingegno e chi con un altro, afarsi, sopra la moltitudine indòtta della sua contrada, maggiori e achiamarsi «re» e mostrarsi alla plebe con servi e con ornamenti, e afarsi ubbidire, e talvolta a farsí come Dio adorare; li quali, nonfidandosi tanto delle lor forze, cominciarono ad aumentare lereligioni, e con la fede di quelle ad impaurire i suggetti e astrignere con sacramenti alla loro obbedienza quegli, li quali non visi sarebbon con le forze recati. E, oltre a questo, diedono opera adeificare li lor padri, li loro avoli, li lor maggiori, o a dimostraresé figliuoli degli iddii, accioché piú fosson temuti e avuti inreverenza dal vulgo. Le quali cose non si poterono commodamente faresenza l'oficio de' poeti, li quali, sí per ampliar la lor fama, sí percompiacere a' prencipi, sí per dilettare i sudditi, e sí ancora persuadere agl'intendenti il virtuosamente operare, quello che con apertoparlare saria suto della loro intenzion contrario, con fizioni varie emaestrevoli, male da' grossi, oggi non che a quel tempo, intese,facean credere quello che i prencipi voleano si credesse; servandonelli nuovi iddii e negli uomini, li quali degli iddii nati fingevano,quello medesimo stilo che in quello, che vero Iddio primieramentecredettero, usavano. Da questo si venne allo adequare i fatti de'forti uomini a quegli degl'iddii: donde nacque il cantare con eccelsoverso le battaglie e gli altri notabili fatti degli uominimescolatamente con quegli degli iddii. Per che si può delle predettecose comprendere uficio essere del poeta alcuna veritá sotto fabulosafizion nascondere con ornate ed esquisite parole. E, percioché moltiignoranti credono la poesia niuna altra cosa essere, che semplicementeun favoloso e ornato parlare; oltre al promesso, mi piace brievementemostrare la poesí esser teologia, o, piú propiamente parlando, quantopiú può simigliante di quella, prima che io vegna a dichiarare perchédi lauro si coronino i poeti.

XVIII

CHE LA POESIA È SIMIGLIANTE ALLA TEOLOGIA

Se noi vorrem por giú gli animi e con ragion riguardare, io mi credoche assai leggermente potrem vedere gli antichi poeti avere imitate,tanto quanto all'umano ingegno è possibile, le pedate dello Spiritosanto; il quale, sí come noi nella divina Scrittura veggiamo, per labocca di molti i suo' altissimi segreti rivelò a' futuri, facendo lorosotto velame parlare ciò che a debito tempo per opera, senza alcunvelo, intendeva di dimostrare. Impercioché essi, se noi riguarderembene le loro opere, accioché lo imitatore non paresse diverso dalloimitato, sotto coperta d'alcune fizioni, quello che stato era, o chefosse al lor tempo presente, o che disideravano, o che presumevano chenel futuro dovesse avvenire, discrissono. Per che, comeché ad un finel'una scrittura e l'altra non riguardasse, ma solo al modo deltrattare, quello del poetico stilo dir si potrebbe che della sacraScrittura dice Gregorio, cioè che essa in un medesimo sermone,narrando, apre il testo e il misterio a quello sottoposto; e cosí adun'ora con l'uno li savi esercita e con l'altro li sempliciriconforta, e ha in publico donde li pargoli nutrichi, e in occultoserva quello onde assai le menti dei sublimi intenditori conammirazione tenga sospese. Percioché pare essere un fiume piano eprofondo, nel quale il piccioletto agnello con gli piè vada e ilgrande elefante ampissimamente nuoti. Ma da verificar sono le cosepredette con alcune dimostrazioni.

XIX

DIMOSTRAZIONE DELLA PREDETTA SENTENZA

Intende la divina Scrittura, l'esplicazion della quale insieme conessa noi «teologia» appelliamo, quando con figura d'alcuna istoria,quando col senso d'alcuna visione, quando con lo 'ntendimento d'alcunalamentazione, e in altre maniere assai, mostrarci molti secoli avantiesser dallo Spirito santo a' futuri nunziato l'alto misterio dellaincarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le cose occorsenella sua morte, e la resurrezione vittoriosa, e la mirabileascensione, e ogni altro suo atto, per lo quale noi ammaestrati,possiamo a quella gloria pervenire, la quale Egli e morendo erisurgendo ci aperse, lungamente stata serrata per la colpa del primouomo. Cosí i poeti nelle loro invenzioni, quando con fizioni di variiddii, quando con trasformazioni d'uomini in varie forme e quando conleggiadre persuasioni ne mostrarono, sotto la corteccia di quelle, lecagioni delle cose, gli effetti delle virtú e de' vizi e che fuggirdobbiamo e che seguire, accioché pervenir possiamo, virtuosamenteoperando, a Dio; il quale essi, che lui non debitamente conoscieno,somma salute credeano. Volle lo Spirito santo monstrare nel ruboverdissimo, nel quale Moisé vide, quasí come una fiamma ardente,Iddio, la verginitá di Colei che piú che altra creatura fu pura, e chedovea essere abitazione e ricetto del Signore della natura, nondoversi per la concezione, né per lo parto del Verbo del Padre inalcuna parte diminuire. Volle per la visione veduta da Nabucdonosor,nella statua di piú metalli abbattuta da una pietra convertita poi inun monte, mostrare tutte le religioni, leggi e dottrine dellepreterite etá dalla dottrina di Cristo, il qual fu ed è viva pietra,[dovere essere sommerse; e la cristiana religione, nata di questapietra,] divenire una cosa grande, immobile e perpetua, sí come limonti veggiamo. Volle nelle lamentazioni di Ieremia l'eccidio futurodi Ierusalem dichiarare, e quello, per la sua ingratitudine e crudeltáin Cristo, avvenire.

Similemente li nostri poeti, fingendo Saturno aver molti figliuoli, equegli, fuor che quattro, divorar tutti, niuna altra cosa vollono pertal fizion farci sentire, se non per Saturno il tempo, nel quale ognicosa si produce; e come ella in esso è prodotta, cosí in esso, ditutto corrompitore, viene al niente. I quattro figliuoli dal tempo nondivorati sono i quattro elementi, li quali niuna diminuzione avere perlunghezza di tempo veggiamo. Similmente fingono li nostri poeti Erculed'uomo essere in Dio transformato, e Licaone re d'Arcadia transmutatoin lupo: nulla altro volendo mostrarci, se non che, virtuosamenteoperando come fece Ercule, l'uomo diventa Iddio per participazione; eviziosamente operando, come Licaon fece, cade in infamia, e,quantunque nel primo aspetto paia uomo, quella bestia è dinominato, ivizi della quale sono a' suoi simiglianti: Licaone, percioché rapace eavaro e ingluvioso fu, vizi familiarissimi al lupo, in lupotransformato si disse. Li nostri poeti ancora discrissero mirabile labellezza de' campi elisi, e in quegli dissono dopo la morte l'animede' pietosi uomini e valenti abitare: per li quali il cristiano uomomeritamente potrá intendere la dolcezza del paradiso solamente allepietose anime conceduta. E, oltre a ciò, oscura ed orrida e nel centrodella terra finsero la cittá di Dite, e quivi sotto vari tormentil'anime de' crudeli e malvagi uomini tormentarsi: per la quale chisará che non prenda l'amaritudine dello 'nferno e i supplici de'dannati tanto quanto piú esser possono rimoti da Dio? Nelle qualifizioni assai chiaro mostrano d'ingegnarsi, con la bellezza dell'uno,di trar gli uomini a virtuosamente operare per acquistarlo, e, con laoscuritá dell'altro, spaventargli, accioché per paura di quella siritraggano da' vizi e seguitin le virtú. Io lascio il tritare con piúparticulari esposizioni queste cose, per non lasciarmi sí oltre nellatransgression trasportare, che la principale materia patisca [a], eper venire a dimostrare perché di lauro si coronino i poeti.

[Footnote a: fidandomi ancora che gl'intendenti, per quello chedetto è, conosceranno quanta forza, piú trite, al mio argomentoaggiugnerieno. Assai adunque per le cose dette credo che è chiaro lateologia e la poesia nel modo del nascondere i suoi concetti consimile passo procedere, e però potersi dire simiglianti. È il vero cheil subietto della sacra teologia e quello della poesia de' poetigentili è molto diverso, percioché quella nulla altra cosa nascondeche vera, ove questa assai erronee e contrarie alla cristianareligione ne discrive: né è di ciò da maravigliarsi molto, perochéquella fu dettata dallo Spirito santo, il quale è tutto veritá, equesta fu trovata dallo 'ngegno degli uomini, li quali di quelloSpirito o non ebbono alcuna conoscenza o non l'ebbono tanto piena.]

XIX^bis

PERCHÉ I POETI NASCONDONO IL VERO SOTTO FIZIONI

Io poteva per avventura procedere ad altro, se alcuni disensati ancoraun pochetto intorno a questo ragionamento non mi avessero ritirato.Sono adunque alcuni li quali, senza aver mai veduto o voluto vederepoeta (o, se veduto n'hanno alcuno, non l'hanno inteso o non l'hannovoluto intendere), e di ciò estimandosi molto reputati migliori, conampia bocca dannano quello che ancora conosciuto non hanno, cioè leopere de' poeti e i poeti medesimi, dicendo le lor favole essere operepuerili e a niuna veritá consonanti; e, oltre a ciò, se essi eranouomini d'altissimo sentimento, in altra maniera che favoleggiandodovevano la loro dottrina mostrare. Grande presunzione è quella dimolti volere delle questioni giudicare prima che abbiano conosciuti imeriti delle parti: ma, poiché sofferire si conviene, a questi cotali,senza altro martirio, confesso le fizioni poetiche nella prima facciaavere niuna consonanza col vero. Ma, se per questo elle sono dadannare, che diranno costoro delle visioni di Daniello, che di quelledi Ezechiel, che dell'altre del vecchio Testamento, scritte con divinapenna, che di quelle di Giovanni evangelista? Diremo, perciochésomiglianza di vero in assai cose nella corteccia non hanno, sieno,come stoltamente dette, da rifiutare? Nol consentirá mai chi ficcherágli occhi dello 'ntelletto nella midolla. E questo voglio ancora chebasti per risposta alla seconda opposizione a questi giudici senzalegge: cioè che, se lo Spirito santo è da commendare d'avere i suoialti misteri dato sotto coverta, accioché le gran cose poste controppa chiarezza nel cospetto di ogni intelletto non venissono invilipensione, e che la veritá, con fatica e perspicacitá d'ingegnotratta di sotto le scrupolose ma ponderose parole, fosse piú cara epiú e con piú diletto entrasse nella memoria del trovatore; perchésaranno da biasimare i poeti, se sotto favolosi parlari avrannonascosi gli alti effetti della natura, le moralitá e i gloriosi fattidegli uomini, mossi dalle sopradette cagioni? Certo io nol conosco.

Perché sotto cosí fatta forma i poeti dessero la loro dottrina, oltrea ciò che detto n'è, ne possono le ragioni essere queste: o perimitare piú nobile autore, o perché forse in altra forma non eranoammaestrati. Ma di questo non mi pare da dovere far troppo agraquistione, conciosiacosaché ciascuno in cosí fatte elezioni piú tostoil suo giudicio séguiti che l'altrui; e però piú tosto si potrádimandare se cotal tradizione è utile o disutile. Alla quale mi pareche rispondere si possa questa utile essere stata, dove i nostrigiudici nel gridare la dimostrano disutile; e la ragione puote esserequesta. Certissima cosa è che, come gli ingegni degli uomini sonodiversi, cosí esser convengono diverse le maniere del dare ladottrina. Assai se ne sono giá veduti, a' quali niuna sillogisticadimostrazione ha potuto far comprendere il vero d'alcuna conclusione;la qual poi per ragioni persuasive hanno subitamente compresa. Chedunque con questi cotali varrá il sillogizzare d'Aristotile? Certo,niente. Cosí al contrario alcuni vilipendono tanto le persuasioni, chenulla crederanno essere vero, se sillogizzando non ne son convinti.Sono altri, li quali solo il nome della filosofia, non che ladottrina, spaventa, e che con sommo diletto alle lezioni delle favolecorreranno, non estimando sotto quella alcuna particella di filosofiapotersi nascondere; ché, se 'l credessero, non le vorrebbono udire. Diquesti cotali, non è dubbio, giá assai, dalla novitá delle favolemossi, divennero investigatori della veritá e domestici dellafilosofia, del cui nome altra volta aveano avuto paura. In questicotali adunque non furono dannosi i poeti, né disutile il modo delloro trattare, il qual per certo, a chi non lo intende, non può darealtro piacere che faccia il suono della cetera all'asino. E questo alpresente basti; e vegniamo a mostrare perché i poeti si coroninod'alloro. Tra l'altre genti ecc.]

XX

DELL'ALLORO CONCEDUTO AI POETI

Tra l'altre genti, alle quali piú aprí la filosofia i suoi tesori, igreci si crede che fosser quegli li quali d'essi trassero la dottrinamilitare e la vita politica, oltre alla notizia delle cose superiori;e, tra l'altre cose, la santissima sentenzia di Solone nel principiodella presente operetta discritta; la quale ottimamente e lungo temposervarono, fiorendo la loro republica. Alla quale osservare,considerati con gran diligenzia i meriti degli uomini, con publicoconsentimento ordinarono che, per piú degno guidardon che alcunoaltro, sí come a piú utile e piú onorevole fatica alla republica, lipoeti dopo la vittoria delle lor fatiche, cioè dopo la perfezione de'lor poemi, e, oltre a ciò, gl'imperadori dopo la vittoria avuta de'nimici della republica, fossono coronati d'alloro; estimando dovered'un medesimo onore esser degno colui per la cui virtú le cosepubliche erano e servate e aumentate, e colui per li cui versi le benfatte cose eran perpetuate, e vituperate le avverse. La qualeremunerazione poi parimente con la gloria dell'arme trapassò a'latini, e ancora, e massimamente nelle coronazioni de' poeti, come cherarissimamente avvengano, vi dimora. Ma perché a tal coronazion piúl'alloro, che fronda d'altro albero, eletto sia [a], pare la ragionquesta.

Vogliono coloro, li quali le virtú e le nature delle piante hannoinvestigate, il lauro, sí come noi medesimi veggiamo, giammai verdezzanon perdere: per la quale perpetua viriditá vollero i greci intenderela perpetuitá della fama di coloro che di coronarsi d'esso si fannodegni. Appresso affermano li predetti investigatori non trovarsi illauro essere stato mai fulminato, il che d'alcuno altro albero non sicrede: e per questo vollono gli antichi mostrare che l'opere dicoloro, che di quello si coronano, esser di tanta potenza dotate daDio, che né il fuoco della 'nvidia, né la folgore della lunghezza deltempo, la quale ogni altra cosa consuma, quelle debba potereoffuscare, rodere o diminuire. Dicono, oltre a ciò, i predetti quelloche noi tutto il giorno sentiamo, cioè il lauro essere odoriferomolto: e per quello vogliono intendere i passati, l'opere di colui,che degnamente se ne corona, sempre dovere esser piacevoli e graziosee odorifere di laudevole fama [b]. E perciò era non senza cagione

[Footnote a: non dovrá parere a udire rincrescevole.

Sono alcuni li quali credono, percioché Dafne, amata da Febo e inlauro convertita, fu da lui eletta a coronare le sue vittorie, e ipoeti sono a lui consacrati, quindi tale coronazione avere origineavuta: la quale opinione non mi spiace, né niego cosí poter esserestato; ma tuttavia mi muove altra ragione. Secondo che voglionocoloro, ecc.]

[Footnote b: Similemente una quarta proprietá, e maravigliosa, gliaggiungono; e questa è che dicono essere una specie di lauro, la cuipianta non fa mai che tre radici, delle frondi del quale qualunquepersona n'avesse alla testa legate e dormisse, vedrebbe veracissimisogni delle cose future mostranti: per la quale proprietá intesero inostri maggiori una dimostrarsene, la quale essere ne' poeti si vede.Perciò i poeti, discrivendo l'operazioni d'alcuno, delle qualisolamente gli effetti nudi avrá uditi, cosí le particulari incidenziemai non vedute né udite discriverá, come se all'operazione fosse statopresente; e percioché veridichi in ciò assai volte sono stati trovati,parendo quella essere stata specie di divinazione, furono chiamati«vati», cioè profeti, ed estimarono gli uomini loro di lauro coronare,a mostrare la proprietá della divinazione, nella quale paiono al laurosimiglianti. E perciò, ecc.] il nostro Dante, sí come merito poeta,di questa laurea disioso. Della quale percioché assai avem parlato,estimo sia onesto di tornare al proposito.

XXI

CARATTERE DI DANTE

Fu adunque il nostro poeta, oltre alle cose di sopra dette, d'animoaltiero e disdegnoso molto: tanto che, cercandosi per alcuno amicocome egli potesse in Firenze tornare, né altro modo trovandosi, se nonche egli per alcuno spazio di tempo stato in prigione, fossemisericordievolmente offerto a San Giovanni, calcato ogni ferventedisio del ritornarvi, rispose che Iddio togliesse via che colui, chenel seno della filosofia cresciuto era, divenisse cero del suo comune.

Oltre a questo, di se stesso presunse maravigliosamente tanto, cheessendo egli glorioso nel colmo del reggimento della republica, eragionandosi tra' maggior cittadini di mandar, per alcuna granbisogna, ambasciata a Bonifazio papa ottavo, e che prencipedell'ambasciata fosse Dante, ed egli a ciò in presenza di tuttiquegli, che sopra ciò consigliavan, richiesto, avvenne che,soprastando egli alla risposta, alcun disse:—Che pensi?—Alle qualiparole egli rispose:—Penso: se io vo, chi rimane? e se io rimango,chi va?—quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse e per cuitutti gli altri valessero.

Appresso, comeché il nostro poeta nelle sue avversitá paziente o no sifosse, in una fu impazientissimo: egli infino al cominciamento del suoesilio, come i suoi passati, stato guelfissimo, non essendogli apertala via a ritornare in casa sua, sí fuor di modo diventò ghibellino,che ogni femminella, ogni piccol fanciullo, e quante volte avessevoluto, ragionando di parte e la guelfa preponendo alla ghibellina,l'avrebbe non solamente fatto turbare, ma a tanta insania commosso,che, se taciuto non fosse, a gittar le pietre l'avrebbe condotto.

Certo io mi vergogno di dovere con alcun difetto maculare la chiarafama di cotanto uomo; ma il cominciato ordine delle cose in alcunaparte il richiede, percioché, se nelle cose meno laudevoli mi tacerò,io torrò molta fede alle laudevoli giá mostrate. A lui medesimoadunque mi scuso, il quale per avventura me scrivente con isdegnosoocchio d'alta parte del ciel mi riguarda.

Tra cotanta vertú, tra cotanta scienza, quanta dimostrato è di sopraessere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo lalussuria, e non solamente ne' giovani anni, ma ancora ne' maturi. Equesto basti al presente de' suoi costumi piú notabili aver contato, eall'opere da lui composte vegniamo.

XXII

LA «VITA NUOVA» E LA «COMMEDIA» INCIDENTI OCCORSI NELLA COMPOSIZIONEDI QUESTA OPERA

Compose questo glorioso poeta piú opere ne' suoi giorni, tra le qualisi crede la prima un libretto volgare, che egli intitola Vita Nuova:nel quale egli e in prosa e in sonetti e in canzoni gli accidentidimostra dell'amore, il quale portò a Beatrice.

Appresso piú anni, guardando egli della sommitá del governo della suacittá, e veggendo in gran parte qual fosse la vita degli uomini,quanti e quali gli error del vulgo, e i cadimenti ancora de' luoghisublimi come fussero inopinati, gli venne nell'animo quello laudevolpensiero che a' compor lo 'ndusse la Comedia. E, lungamente avendopremeditato quello che in essa volesse descrivere, in fiorentinoidioma e in rima la cominciò: ma non avvenne il poterne cosí tostovedere il fine, come esso per avventura imaginò; percioché, mentreegli era piú attento al glorioso lavoro, avendo giá di quello settecanti composti, de' cento che diliberato avea di farne, sopravvenne ilgravoso accidente della sua cacciata, ovver fuga, per la quale egli,quella e ogni altra cosa abbandonata, incerto di se medesimo, piú annicon diversi amici e signori andò vagando.

Ma non poté la nimica fortuna al piacer di Dio contrastare. Avvenneadunque che alcun parente di lui, cercando per alcuna scrittura inforzieri, che in luoghi sacri erano stati fuggiti nel tempo chetumultuosamente la ingrata e disordinata plebe gli era, piú vaga dipreda che di giusta vendetta, corsa alla casa, trovò un quadernuccio,nel quale scritti erano li predetti sette canti. Li quali conammirazion leggendo, né sappiendo che fossero, del luogo dove eranosottrattigli, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino dimesser Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore in rima, egliel mostrò. Li quali avendo veduti Dino, e maravigliatosi sí per lobello e pulito stilo, sí per la profonditá del senso, il quale sottola ornata corteccia delle parole gli pareva sentire, senza falloquegli essere opera di Dante imaginò; e, dolendosi quella essererimasa imperfetta, e dopo alcuna investigazione avendo trovato Dantein quel tempo essere appresso il marchese Moruello Malespina, non alui, ma al marchese, e l'accidente e il desiderio suo scrisse, emandògli i sette canti. Gli quali poi che il marchese, uomo assaiintendente, ebbe veduti, e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante,domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero. Li quali Dantericonosciuti, subito rispose che sua. Allora il pregò il marcheseche gli piacesse di non lasciar senza debito fine sí altoprincipio.—Certo—disse Dante—io mi credea nella ruina delle mie cosequesti con molti altri miei libri aver perduti; e perciò, sí per questacredenza, e sí per la moltitudine delle fatiche sopravvenute per lo mioesilio, del tutto avea la fantasia, sopra questa opera presa,abbandonata. Ma, poiché inopinatamente innanzi mi son ripinti, e a voiaggrada, io cercherò di rivocare nella mia memoria la imaginazione diciò prima avuta, e secondo che grazia prestata mi fia, cosí avantiprocederò.—Creder si dee lui non senza fatica aver la intralasciatafantasia ritrovata; la qual seguitando, cosí cominciò:

Io dico, seguitando, ch'assai prima, ecc.;

dove assai manifestamente, chi ben guarda, può la ricongiunzionedell'opera intermessa riconoscere.

Ricominciato adunque Dante il magnifico lavoro, non forse, secondo chemolti stimano, senza piú interromperlo il perdusse a fine; anzi piúvolte, secondo che la gravitá de' casi sopravvegnenti richiedea,quando mesi e quando anni, senza potervi adoperare alcuna cosa,interponeva; intanto che, piú avacciar non potendosi, avanti che tuttoil publicasse il sopraggiunse la morte. Egli era suo costume, come seio otto canti fatti n'avea, quegli, prima che alcun gli vedesse,mandare a messer Can della Scala, il quale egli oltre ad ogni altrouomo in reverenza avea; e, poi che da lui eran veduti, ne faceva copiaa chi la volea. E in cosí fatta maniera avendogliele tutti, fuori chegli ultimi tredici canti, mandati, ancora che questi tredici fattiavesse, avvenne che senza farne alcuna memoria si morí; né, piú voltecercati da' figliuoli, mai furon potuti trovare; per che Iacopo ePiero, suoi figliuoli, e ciascun dicitore, dagli amici pregati chel'opera terminasser del padre, a ciò, come sapean, s'eran messi. Mauna mirabile visione a Iacopo, che in ciò piú era fervente, apparita,lui e 'l fratello non solamente della stolta presunzion levò, mamostrò dove fossero li tredici canti tanto da lor cercati.

Raccontava uno valente uom ravignano, il cui nome fu Pier Giardino,lungamente stato discepolo di Dante, grave di costumi e degno di fede,che dopo l'ottavo mese dal dí della morte del suo maestro, venne unanotte, vicino all'ora che noi chiamiamo «mattutino», alla casa suaIacopo di Dante, e dissegli sé quella notte poco avanti a quell'oraavere nel sonno veduto Dante suo padre, vestito di candidissimivestimenti e d'una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui;il quale gli parea domandare se 'l vivea, e udire da lui per rispostadi sí, ma della vera vita, non della nostra. Per che, oltre a questo,gli pareva ancor domandare se egli avea compiuta la sua opera avantiil suo passare alla vera vita; e, se compiuta l'avea, dove fossequello che vi mancava, da loro giammai non potuto trovare. A questogli pareva similemente udir per risposta:—Sí, io la compie';—equinci gli parea che il prendesse per mano, e menasselo in quellacamera dove era uso di dormire quando in questa vita vivea, e toccandouna parte di quella, diceva:—Egli è qui quello che voi tanto avetecercato.—E, questa parola detta, ad un'ora il sonno e Dante gli parveche si partissono. Per la qual cosa affermava sé non esser potutostare senza venirgli a significare ciò che veduto avea, acciochéinsieme andassero a cercare il luogo mostrato a lui, il quale egliottimamente nella memoria avea segnato, a vedere se vero spirito ofalsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la qual cosa, comechéancora assai fosse di notte, mossisi insieme, vennero alla casa nellaquale Dante quando morí dimorava; e, chiamato colui che allora in essastava e dentro da lui ricevuti, al mostrato luogo n'andarono, e quivitrovarono una stuoia al muro confitta, sí come per lo passatocontinuamente veduta v'aveano. La quale leggiermente in alto levata,vidon nel muro una finestretta da niun di loro mai piú veduta, nésaputo che ella vi fosse, e in quella trovaron piú scritte, tutte perl'umiditá del muro muffate e vicino al corrompersi se guari piú statevi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, vider segnate pernumeri, e conobbero quello, che in esse scritto era, esser de' rittimidella Comedia: per che, secondo l'ordine dei numeri continuatele,insieme li tredici canti, che alla Comedia mancavan, ritrovâr tutti.Per la qual cosa lietissimi quegli riscrissono e, secondo l'usanzadell'autore, prima gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfettaopera gli ricongiunson, come si convenía; e in cotal maniera l'opera,in molti anni compilata, si vide finita.

XXIII

PERCHÉ DANTE COMPOSE LA «COMMEDIA» IN VOLGARE A CHI EGLI LA DEDICÒ

Muovon molti, e intra essi alcun savi uomini, una quistion cosí fatta:che, conciofossecosaché Dante fosse in iscienza solennissimo uomo,perché a comporre cosí grande opera e di sí alta materia, come la suaComedia appare, si mosse piú tosto a scrivere in rittimi e nelfiorentino idioma che in versi, come gli altri poeti giá fecero. Allaquale si può cosí rispondere. Aveva Dante la sua opera cominciata perversi in questa guisa:

Ultima regna canam, fluido contermina mundo, spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt pro meritis cuicumque suis, ecc.

Ma, veggendo egli li liberali studi del tutto essere abbandonati, emassimamente da' prencipi, a' quali si soleano le poetiche opereintitolare, e che soleano essere promotori di quelle; e, oltre a ciò,veggendo le divine opere di Virgilio e quelle degli altri solennipoeti venute in non calere e quasi rifiutate da tutti, estimando nondover meglio avvenir della sua, mutò consiglio e prese partito difarla corrispondente, quanto alla prima apparenza, agl'ingegni deiprencipi odierni; e, lasciati stare i versi, ne' rittimi la fece chenoi veggiamo. Di che seguí un bene, che de' versi non sarebbe seguito:che, senza tôr via lo esercitare degl'ingegni de' letterati, egli a'non letterati diede alcuna cagion di studiare, e a sé acquistò inbrevissimo tempo grandissima fama, e maravigliosamente onorò ilfiorentino idioma.

Questo libro della Comedia, secondo che ragionano alcuni, intitolòegli a tre solennissimi italiani: la prima parte di quello, cioè lo'Nferno, ad Uguiccion della fa*ggiuola, il quale allora in Toscanaera signor di Pisa; la seconda, cioè il Purgatorio, al marcheseMoruello Malespina; la terza, cioè il Paradiso, a Federico terzo, redi Cicilia. Alcuni voglion dire lui averlo intitolato tutto a messerCan della Scala; e io il credo piú tosto, per la maniera che tenne dimandar prima a lui quello che composto avea che ad alcuno altro.

XXIV

ALTRE OPERE COMPOSTE DA DANTE

Compose ancora questo egregio autore nella venuta d'Arrigo settimoimperadore un libro in latina prosa, nel quale, in tre libri distinto,prova a bene esser del mondo dovere essere imperadore, e che Roma diragione il titolo dello imperio possiede, e ultimamente che l'autoritádello 'mperio procede da Dio senza alcun mezzo. Gli argomenti delquale percioché usati furono in favore di Lodovico duca di Bavieracontro alla Chiesa di Roma, fu il detto libro, sedente Giovanni papaventiduesimo, da messer Beltrando cardinal dal Poggetto, allora per laChiesa di Roma legato in Lombardia, dannato sí come contenente coseeretiche, e per lui proibito fu che studiare alcun nol dovesse. E seun valoroso cavaliere fiorentino, chiamato messer Pino della Tosa, emesser Ostagio da Polenta, li quali amenduni appresso del legato erangrandi, non avessero al furor del legato obviato, egli avrebbe nellacittá di Bologna insieme col libro fatte ardere l'ossa di Dante[a].

Oltre a questi, compose il detto Dante egloghe assai belle, le qualifurono intitolate e mandate da lui, per risposta di certi versimandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio.

Compose ancora molte canzoni distese e sonetti e ballate, oltre aquelle che nella sua Vita nuova si leggono.

E sopra tre delle dette canzoni, comeché intendimento avesse sopratutte di farlo, compose uno scritto in fiorentin volgare, il qualenominò Convivio, assai bella e laudevole operetta.

[Footnote a: Se giustamente o non, Iddio il sa di vero. Oltre aquesti ecc.]

Appresso, giá vicino alla sua morte, compose un libretto in prosalatina, il quale egli intitolò De vulgari eloquentia; e comeché perlo detto libretto apparisca lui avere in animo di distinguerlo eterminarlo in quattro libri, o che piú non ne facesse dalla mortesoprappreso, o che perduti sien gli altri, piú non appariscon che idue primi.

In cosí fatte cose, quali di sopra narrate sono, consumò ilchiarissimo uomo quella parte del suo tempo, la quale egli agliamorosi sospiri, alle pietose lagrime, alle sollecitudini private epubliche e a' vari fluttuamenti della iniqua fortuna poté imbolare:opere troppo piú a Dio e agli uomini accettevoli che gl'inganni, lefraudi, le menzogne, le rapine e' tradimenti, li quali la maggiorparte degli uomini usano oggi, cercando per qualunque via un medesimofine, cioè di divenir ricchi, quasi nelle ricchezze ogni bene, ognionore, ogni beatitudine stea. Oh menti sciocche, una brieve particellad'un'ora separará dal caduco corpo lo spirito, e tutte questevituperevoli fatiche annullerá; e il tempo, nel quale ogni cosa sisuol consumare, o senza indugio recherá a niente la memoria del ricco,o quella per alcuno spazio con gran vergogna di lui serverá! Il chedel nostro poeta certo non avverrá; anzi, sí come noi veggiamo deglistrumenti bellici avvenir, che, usandogli, piú chiari diventanoognora, cosí il suo nome, quanto piú sará stropicciato dal tempo,tanto piú chiaro e piú lucente diventerá.

XXV

SPIEGAZIONE DEL SOGNO DELLA MADRE DI DANTE

Mostrato è sommariamente qual fosser l'origine, gli studi e la vita e'costumi, e quali sieno l'opere state dello splendido uomo DanteAlighieri, poeta chiarissimo, e con esse alcuna altra cosa, facendotransgressione, secondo che conceduto m'ha Colui che d'ogni grazia èdonatore. Ma la mia fatica non è ancora al suo fine venuta,rammemorandomi una particella nel processo promessa, cioè il sognodella madre del nostro poeta, quando gravida era in lui, e ilsignificato di quello: nel quale se un pochetto mi stendessi, priegopazientemente il sófferino i lettori.

Dico adunque che la madre del nostro poeta, essendo gravida di quellagravidezza, della quale esso poi a debito tempo nacque, dormendo, leparve nel sonno vedere sé essere al piè d'uno altissimo alloro, allatoa una chiara fontana, e quivi partorire un figliuolo, il quale lepareva il piú pascersi delle bache che dello alloro cadevano, e beredisiderosamente dell'acqua di quella fontana; e da questo cibonudrito, le parea che in piccol tempo crescesse e divenisse pastore, enella vista grandissima vaghezza mostrasse d'aver delle frondi diquello alloro, le cui bache l'avean nutricato; e, sforzandosi d'averdi quelle, avanti che ad esse giunto fosse, le pareva che eglicadesse; e, aspettando ella di vederlo levare, non lui, ma in luogo dilui le pareva vedere un bellissimo paone esser levato. Dalla qualmaraviglia la gentil donna commossa, senza piú avanti vedere, ruppe ildolce sonno. Né tenne quello, che veduto aveva, nascoso, comeché,recitatolo a molti, neuno ne fosse, che quello per quel comprendesseche seguir ne dovea. Il che, poi che avvenuto è, piú leggiermenteconoscer si puote, sí come io appresso mi credo mostrare[a].

[Footnote a: Opinione è degli astrolagi e di molti filosofinaturali, per la virtú e influenzia de' corpi superiori, gl'inferiori,quali che essi si sieno, e producersi e nutricarsi, e ciascheduno,secondo la qualitá della virtú infusa, essere piú utile ad alcuna oalcune cose che al rimanente dell'altre: il che assai appare negliuomini, se le loro attitudini guarderemo. Percioché noi tra molti nevedremo alcuno, che senza dottrina, senza maestro, senza alcunadimostrazione, sospinto solamente da uno istinto naturale, divenireottimo cantatore; e, se quanti fabbri furono mai gli fussonod'intorno, non gli potrebbono insegnare tenere un martello in mano,non che formare una spada; e, se pure, constretto, o per moltaconsuetudine dell'arte fabbrile alcuna cosa imparasse o facesse, comein suo arbitrio sará, al naturale suo intento, cioè al canto, sitornerá, se da sé giá per forza della sua libertá non lasciasse ilcanto, e al martello s'attenesse. Cosí alcuno altro nascerá adisegnare e a intagliare sí disposto, che ogni piccola dimostrazioneil fará in ciò in brevissimo tempo sommo maestro, dove in qualunquealtra leggiera arte fia durissima cosa ad introdurlo. Che andrò iodella varietá delle singolari disposizioni degli uomini dicendo, senon quello che il nostro poeta medesimo ne dice:

Un ci nasce Solone, ed altro Xerse, altri Melchisedech, ed altri quello che, volando per l'aere, il figlio perse?

Appare adunque varie constellazioni a varie cose disporre gli ingegnidegli uomini; e però, considerato chi fu Dante e quale la suaprincipale affezione, assai bene si conoscerá il cielo nella suanativitá essere disposto a dover producere un poeta. E, perchél'alloro, come davanti avemo mostrato, è quello albero, le cui fronditestimoniano nella coronazione la facoltá del poeta, meritamentepossiamo dire, l'alloro dalla donna veduto significare e ladisposizione del cielo nella nativitá futura di Dante, e la precipuaaffezione e studio di colui che nascere dovea, sí come chiaramenten'ha dimostrato quello che appresso la nativitá di Dante è seguito.L'essersi colui, ecc.]

Possiamo adunque, riguardando, come di sopra è detto, l'alloro esserde' poeti ornamento, per quello dalla donna veduto intendere ladisposizion celeste esser stata atta, nella concezion di Dante, adover producere un poeta.

L'essersi colui, che nato era, delle bache che dello alloro cadevanonudrito, assai chiaramente dimostra quali dovevano essere gli studi diDante; percioché, sí come il corpo si nutrica e cresce del cibo, cosígl'ingegni degli uomini si nutricano e aumentano degli studi. E lebache, che frutto son dell'alloro, non vogliono altro significare chei frutti della poesia nati, li quali sono i libri da' poeti composti,e da' quali Dante senza dubbio e nutricò e aumentò il suo ingegno.

Il chiarissimo fonte, del quale pareva alla donna che bevesse il suofigliuolo, niuna altra cosa credo che voglia significare se non ilcopioso e abbondantissimo seno della filosofia, del quale, ciò checompor si vuole, è di necessitá che si prenda; e, sí come il poto èordinatore e disponitor nello stomaco del cibo preso, cosí lafilosofia, d'ogni cosa buona maestra verissima, con la sua dottrina èottima componitrice d'ogni cosa a debito fine. Nelle cui scuole, comedi sopra mostrammo, accioché sé e le sue invenzioni ordinare sapesse,e intender compiutamente l'altrui, il nostro poeta bevve piú tempodigestivo e salutevole beveraggio.

Appresso il parere pastor divenuto, la sublimitá del suo ingegno nemostra, per la quale in brieve tempo divenne tanto e tale, che nonsolamente bastevole fu a governar sé, ma eziandio a mostrare aglialtri ingegni la sua dottrina. Sono, al mio giudicio, di pastori duemaniere: corporali e spirituali [a]. I corporali sono i pastorsilvani, li re e' padri delle famiglie; li spirituali

[Footnote a: Li corporali similmente sono di due qualitá, l'unadelle quali sono quegli che, per le selve e per gli prati, le pecore,gli buoi e gli altri armenti pascendo menano; l'altra sonogl'imperadori, i re, i padri delle famiglie, i quali con giustizia ein pace hanno a conservare i popoli loro commessi, e a trovare ondevengano a' tempi opportuni i cibi a' sudditi e a' figliuoli. Lispirituali pastori similmente dire si possono di due maniere: dellequali è l'una quella di coloro che pascono l'anime de' viventi di cibospirituale, cioè della parola di Dio, e questi sono i prelati, ipredicatori e i sacerdoti, nella cui custodia sono commesse l'animelabili di qualunque sotto il governo a ciascuno ordinato dimora;l'altra è quella di coloro, li quali in alcuna scienzia ammaestratiprima, poi ammaestrano altrui leggendo o componendo. E di questamaniera di pastori vide la madre il suo figliuolo divenuto. Losforzarsi ad aver delle frondi assai manifesto ne mostra essere ildesiderio della laureazione, peroché ogni fatica aspetta premio, e ilpremio dello avere alcuna cosa poetica composta, è l'onore che per lacorona dello alloro si riceve. Ma séguita che cadere il vide, quandopiú a ciò si sforzava; il quale cadere niuna altra cosa fu se non quelcadimento che tutti facciamo senza levarci, cioè il morire: il che alui avvenne quando giá avea finito quello per che meritamente lalaureazione gli seguiva. Seguentemente dicea che in luogo di lui videlevarsi un paone; ove intender si dee che, dopo alla morte diciascuno, a servare il nome suo appo i futuri surgono l'opere sue. Eperciò in luogo d'Alessandro macedonico, di Iuda Maccabeo, di ScipioneAffricano, abbiamo le loro vittorie e l'altre magnifiche opere; inluogo d'Aristotile, di Solone e di Virgilio, abbiamo i loro libri, leloro composizioni, eterne conservatrici de' nomi e della presenzialoro nel cospetto di que' che vivono; e cosí in luogo di Dante ecc.]sono i prelati e' sacerdoti e similmente i dottori, in qualunquefacultá de' quali il nostro Dante fu uno.

Lo sforzarsi ad aver delle frondi assai manifestamente ne mostraessere stato il disiderio della laureazione, nel quale mentre sifaticava cadde, cioè morí.

E vide la madre in luogo di lui levarsi un paone: per che intender sidee che, dopo alla morte di ciascuno, a servare il nome suo appo ifuturi surgono l'opere sue. Laonde in luogo di Dante abbiamo la suaComedia, la quale ottimamente si può conformare ad un paone. Ilpaone, secondo che comprendere si può, ha queste proprietá: che la suacarne è odorifera e incorruttibile; la sua penna è angelica, e inquella ha cento occhi; li suoi piedi sono sozzi, e tacita l'andatura;e, oltre a ciò, ha sonora e orribile voce: le quali cose con laComedia del nostro poeta ottimamente si convengono.

Dico adunque primieramente che, cercando in assai parti lo intrinsecosenso della Comedia, e in assai lo intrinseco e lo estrinseco, sitroverá essere semplice e immutabile veritá, non di gentilizio puzzospiacevole, ma odorifera di cristiana soavitá, e in niuna cosa dallareligione di quella scordante.

Dissi, appresso, il paone avere angelica penna, e in quella centoocchi. Certo io non vidi mai alcuno angelo; ma, udendo che voli,estimo che penne aver debba; e, non sappiendone alcuna fra questinostri uccelli piú bella né cosí peregrina, considerata la nobiltá diloro, imagino che cosí la debbiano aver fatta, e però non da queste leloro, ma queste da quelle dinomino; e intendo per quelle, delle qualiquesto paon si cuopre, la bellezza della peregrina istoria che apparenella lettera della Comedia; e il cambiare del color di quella,secondo i vari mutamenti di questo uccello, niuna altra cosa essersento, se non la varietá de' sensi che a quella in una maniera e inaltra, leggendola, si posson dare. E i cento occhi, chi non intenderái cento canti di quella, ne' quali ella cosí è ordinata e distinta eornata, come ne' lor luoghi distinti mirabilmente gli occhi si veggononel paone?

Sono e al paone i piè sozzi e l'andatura queta: le quali coseottimamente alla Comedia del nostro autor si confanno; percioché, sícome sopra i piedi pare che tutto il corpo si sostenga, cosí primafacie pare che sopra il modo del parlare ogni opera in iscritturacomposta si sostenga; e il parlare volgare, nel quale e sopra il qualeogni giuntura della Comedia si sostiene, a rispetto dell'alto emaestrevole stilo letterale che usa ciascuno altro poeta, è senzadubbio sozzo. L'andar quieto e tacito significa l'umiltá dello stilo,il quale nelle comedie di necessitá si richiede, come color sanno cheintendon che vuol dir «comedia».

Ultimamente dico che la voce del paone è sonora e orribile; la quale,comeché la soavitá delle parole del nostro poeta paia e sia molta,nondimeno chi bene in alcune parti riguarderá, ottimamente conosceráconfarsi con la voce della Comedia, e massimamente dove conacerbissime invezioni grida ne' vizi d'alcuni, oppur, distesamenteprocedendo, d'alcuni altri morde le colpe o gastiga i miseripeccatori. E niuna è piú orrida voce di quella del gastigante, emassimamente a colui che ha commesso o a colui che, a mandare i suoiappetiti ad effetto, schifa l'ostacolo del riprensore. Per la qualcosa e per l'altre di sopra mostrate assai appare, colui che fu,vivendo, pastore, dopo la morte esser divenuto paone, sí come credersi puote essere stato per divina spirazione nel sonno mostrato allacara madre[a].

[Footnote a: Questa esposizione del sogno della madre del nostropoeta conosco essere assai superficialmente per me fatta; e questo perpiú cagioni. Primieramente, perché per avventura la sufficienzia, chea tanta cosa si richiederebbe, non c'era; appresso, posto che stata cifosse, piú tosto altro luogo per sé richiedeva che questo, ad altramateria congiunta; ultimamente, quando la sufficienzia ci fosse stata,e la materia l'avesse patito, era ben fatto, piú che detto sia, nonessere detto da me, accioché ad altrui piú di me sufficiente e piúvago di ciò alcun luogo si lasciasse di dire. La mia picciola barca,ecc.]

XXVI

CONCLUSIONE

La mia picciola barca è pervenuta al porto, al quale ella drizzò laproda partendosi dallo apposito lito; e, comeché il peleggio sia statopiccolo e il mare basso e tranquillo, nondimeno, di ciò che senzaimpedimento è venuta, ne sono da render grazie a Colui che felicevento ha prestato alle sue vele. Al Quale con quella umiltá edivozione che io posso maggiore, non cosí grandi come si converrieno,ma quelle che io posso, rendo, benedicendo in eterno il nome suo.

III

COMENTO ALLA «DIVINA COMMEDIA»

PROEMIO

[Lez. I]

«Nel mezzo del cammin di nostra vita», ecc. La nostra umanitá,quantunque di molti privilegi dal nostro Creatore nobilitata sia,nondimeno di sua natura è sí debile, che cosa alcuna, quantunquemenoma sia, fare non può né bene né compiutamente, senza la divinagrazia. La qual cosa gli antichi valenti uomini e' moderniconsiderando, a quella supplicemente addomandare e con ogni divozionea nostro potere impetrare, almeno ne' princípi d'ogni nostraoperazione, pietosamente e con paterna affezione ne confortano. Allaqual cosa dee ciascuno senza alcuna difficultá divenire, leggendoquello che ne scrive Platone, uomo di celestiale ingegno, nel fine delprologo del suo Timeo, per sé dicendo: «Nam cum omnibus mos sit etquasi quaedam religio, qui vel de maximis rebus, vel de minimisaliquid acturi sunt, precari divinitatem ad auxilium; quanto nosaequius est, qui universitatis naturae substantiaeque rationempraestaturi sumus, invocare divinam opem, nisi plane quodam saevofurore atque implacabili raptemur amentia?». E, se Platone confessasé, piú che alcun altro, avere del divino aiuto bisogno, io che debbodi me presumere, conoscendo il mio intelletto tardo, lo 'ngegnopiccolo e la memoria labile? E spezialmente, sottentrando a peso moltomaggiore che a' miei ómeri si convegna, cioè a spiegare l'artificiosotesto, la moltitudine delle storie, e la sublimitá de' sensi nascosisotto il poetico velo della Commedia del nostro Dante; emassimamente ad uomini d'alto intendimento e di mirabile perspicacitá,come universalmente solete esser voi, signori fiorentini: certo, oltreogni considerazione umana, debbo credere abbisognarmi. Adunque,accioché quello che io debbo dire sia onore e gloria dell'altissimonome di Dio, e consolazione e utilitá degli auditori, intendo, avantiche io piú oltre proceda, quanto piú umilmente posso, ricorrere adinvocare il suo aiuto; molto piú della sua benignitá fidandomi ched'alcuno mio merito. E, impercioché di materia poetica parlar dovemo,poeticamente quello invocherò con Anchise troiano, dicendo que' versiche nel secondo del suo Eneida scrive Virgilio:

Iupiter omnipotens, precibus si flecteris ullis, aspice nos: hoc tantum: et, si pietate meremur, da deinde auxilium, pater, ecc.

[Invocata adunque la divina clemenzia che alla presente fatica nepresti della sua grazia, avanti che alla lettera del testo si venga,estimo sieno da vedere tre cose, le quali generalmente si soglioncercare ne' princípi di ciascuna cosa che appartenga a dottrina: laprimiera è di mostrare quante e quali sieno le cause di questo libro;la seconda, qual sia il titolo del libro; la terza, a qual parte difilosofia sia il presente libro supposto.]

[Le cause di questo libro son quattro: la materiale, la formale, laefficiente e la finale. La materiale è, nella presente opera, doppia,cosí come è doppio il suggetto, il quale è colla materia una medesimacosa; percioché altro suggetto è quello del senso letterale, e altroquello del senso allegorico, li quali nel presente libro amendunisono, sí come manifestamente apparirá nel processo. È adunque ilsuggetto secondo il senso letterale: lo stato dell'anime dopo la mortede' corpi semplicemente preso; percioché di quello, e intorno aquello, tutto il processo della presente opera intende. Il suggettosecondo il senso allegorico è: come l'uomo, per lo libero arbitriomeritando e dismeritando, è alla giustizia di guiderdonare e di punireobbligato. La causa formale è similmente doppia, percioch'egli è laforma del trattato e la forma del trattare. La forma del trattato èdivisa in tre, secondo la triplice divisione del libro. La primadivisione è quella secondo la quale tutta l'opera si divide, cioè intre cantiche; la seconda divisione è quella secondo la quale ciascunadelle tre cantiche si divide in canti; la terza divisione è quellasecondo la quale ciascun canto si divide in rittimi. La forma, o veroil modo del trattare, è poetico, fittivo, discrittivo, digressivo etransuntivo; e con questo, difinitivo, divisivo, probativo,reprobativo e positivo d'esempli. La causa efficiente è esso medesimoautore Dante Alighieri, del quale piú distesamente diremo appresso,dove del titolo del libro parleremo. La causa finale della presenteopera è: rimuovere quegli che nella presente vita vivono, dallo statodella miseria, allo stato della felicitá.]

[La seconda cosa principale, che è da vedere, è qual sia il titolo delpresente libro, il quale secondo alcuni è questo: «Incomincia laCommedia di Dante Alighieri fiorentino»; alcun altro, seguendo piúla 'ntenzione dell'autore, dice il titolo essere questo: «Incomincianole cantiche della Commedia di Dante Alighieri fiorentino». La quale,percioché, come detto è, è in tre parti divisa, dice il titolo diquesta prima parte essere: «Incomincia la prima cantica delle cantichedella Commedia di Dante Alighieri»; volendo per questa mostraredovere il titolo di tutta l'opera essere: «Cominciano le cantichedella Commedia di Dante» ecc., come detto è.]

[Ma, perché questo poco resulta, il lasceremo nell'albitrio degliscrittori, e verremo a quello per che all'autore dové parere didoverlo cosí intitolare, dicendo la cagione del titolo secondo,percioché in quello si conterrá la cagione del primo, il quale quasida tutti è usitato. E ad evidenzia di questo, secondo il mio giudicio,è da sapere, sí come i musici ogni loro artificio formano sopra certedimensioni di tempi lunghe e brievi, e acute e gravi, e della varietádi queste, con debita e misurata proporzione congiunta, e quello poiappellano «canto»; cosí i poeti, non solamente quelli che in latinoscrivono, ma eziandio coloro che, come il nostro autore fa,volgarmente dettano: componendo i lor versi, secondo la diversaqualitá d'essi, di certo e diterminato numero di piedi, intra semedesimi, dopo certa e limitata quantitá di parole, consonanti: sícome nel presente trattato veggiamo che, essendo tutti i rittimid'equal numero di sillabe, sempre il terzo piè nella sua fine èconsonante alla fine del primo, che in quella consonanza finisce. Perche pare che a questi cotali versi, o opere composte per versi, quellonome si convenga che i musici alle loro invenzioni dánno, come davantidicemmo, cioè «canti», e per conseguente quella opera, che di molticanti è composta, doversi «cantica» appellare, cioè cosa in sécontenente piú canti.]

[Appresso si dimostra nel titolo questo libro essere appellato«commedia». A notizia della qual cosa è da sapere che le poetichenarrazioni sono di piú e varie maniere, sí come è tragedia, satira ecommedia, buccolica, elegia, lirica ed altre. Ma, volendo di quellasola, che al presente titolo appartiene, vedere, vogliono alcuni malconvenirsi a questo libro questo titolo, argomentando primieramentedal significato del vocabolo, e appresso dal modo del trattare de'comici, il quale pare molto essere differente da quello che l'autoreserva in questo libro. Dicono adunque primieramente mal convenirsi lecose cantate in questo libro col significato del vocabolo; percioché«commedia» vuol tanto dire quanto canto di villa, composto da«comos,», che in latino viene a dire «villa», e «odos», che vienea dire «canto»; e i canti villeschi, come noi sappiamo, sono di bassematerie, sí come di loro quistioni intorno al cultivar della terra, oconservazione di lor bestiame, o di lor bassi e rozzi innamoramenti ecostumi rurali: a' quali in alcuno atto non sono conformi le cosenarrate in alcuna parte della presente opera; ma sono di personeeccellenti, di singulari e notabili operazioni degli uomini viziosi evirtuosi, degli effetti della penitenza, de' costumi degli angeli edella divina essenza. Oltre a questo, lo stilo comico è umile erimesso, accioché alla materia sia conforme; quello che della presenteopera dir non si può; percioché, quantunque in volgare scritto sia,nel quale pare che comunichino le femminette, egli è nondimeno ornatoe leggiadro e sublime; delle quali cose nulla sente il volgar dellefemmine. Non dico però che, se in versi latini fosse, non mutato ilpeso delle parole volgari, ch'egli non fosse molto piú artificioso epiú sublime, percioché molto piú d'arte e di gravitá ha nel parlarlatino che nel materno.]

[E appresso, dell'arte spettante al commedo;] mai nella commedia nonintroducere se medesimo in alcun atto a parlare, ma sempre a variepersone, che in diversi luoghi e tempi e per diverse cagioni deduce aparlare insieme, fa ragionare quello che crede che appartenga al temaimpreso della commedia: dove in questo libro, lasciato l'artificio delcommedo, l'autore spessissime volte, e quasi sempre, or di sé ord'altrui ragionando favella. Similmente nelle commedie non s'usanocomparazioni né recitazioni d'altre istorie che di quelle che al temaassunto appartengono; dove in questo libro si pongono comparazioniinfinite, e assai istorie si raccontano, che dirittamente non fanno alprincipale intento. Sono ancora le cose, che nelle commedie siraccontano, cose che per avventura mai non furono, quantunque nonsieno sí strane da' costumi degli uomini che essere state non possano:la sustanziale istoria del presente libro, dello essere dannati ipeccatori, che ne' lor peccati muoiono, a perpetua pena, e quegli, chenella grazia di Dio trapassano, essere elevati all'eterna gloria, è,secondo la cattolica fede, vera e santa sempre. Chiamano, oltre atutto questo, i commedi le parti intra sé distinte delle lor commedie«scene»; percioché, recitando li commedi quelle nel luogo detto«scena», nel mezzo del teatro, quante volte introducevano variepersone a ragionare, tante della scena uscivano i mimi trasformati daquelli che prima avevano parlato e fatto alcun atto, e in forma diquegli che parlar doveano, venivano davanti al popolo riguardante eascoltante il commedo che recitava: dove il nostro autore chiama«canti» le parti della sua Commedia. E cosí, accioché fine pognamoagli argomenti, pare, come di sopra è detto, non convenirsi a questolibro nome di «commedia». Né si può dire non essere stato della mentedell'autore che questo libro non si chiamasse «commedia», cometalvolta ad alcuno di alcuna sua opera è avvenuto; conciosiacosachéesso medesimo nel ventunesimo canto di questa prima cantica il chiamicommedia, dicendo: «Cosí di ponte in ponte altro parlando, Che la miacommedia cantar non cura», ecc. Che adunque diremo alle obiezionifatte? Credo, conciosiacosaché oculatissimo uomo fosse l'autore, luinon avere avuto riguardo alle parti che nelle commedie si contengono,ma al tutto, e da quello avere il suo libro dinominato,figurativamente parlando. Il tutto della commedia è (per quello cheper Plauto e per Terenzio, che furono poeti comici, si puòcomprendere): che la commedia abbia turbolento principio e pieno diromori e di discordie, e poi l'ultima parte di quella finisca in pacee in tranquillitá. Al qual tutto è ottimamente conforme il libropresente: percioché egli incomincia da' dolori e dalle turbazioniinfernali, e finisce nel riposo e nella pace e nella gloria, la qualehanno i beati in vita eterna. E questo dee poter bastare a fare checosí fatto nome si possa di ragion convenire a questo libro.

[Resta a vedere chi fosse l'autore di questo libro: la qual cosa nonpure in questo libro, ma in ciascun altro pare di necessitá di doversisapere; e questo, accioché noi non prestiamo stoltamente fede a chinon la merita, conciosiacosaché noi leggiamo: «Qui misere credit,creditur esse miser». E qual cosa è piú misera che credere alpatricida dell'umana pietá, al libidinoso della castitá, o all'ereticodella fede cattolica? Rade volte avviene che l'uomo contro alla suaprofessione favelli. Voglionsi adunque esaminare la vita, e' costumi egli studi degli uomini, accioché noi cognosciamo quanta fede sia daprestare alle loro parole.]

[Fu adunque l'autore del presente libro, sí come il titolo netestimonia, Dante Alighieri, per ischiatta nobile uomo della nostracittá; e la sua vita non fu uniforme, ma, da varie mutazioniinfestata, spesse volte in nuove qualitá di studi si permutò, dellaqual non si può convenevolmente parlare che con essa non si ragionide' suoi studi. E però egli primieramente dalla sua puerizia nellapatria si diede agli studi liberali, e in quegli maravigliosamentes'avanzò; percioché, oltre alla prima arte, fu, secondo che appressosi dirá, maraviglioso loico, e seppe retorica, sí come nelle sue opereappare assai bene; e, percioché nella presente opera appare lui esserestato astrolago, e quello esser non si può senza arismetrica egeometria, estimo lui similemente in queste arti essere statoammaestrato. Ragionasi similmente lui nella sua giovanezza avere uditafilosofia morale in Firenze, e quella maravigliosamente bene averesaputa: la qual cosa egli non volle che nascosa fosse nell'undicesimocanto di questo trattato, dove si fa dire a Virgilio: «Non ti rimembradi quelle parole, Con le qua' la tua Etica pertratta», ecc., quasivoglia per questa s'intenda la filosofia morale in singularitá esserestata a lui familiarissima e nota. Similemente udí in quella gliautori poetici, e studiò gli storiografi, e ancora vi prese altissimiprincípi nella filosofia naturale, sí come esso vuole che si senta perli ragionamenti suoi in questa opera avuti con ser Brunetto Latino, ilquale in quella scienza fu reputato solennissimo uomo. Né fu,quantunque a questi studi attendesse, senza grandissimi stimoli,datigli da quella passione, la qual noi generalmente chiamiamo«amore»: e similmente dalla sollecitudine presa degli onori publici,a' quali ardentemente attese, infino al tempo che, per paura dipeggio, andando le cose traverse a lui e a quegli che quella settaseguivano, convenne partir di Firenze. Dopo la qual partita, avendoalquanti anni circuita Italia, credendosi trovar modo a ritornarenella patria, e di ciò avendo la speranza perduta, se n'andò a Parigi,e quivi ad udire filosofia naturale e teologia si diede; nelle qualiin poco tempo s'avanzò tanto, che fatti e una e altra volta certi attiscolastici, sí come sermonare, leggere e disputare, meritò grandissimelaude da' valenti uomini. Poi in Italia tornatosi, e in Ravennariduttosi, avendo giá il cinquantesimosesto anno della sua etácompiuto, come cattolico cristiano fece fine alla sua vita e alle suefatiche, dove onorevolmente fu appo la chiesa de' frati minoriseppellito, senza aver preso alcun titolo o onore di maestrato, sícome colui che attendeva di prendere la laurea nella sua cittá,com'esso medesimo testimonia nel principio del canto venticinquesimodel Paradiso. Ma al suo disiderio prevenne la morte, come detto è. Isuoi costumi furono gravi e pesati assai, e quasi laudevoli tutti; ma,percioché giá delle predette cose scrissi in sua laude un trattatello,non curo al presente di piú distenderle. Le quali cose se con sanamente riguardate saranno, mi pare esser certo che assai dicevoletestimonio sará reputato e degno di fede, in qualunque materia è statanella sua Commedia da lui recitata.]

[Ma del suo nome resta alcuna cosa da recitare, e pria del suosignificato, il quale assai per se medesimo si dimostra; perciochéciascuna persona, la quale con liberale animo dona di quelle cose, lequali egli ha di grazia ricevute da Dio, puote essere meritamenteappellato Dante. E che costui ne desse volentieri, l'effetto nolnasconde. Esso, a tutti coloro che prender ne vorranno, ha messodavanti questo suo singulare e caro tesoro, nel quale parimente onestodiletto e salutevole utilitá si trova da ciascuno che non caritevoleingegno cercare ne vuole. E, percioché questo gli parveeccellentissimo dono, sí per la ragion detta, e sí perché con moltasua fatica, con lunghe vigilie e con istudio continuo l'acquistò, nonparve a lui dovere essere contento che questo nome da' suoi parentigli fosse imposto casualmente, come molti ciascun dí se ne pongono;per dimostrar quello essergli per disposizion celeste imposto, a dueeccellentissime persone in questo suo libro si fa nominare; dellequali la prima è Beatrice, la quale apparendogli in sul triunfalecarro del celestiale esercito in su la suprema altezza del monte dipurgatorio, intende essere la sacra teologia, dalla quale si deecredere ogni divino misterio essere inteso, e con gli altri insiemequesto, cioè che egli per divina disposizione chiamato sia Dante. Aconfermazione di ciò, si fa a lei Dante appellare in quella parte deltrentesimo canto del Purgatorio, nel quale essa, parlandogli, glidice: «Dante, perché Virgilio se ne vada»: quasi voglia s'intenda, seella di questo nome non lo avesse conosciuto degno, o non l'avrebbenominato, o avrebbelo per altro nome chiamato. Oltre a ciò,soggiugnendo, per la ragion giá detta, in quello luogo di necessitáregistrarsi il nome suo, e questo ancora, accioché paia lui a taltermine della teologia esser pervenuto che, essendo Dante, possa senzaVirgilio, cioè senza la poesia, o vogliam dire senza la ragione delleterrene cose, valere alle divine. L'altra persona, alla quale nominarsi fa, è Adamo nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio dinominare tutte le cose create; e, perché si crede lui averledegnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrareche degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza diAdamo. La qual cosa fa nel canto ventiseesimo del Paradiso, lá doveAdamo gli dice: «Dante, la voglia tua discerno meglio» ecc. E questobasti intorno al titolo avere scritto.]

[La terza cosa principale, la qual dissi essere da investigare, è aqual parte di filosofia sia sottoposto il presente libro; il quale,secondo il mio giudizio, è sottoposto alla parte morale, ovvero etica:percioché, quantunque in alcun passo si tratti per modo speculativo,non è perciò per cagione di speculazione ciò posto, ma per cagiondell'opera, la quale quivi ha quel modo richiesto di trattare.]

[Espedite le tre cose sopra dette, è da vedere della rubricaparticolare che segue, cioè: «Incomincia il primo canto dello'Nferno». Ma avanti che io piú oltre proceda, considerando lavarietá e la moltitudine delle materie che nella presente letturasopravverranno, il mio poco ingegno e la debolezza della mia memoria,intendo che, se alcuna cosa meno avvedutamente o per ignoranza mivenisse detta, la qual fosse meno che conforme alla cattolica veritá,che per non detta sia, e da ora la rivoco, e alla emendazione dellasanta Chiesa me ne sommetto.]

[Dice adunque la nostra rubrica: «Incomincia il primo canto dello'Nferno»: intorno alla quale è da vedere s'egli è inferno, e s'eln'è piú che uno, e in qual parte del mondo sia, onde si vada in esso,qual sia la forma di quello, a che serva, e se per altro nome sichiama che «inferno». E primieramente dico ch'egli è inferno: il cheper molte autoritá della Scrittura si pruova, e primieramente perIsaia, il quale dice: «Dilatavit infernus animam suam, et aperuitos suum absque ullo termino»; e Vergilio nel sesto dell'Eneidadice: «Inferni ianua regis»; e Iob: «In profundissimum infernumdescendet anima mea». Per le quali autoritá appare essere inferno.]

[Appresso si domandava s'egli n'era piú d'uno. Appare per lo sensodella Scrittura sacra che ne sieno tre, de' quali i santi chiamanol'uno superiore, e il secondo mezzano, e il terzo inferiore; vogliendoche il superiore sia nella vita presente, piena di pene, di angosce edi peccati. E di questo parlando, dice il salmista: «Circumdederuntme dolores mortis, et pericula inferni invenerunt me»; e in altraparte dice: «Descendant in infernum viventes»; quasi voglia dire«nelle miserie della presente vita».]

[E di questo inferno sentono i poeti co' santi, fingendo questoinferno essere nel cuore de' mortali; e, in ciò dilatando la fizione,dicono a questo inferno essere un portinaio, e questo dicono essereCerbero infernal cane, il quale è interpretato divoratore: sentendoper lui la insaziabilitá de' nostri disidèri, li quali saziare néempiere non si possono. E l'uficio di questo cane non è di vietarel'entrata ad alcuno, ma di guardare che alcuno dello 'nferno non esca;volendo per questo che lá dove entra la cupiditá delle ricchezze,degli stati, de' diletti e dell'altre cose terrene, ella o non n'escemai, o con difficultá se ne trae; sí come essi mostrano, fingendoquesto cane essere stato tratto da Ercule dello 'nferno, cioè questainsaziabilitá de' disidèri terreni esser dal virtuoso uomo trattafuori del cuore di quel cotale virtuoso. Appresso dicono in questoinferno essere Carone nocchiero e il fiume d'Acheronte: e perAcheronte sentono la labile e flussa condizione delle cose disideratee la miseria di questo mondo; e per Carone intendono il tempo, ilquale per vari spazi le nostre volontá e le nostre speranze d'untermine trasporta in un altro, o voglian dire che, secondo i varitempi, varie cose che muovono gli appetiti essere al cuoretrasportate. Dicono, oltre a ciò, sedere in questo inferno Minos, Eacoe Radamanto, giudici e sentenziatori delle colpe dell'anime che inquello inferno vanno; e a costoro questo uficio attribuiscono,percioché grandissimi legisti furono e giusti uomini: per lorointendendo la coscienza di ciascuno, la quale, sedendo nella nostramente, è prima e avveduta giudicatrice delle nostre operazioni, e diquelle col morso suo ci affligge e tormenta. E appresso, a quali peneella condanna i peccatori, in alquanti tormentati disegnano.]

[Dicono quivi essere Tantalo, re di Frigia, il quale, percioché poseil figliuolo per cibo davanti agl'iddii, in un fiume e tra grandeabbondanza di pomi, di fame e di sete morire; sentendo per costui laqualitá dell'avaro, il quale, per non diminuire l'acquistato, nonardisce toccarne, e cosí in cose assai patisce disagio, potendoseneadagiare. E senza fallo sono quello che Tantalo è interpretato secondoFulgezio, cioè «volente visione»; percioché gli avari alcuna cosa nonvogliono de' loro tesori se non vedergli.]

[Fingono ancora in quello essere Isione, il quale, percioché essendo,secondo che alcuni vogliono, segretario di Giove e di Giunone,richiese Giunone di voler giacer con lei; la quale in forma di sè glipose innanzi una nuvola, con la quale giacendo, d'essa ingenerò icentauri; e Giove il dannò a questa pena in inferno, che egli fosselegato con serpenti a' raggi d'una ruota, la quale mai non ristesse divolgersi: volendo per questo che per Isione s'intendano coloro liquali sono disiderosi di signoria, e per forza alcuna tiranniaoccupano, la quale ha sembianza di regno, che per Giunone s'intende; edi questa tirannia sopravvegnendo i sospetti, nascono i centauri, cioègli uomini dell'arme, co' quali i tiranni tengono le signorie controa' piaceri de' popoli: ed hanno i tiranni questa pena, che sono semprein revoluzioni; e, se non sono, par loro essere, con occultesollicitudini: le quali afflizioni per la ruota volubile e per leserpi s'intendono.]

[Oltre a questi, vi discrivono Tizio: percioché disonestamenterichiese Latona, dicono lui da Apollo essere stato allo 'nfernodannato a dovergli sempre essere il fegato beccato da avvoltoi, equello, come consumato è, rinascere intero; per costui sentendo quegliche d'alto e splendido luogo sono gittati in basso stato, li qualisempre sono infestati da mordacissimi pensieri, intenti come tornarpossano lá onde caduti sono; né prima dall'una sollicitudine sonolasciati, che essi sono rientrati nell'altra; e cosí senza requies'affliggono.]

[Pongonvi ancora le figliuole di Danao, e dicono, per l'avere esseuccisi i mariti, esser dannate ad empier d'acqua certi vasi senzafondo; per la qual cosa, sempre attignendo, si faticano invano:volendo per questo dimostrare la stoltizia delle femmine, le quali,avendosi la ragion sottomessa (la quale dee essere lor capo e lorguida, come è il marito) intendono con loro artifici far quello chegiudicano non aver fatto la natura, cioè, lisciandosi e dipignendosi,farsi belle; di che segue le piú volte il contrario, e perciò è la lorfatica perduta. O voglian dire sentirsi per queste la effeminatasciocchezza di molti, li quali, mentre stimano con continuato coitosodisfare all'altrui libidine, sé vòtano ed altrui non riempiono. Ma,accioché io non vada per tutte le pene in quello discritte, chesarebbono molte, dico che questo del superiore inferno sentirono ipoeti gentili.]

[Il secondo inferno, dissi, chiamavano mezzano, sentendo quello esserevicino alla superficie della terra, il qual noi volgarmente chiamiamolimbo, e la santa Scrittura talvolta il chiama il seno d'Abraam: equesto vogliono esser separato da' luoghi penali, vogliendo in essoessere istati i giusti antichi aspettanti la venuta di Cristo. E diquesto mostra il nostro autore sentire, dove pon quegli o che nonpeccarono o che, bene adoperando, morirono senza battesimo. Ma questoè differente da quello de' santi, in quanto quegli che v'erano,disideravano e speravano, e venne la loro salute, e quegli, chel'autor pone, disiderano, ma non isperano.]

[Estimarono ancora essere un inferno inferiore, e quello esser luogodi pene eterne date a' dannati. E di questo dice il Vangelo: «Mortuusest dives, et sepultus est in inferno». Ed il salmista: «In infernoautem quis confitebitur tibi?». E che questo sia, si legge nelVangelio, in quella parte ove il ricco seppellito in inferno, vedendosopra sé Lazzaro nel grembo d'Abraam, il priega che intinga il ditominimo nell'acqua, e gittandogliele in bocca, il rifrigeri alquanto. Edi questo inferno tratta similmente il nostro autore dal quinto cantoin giú.]

[Domandavasi appresso, dove sia l'entrata ad andare in questo inferno;conciosiacosaché l'autore quella, nel principio del terzo canto,scrivendo, dove ella sia in alcuna parte non mostra: della qual cosaappo gli antichi non è una medesima oppenione. Omero, il quale pareessere de' piú antichi poeti che di ciò menzione faccia, scrive nellibro undicesimo della sua Odissea, Ulisse per mare essere statomandato da Circe in oceano per dovere in inferno discendere a sapereda Tiresia tebano i suoi futuri accidenti; e quivi dice lui esserepervenuto appo certi popoli, li quali chiama scizi, dove alcuna lucedi sole mai non appare, e quivi avere lo 'nferno trovato. Virgilio, ilquale in molte cose il séguita, in questo discorda da lui, scrivendonel sesto del suo Eneida l'entrata dello 'nferno essere appo il lagod'Averno tra la cittá di Pozzuolo e Baia, dicendo:

Spelunca alta fuit vastoque immanis hiatu, scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris; quam super haud ullae poterant impune volantes tendere iter pennis: talis sese halitus atris faucibus effundens supera ad convexa ferebat: unde locum Graii dixerunt nomine Avernum, ecc.

E per questa spelunca scrive essere disceso Enea appresso la Sibillain inferno. Stazio, nel primo del suo Thebaidos, dice questo luogoessere in una isola non guari lontana da quella estremitá d'Acaia, laquale è piú propinqua all'isola di Creti, chiamata «Traenaron»: e diquindi dice essere, a' tempi d'Edipo re di Tebe, d'inferno venuta nelmondo Tesifone, pregata da lui a mettere discordia tra Etiocle ePollinice, suoi figliuoli, cosí scrivendo:

…….illa per umbras, et caligantes animarum examine campos Traenareae limen petit irremeabile portae, ecc.

E con costui mostra d'accordarsi Seneca tragedo, in tragoediaHerculis furentis, dove dice Cerbero infernal cane essere statotratto d'inferno da Ercule e da Teseo per la spelunca di Trenaro,dicendo cosí:

Postquam est ad oras Traenari ventum, et nitor percussit oculos lucis, ecc.

Pomponio Mela, nel primo libro della sua Cosmografia, dice questoluogo essere appo i popoli, li quali abitano vicini all'entrata nelmare maggiore, scrivendo in questa forma: «In eo primum Mariatidineiurbem habitant, ab Argivo, ut ferunt, Hercule datam, Heracleavocitatur. Id famae fidem adiecit: iuxta specus est Acherusia, admanes, ut aiunt, pervius; atque inde extractum Cerberum existimant»,ecc. Altri dicono di Mongibello, e di Vulcano e di simili, quelloaffermando con favole non assai convenienti alle femminelle.]

[La forma di questo inferno, parlando di lui come di cosa materiale,discrive l'autore essere a guisa d'un corno il quale diritto fosse, edi questo fermarsi la punta in sul centro della terra, e la bocca disopra venire vicina alla superficie della terra; in quello,aggirandosi l'uomo intorno al voto del corno a guisa che l'uomo fa inqueste scale ravvolte, che vulgarmente si chiamano «chiocciole»,discendersi; benché in alcuna parte appaia questo luogo, se non quantoallo spazio della via onde si scende, essere in parte cavernoso e inparte solido: cavernoso, in quanto vi distingue luoghi, li qualiappella «cerchi», e ne' quali i miseri son puniti: e alcuna volta vidiscriva scogli e alcuni valichi e fiumi, li quali non potrebbono perlo vacuo, per quello ordine che egli discrive, discendere.]

[Serve lo 'nferno alla divina giustizia, ricevendo l'anime de'peccatori, le quali l'ira di Dio hanno meritata, e in sé gli tormentae affligge, secondo che hanno piú o meno peccato, essendo loro eternaprigione.]

[Ultimamente si domandava se altri nomi avea che «inferno»; il qualeaverne piú appo i poeti manifestamente appare. Virgilio, sí come nelsesto dell'Eneida si legge, il chiama Averno, dove dice:

Tros Anchisiades, facilis descensus Averni.

E nominasi questo luogo Averno, ab «a», quod est «sine», «vernus»,quod est «laetitia»: cioè luogo «senza letizia». E in altra parte nelpreallegato libro il chiama Tartaro: quivi:

…….tum Tartarus ipse bis patet in praeceps, ecc.

E questo nome è detto da «tortura», cioè da tormentamento, il quale imiseri in questo ricevono; ed è, secondo Virgilio, questo la piúprofonda parte dello 'nferno. Chiamalo ancora Dite nel preallegatolibro, dove dice:

Perque domos Ditis vacuas, et inania regna.

Ed è cosí chiamato dal suo re, il quale da' poeti è chiamato Dite,cioè ricco e abbondante; percioché in questo luogo grandissimamoltitudine d'anime discendono sempre. Nominalo similmente Orco nellibro spesse volte allegato, dove scrive:

Vestibulum ante ipsum, primisque in faucibus Orci.

Ed è chiamato Orco, cioè oscuro, percioché è oscurissimo, come nelprocesso apparirá. Oltre a questo l'appella Erebo nel giá detto libro,dicendo:

Venimus, et magnos Erebi transnavimus amnes.

E però è chiamato Erebo, secondo che dice Uguccione, perché eglis'accosta molto co' suoi supplici a coloro, li quali miseramentericeve e in sé tiene. Ed è ancora chiamato questo luogo Baratro, comeappresso dice l'autore nel canto ventiduesimo di questa parte, dovedice: «Cotal di quel baratro era la scesa». E chiamasi Baratro dallaforma di un vaso di giunchi, il quale è ritondo, nella parte superioreampio e nella inferiore angusto. Chiamalo ancora Abisso, sí comenell'Apocalisse si legge ove dice: «Bestia quae ascendet de abysso,faciet adversus illos bellum»; e in altra parte: «Data est illiclavis putei abyssi, et aperuit puteum abyssi». Il qual nomesignifica «profonditá». Hanne ancora il detto luogo alcuni, ma bastial presente aver narrati questi.]

[Vedute le predette cose, avanti che all'ordine della lettura sivegna, pare doversi rimuovere un dubbio, il quale spesse volte giá èstato, e massimamente da litterati uomini, mosso, il quale è questo.Dicono adunque questi cotali:—Secondo che ciascun ragiona, Dante fulitteratissimo uomo, e se egli fu litterato, come si dispuose egli acomporre tanta opera e cosí laudevole, come questa è, in volgare?—A'quali mi pare si possa cosí rispondere: Certa cosa è che Dante fueruditissimo uomo, e massimamente in poesia, e disideroso di fama,come generalmente siam tutti. Cominciò il presente libro in versilatini, cosí:

Ultima regna canam fluido contermina mundo, spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt pro meritis cuicumque suis, ecc.

E giá era alquanto proceduto avanti, quando gli parve da mutare stilo:e il consiglio, che il mosse, fu manifestamente conoscere i liberalistudi e' filosofici essere del tutto abbandonati da' prencipi e da'signori e dagli altri eccellenti uomini, li quali solevano onorare erendere famosi i poeti e le loro opere: e però, veggendo quasiabbandonato Vergilio e gli altri, o essere nelle mani d'uomini plebeie di bassa condizione, estimò cosí al suo lavorío dovere addivenire, eper conseguente non seguirnegli quello per che alla fatica sisommettea. Di che gli parve dovere il suo poema fare conforme, almenonella corteccia di fuori, agl'ingegni de' presenti signori, de' qualise alcuno n'è che alcuno libro voglia vedere, e esso sia in latino,tantosto il fanno trasformare in volgare: donde prese argomento che,se volgare fosse il suo poema, egli piacerebbe, dove in latino sarebbeschifato. E perciò, lasciati i versi latini, in rittimi volgariscrisse, come veggiamo. Questo soluto, ne resta venire ecc., utsupra.]

CANTO PRIMO

I

SENSO LETTERALE

[Lez. II]

[Resta a venire all'ordine della lettura, e primieramente alledivisioni. Dividesi adunque il presente volume in tre partiprincipali, le quali sono li tre libri ne' quali l'autore medesimol'ha diviso: de' quali il primo, il quale per leggere siamo alpresente, si divide in due parti, in proemio e trattato. La secondacomincia nel principio del secondo canto. La prima parte si divide indue: nella prima discrive l'autore la sua ruina; nella secondadimostra il soccorso venutogli per sua salute. La seconda cominciaquivi: «Mentre ch'io rovinava in basso loco». Nella prima fa l'autoretre cose: primieramente discrive il luogo dove si ritrovò; appressomostra donde gli nascesse speranza di potersi partire di quel luogo;ultimamente pone qual cosa fosse quella che lo 'mpedisse a dover diquello luogo uscire: la seconda quivi: «Io non so ben ridir»; la terzaquivi: «Ed ecco quasi».]

[Dice adunque cosí: «Nel mezzo del cammin di nostra vita». Ove adevidenzia di questo principio è da sapere, la vita de' mortali è,massimamente di quegli li quali a quel termine divengono, il qualepare che per convenevole ne sia posto, di settanta anni; quantunquealquanti, e pochi, piú ne vivano, e infinita moltitudine meno, sí comeper lo salmista si comprende nel salmo ottantanovesimo, dove dice:«Anni nostri sicut aranea meditabuntur; dies annorum nostrorum inipsis septuaginta anni. Si autem in potentatibus, octoginta anni; etamplius eorum, labor et dolor»; e perciò colui il quale perviene atrentacinque anni, si può dire essere nel mezzo della nostra vita. Edè figurata in forma d'uno arco, dalla prima estremitá del quale infinoal mezzo si salga, e dal mezzo infino all'altra estremitá si discenda;e questo è stimato, percioché infino all'etá di trentacinque anni, oin quel torno, pare sempre le forze degli uomini aumentarsi, e queltermine passato diminuirsi. E a questo termine d'anni pare chel'autore pervenuto fosse, quando prima s'accorse del suo errore. E cheegli fosse cosí, assai bene si verifica per quello che giá miragionasse un valente uomo chiamato ser Piero di messer Giardino daRavenna, il quale fu uno de' piú intimi amici e servidori che Danteavesse in Ravenna; affermandomi avere avuto da Dante, giacendo eglinella infermitá della quale e' morí, lui avere di tanto trapassato ilcinquantesimosesto anno, quanto dal preterito maggio aveva infino aquel dí. E assai ne consta Dante esser morto negli anni di Cristo1321, dí 14 di settembre: per che, sottraendo ventuno di cinquantasei,restano trentacinque; e cotanti anni avea nel 1300, quando mostrad'avere la presente opera incominciata. Per che appare ottimamente lasua etá esser discritta dicendo: «Nel mezzo del cammin», cioè dellospazio, «di nostra vita», cioè di noi mortali. «Mi ritrovai», errando,«per una selva oscura»; a differenza d'alcune selve, che sonodilettevoli e luminose, come è la pineta di Chiassi. «Ché la dirittavia era smarrita». Vuole mostrare qui che di suo proponimento non eraentrato in questa selva, ma per ismarrimento.]

[«E quanto a dir», cioè a discrivere, «qual era», questa selva, «ècosa dura», quasi voglia dire impossibile, «esta selva selvaggia easpra e forte». Pon qui tre condizioni di questa selva: dice prima cheell'era «selvaggia», quasi voglia dinotare non avere in questa alcunaumana abitazione, e per conseguente essere orribile; dice appressoch'ella era «aspra», a dimostrare la qualitá degli alberi e de'virgulti di quella, li quali doveano essere antichi, con rami lunghi eravvolti, contessuti e intrecciati intra se stessi, e similementepiena di pruni, di tribuli e di stecchi, senza alcuno ordinecresciuti, e in qua e in lá distesi: per le quali cose era aspra cosae malagevole ad andare per quella; e in quanto dice «forte», dichiaralo 'mpedimento giá premostrato, vogliendo per l'asprezza di quelli,essa esser forte, cioè difficile a potere per essa andare e fuoriuscirne. E questo dice esser tanto, «Che nel pensier», cioè nellarammemorazione d'esservi stato dentro, «rinnova la paura». Umanocostume è, tante volte da capo rimpaurire quante l'uom si ricorda de'pericoli ne' quali l'uomo è stato.]

[«Tanto è amara», non al gusto ma alla sensibilitá umana, «che poco èpiú morte». Ed è la morte, secondo il filosofo, l'ultima delle coseterribili, intanto che ciascuno animale naturalmente ad ogni estremopericolo si mette per fuggirla. Adunque, se la morte è poco piú amarache quella selva, assai chiaro appare lei dovere essere molto amara,cioè ispaventevole ed intricata: le quali cose prestano amaritudinegravissima di mente. «Ma, per trattar del ben ch'io vi trovai».Maravigliosa cosa pare quella che l'autore dice qui, e cioè che eglialcun bene trovasse in una selva tanto orribile quanto egli hamostrato esser questa; e, percioché egli nella lettera non esprimequal bene in quella trovasse, assai si può vedere questo bene trovatoda lui convenirsi trarre di sotto alla corteccia litterale; e perciò,dove di questa parte apriremo l'allegoria, chiariremo quello che quivoglia intendere. «Dirò dell'altre cose», cioè che non sono bene,«ch'io v'ho scorte», cioè vedute; e questo altresí si conosceránell'allegoria.]

[«I' non so ben ridir com'io v'entrai». In questa parte mostral'autore donde gli nascesse speranza di potersi partire di quel luogo,e primieramente risponde a una tacita quistione. Potrebbe alcunodomandare:—Se questa selva era cosí paurosa e amara cosa, comev'entrastú entro?—A che egli risponde sé non saperlo, e assegna laragione, dicendo: «Sí era pien di sonno in su quel punto, Che laverace via», la quale mi menava lá dove io dovea e volea andare,«abbandonai».]

«Ma poi ch'i' fui», errando e cercando come di quella uscir potessi,«appiè d'un colle giunto», cioè pervenuto, «Lá dove terminava»,finiva, «quella valle», nella quale era questa selva oscura, «Chem'avea di paura il cor compunto», cioè afflitto, «Guardai in alto evidi le sue spalle», cioè la sommitá quasi, sí come le spalle nostresono quasi la piú alta parte della persona nostra, «Coperte giá de'raggi del pianeta», cioè del sole, il quale è l'uno de' sette pianeti.E perciò dice del sole, percioché esso solo è di sua natura luminoso,e ogni altro corpo che luce, o pianeto o stella o qualunque altro, hada questo la luce, sí come da fonte di quella, sí come per esperienzasi vede negli eclissi lunari; e questa luce ha solo, non per la suapotenza, ma per singular dono del suo Creatore, e hanne in tantaabbondanza, che ad ogni parte dintorno a sé manda infinita moltitudinedi raggi, per li quali, ovunque pervenir possano, si diffondecopiosamente la luce sua; e questi raggi, sagliendo il sole dalloinferiore emisperio al superiore, le prime parti che toccano del corpodella terra, alla quale, sagliendo il sole, pervengono, sono lesommitá de' monti. Per la qual cosa appare qui che il giornocominciava ad apparire, quando l'autore cominciò ad avvedersi doveera, ed a volere di quel luogo uscire; e di potere ciò fare gli vennesperanza, rammemorandosi che la luce di questo pianeto «mena dirittoaltrui per ogni calle», cioè per ogni via, in quanto, essendo il solesopra la terra, vede l'uomo dov'e' si va, e ancora con migliorgiudicio si dirizza lá dove andar vuole, mediante la luce di costui.

E, per questa speranza presa, dice: «Allor fu la paura un poco queta»,cioè meno infesta, «Che nel lago del cuor». È nel cuore una parteconcava, sempre abbondante di sangue, [nel quale, secondo l'oppinionedi alcuni, abitano li spiriti vitali], e di quella, sí come di fonteperpetuo, si ministra alle vene quel sangue e il calore, il quale pertutto il corpo si spande; ed è quella parte ricettacolo di ogni nostrapassione: e perciò dice che in quella gli era perseverata la passionedella paura avuta. E perciò dice: «m'era durata, La notte ch'i' passaicon tanta pièta», cioè con tanta afflizione, sí per la diritta via laquale smarrita avea, e sí per lo non vedere, per le tenebre dellanotte, donde né come egli si potesse alla diritta via ritornare.

«E qual è quei, che con lena», cioè virtú, «affannata», affaticata.«Uscito fuor del pelago alla riva»: come colui il quale rompe in mare,che, dopo molto notare, faticato e vinto perviene alla riva, e«Volgesi all'acqua perigliosa», della quale è uscito, «e guata»; e inquel guatare, cognosce molto meglio il pericolo del quale è scampato,che esso non cognosceva, mentre che in esso era, percioché allora,spronandolo la paura del perire, a null'altra cosa aveva l'animo chesolo allo scampare; ma, scampato, con piú riposato giudicio vedequante cose poteano la sua salute impedire e, quasi in esso fosse,molto piú teme, che non facea quando v'era: e però séguita adattandosé alla comparazione: «Cosí l'animo mio, ch'ancor fuggiva», cioè cheancora scampato esser non gli parea, ma come se nel pericolo fosseancora, di fuggire si sforzava; e, cosí parendogli, «Si volseindietro», come fa colui che notando è pervenuto alla riva, «a rimirarlo passo», pericoloso della oscura selva, «Che non lasciò giammai»uscire di sé «persona viva». Questa parola non si vuole strettamenteintendere [esser viva], percioché qui usa l'autore una figura che sichiama «iperbole», per la quale non solamente alcuna volta si dice ilvero, ma si trapassa oltre al vero: come fa Vergilio, che, permanifestare la leggerezza della Cammilla, dice ch'ella sarebbe corsasopra l'onde del mare turbato, e non s'arebbe immollate le piante de'piedi. E perciò si vuole intender qui sanamente l'autore, cioè che diquello pericoloso passo pochi ne sieno usciti vivi; percioché, sealcuno non avesse vivo lasciato giammai, l'autore, che dice sé esserneuscito, come sarebbe vivo?

«E poi ch'ebbi posato il corpo lasso», per la fatica sostenuta,«Ripresi via per la piaggia diserta»; e cosí mostra avere abbandonatala valle per dover salire al monte, cioè in sí fatta maniera andando,«Sí che 'l piè fermo sempre era il piú basso». [Mostra l'usato costumedi coloro che salgono, che sempre si ferman piú in su quel piè che piúbasso rimane.]

«Ed ecco, quasi al cominciar dell'erta». In questa terza partedimostra l'autore qual cosa fosse quella che lo 'mpedisse a dovere diquel luogo uscire, e dice ciò essere stato tre bestie, per la fierezzadelle quali, non che salir piú avanti, ma egli fu per tornare indietronel pericolo del quale era incominciato ad uscire. Dice adunque: «Edecco quasi al cominciar dell'erta», cioè della costa, su per la qualesalir dovea per partirsi della pericolosa valle, «Una lonza leggera epresta molto, Che di pel maculato era coperta».

Poi, discritta la forma della bestia, dice: «E non mi si partíadinanzi al volto». Appresso dice che questo stargli sempre davanti,che essa «impediva tanto il mio cammino», per lo quale al monte salirvolea, «Ch'i' fui per ritornar», nella valle, «piú volte vòlto».

«Temp'era dal principio». Discrive qui l'autore l'ora che era del dí,quando egli era da questa bestia impedito, e la qualitá della stagionedell'anno; e quanto a l'ora del dí, dice ch'era principio «delmattino»: il che assai appare per li raggi del sole, li quali ancoranon si vedeano se non nella sommitá del monte. «E 'l sol montava 'nsu», cioè sopra l'orizzonte orientale di quella regione, vegnendodallo emisperio inferiore al superiore; «con quelle stelle», incompagnia, «Ch'eran con lui, quando l'Amor divino», cioè lo Spiritosanto, «Mosse da prima», cioè nel principio del mondo, «quelle cosebelle», cioè il cielo e le stelle. Dimostra qui l'autore per una bellae leggiadra discrizione la qualitá della stagione dell'anno. Adevidenzia della quale è da sapere che gli antichi filosofi caldei, eappresso loro gli egizi, furono li primi che per considerazioneconobbero il movimento dell'ottava sfera e de' pianeti, e similmentequello che per gli movimenti de' corpi superiori negl'inferiori neseguiva; e per lunghe esperienzie avvedendosi che, essendo il sole indiverse parti del cielo, evidentemente quaggiú si permutavano lequalitá dell'anno, e queste qualitá essere quattro, cioè quelle chenoi primavera, state, autunno e verno chiamiamo; intesa giá qual fossenel cielo la via del sole, quella, secondo il numero di queste,divisero in quattro parti eguali. E poi, perché sentirono ciascuna diqueste parti avere i principi differenti dalle fini, e 'l mezzosentire della natura del principio e della fine; ciascuna di questequattro parti divisero in tre parti equali; e cosí fu da loro la viadel sole divisa in dodici parti equali, e quelle chiamaron «segni». E,accioché l'uno si cognoscesse dall'altro, immaginando figurarono inciascuna parte alcun animale [ornato di certa quantitá di stelle,ingegnandosi di figurare, in quelle, animali], la natura del qualefosse conforme agli effetti di quella parte, nella quale con laimmaginazione il figuravano. E, percioché la prima qualitá dell'annoestimarono essere la primavera, quella vollero fosse il principiodell'anno; e cosí quella parte del cielo, nella quale essendo il solequesta primavera veniva, vollero che fosse la prima parte della viadel sole, e quivi figurarono un segno, il quale noi chiamiamo Ariete;nel principio del quale affermano alcuni Nostro Signore aver creato eposto il corpo del sole. E perciò, volendo l'autore dimostrare perquesta discrizione il principio della primavera, dice che il solesaliva su dallo emisperio inferiore al superiore, con quelle stelle lequali eran con lui, quando il divino Amore lui e l'altre cose bellecreò, e diede loro il movimento, il qual sempre poi continuato hanno;volendo per questo darne ad intendere che, quando da prima pose lamano alla presente opera, è circa al principio della primavera; e cosífu, sí come appresso apparirá. [Egli nella presente fantasia entrò adí 25 di marzo.]

«Sí ch'a bene sperar». Questa lettera si vuole cosí ordinare: «L'oradel tempo e la dolce stagione m'era cagione a sperar bene di quellafiera alla gaetta pelle»; o vero, se la lettera dice «di quella fierala gaetta pelle», si vuole ordinare cosí: «m'era cagione a sperar benela gaetta pelle di quella fiera». Ciascuna di queste due lettere sipuò sostenere, percioché sentenzia quasi non se ne muta. Reassumendoadunque la lettera come giace nel testo, dice: «Sí che a bene sperarm'era cagione Di quella fiera», cioè di quella lonza, «alla gaettapelle», cioè leggiadretta, percioché pulita molto è la pelle dellalonza; o vero, secondo l'altra lettera, «m'era cagione di bene sperar»di dovere ottenere la pelle di quella fiera (la quale esso intendea diprendere, se potuto avesse, con una corda la quale cinta avea, secondoche esso medesimo dice in questo medesimo libro, nel canto sedicesimo,dove scrive: «Io aveva una corda intorno cinta, E con essa pensai,alcuna volta, Prender la lonza alla pelle dipinta») «L'ora del tempo»,cioè il principio del dí, «e la dolce stagione», cioè la primavera.

Ma puossi qui domandare: che speranza poteva qui porgere di vittoriasopra la lonza l'ora del mattino e la stagion della primavera?Conciosiacosaché in questi due tempi soglia piú di ferocitá esserenegli animali, percioché l'ora del mattino gli suole generalmentetutti rendere affamati, e per conseguente feroci, e la stagione deltempo gli soglia render innamorati piú che alcun altra stagion deltempo; e gli animali sogliono per queste due cose, per lo cibo e pervenere, esser ferocissimi, e massimamente la lonza, la quale è di suanatura lussuriosissimo animale: e cosí pare che di quello, di che siconforta, si dovesse piú tosto sconfortare. Puossi nondimeno cosírispondere: che, conceduto quello, che detto è, essere negli animalibruti, è credibile negli uomini similemente in questo tempo crescereil vigore, in quanto essi, che razionali sono, veggendo partire letenebre della notte, le quali sogliono essere e sono piene di paura,nel tempo lucido veggono come possano l'arti del loro ingegno usare avincere, e in che guisa possano i pericoli e l'esser vinti fuggire. Eil tempo della primavera, secondo i fisici, è conforme allacompression sanguinea, e però in quella il sangue è piú chiaro, piúcaldo e piú ardire amministra al cuore e forze al corpo; e quinci peravventura si puote nell'autore accendere ottima speranza di vittoria.

«Ma non sí», gli diede speranza l'ora del tempo ecc., «Che paura nonmi desse La vista», cioè la veduta, «che m'apparve», appresso lalonza, «d'un leone. Questi parea che contr'a me venesse» (e cosíappare questo leone essere il secondo ostaculo, il quale il suocammino di salire al monte impedí) «Colla test'alta», nel qual atto simostrava audace, «e con rabbiosa fame» (questo il faceva meritamenteda temere, come di sopra è detto), «Sí che parea che l'aer netemesse», in quanto l'aere, impulso dall'impeto del venire del leone,indietro si traeva, il quale è atto di chi fugge. Con questo mostrava,impropriamente parlando, di aver paura di lui.

«Ed una lupa» (questo è il terzo ostaculo, il quale il suo salireimpediva) «che di tutte brame Pareva carca nella sua magrezza». Bramaè propriamente il bestiale appetito di manicare, peroché oltremodopieno di voler si mostra; lo quale essere in questa lupa testimonia lamagrezza sua, della quale noi prosumiamo quello animale, in cui laveggiamo, esser male stato pasciuto, e per conseguente magro e indibramoso. «Che molte genti fe' giá viver grame», cioè dolorose.«Questa» lupa «mi porse tanto di gravezza», cioè di noia, «Colla paurach'uscía di sua vista», cioè era sí orribile nello aspetto, che ellaporgea paura altrui, «Ch'io perdei la speranza dell'altezza», cioè dipoter pervenire alla sommitá del monte, sopra le cui spalle aveaveduti i raggi del sole.

«E quale è que' che volentieri acquista». Per questa comparazione nedimostra l'autore qual divenisse per lo impedimento pórtogli da questabestia, dicendo: «E quale è que'», o mercatante o altro, «chevolentieri acquista», cioè guadagna, «E giugne 'l tempo che perder loface», qual che sia la cagione, «Che 'n tutti i suoi pensier», ne'quali si solea guadagnando rallegrare, perdendo «piange e s'attrista;Tal mi fece la bestia senza pace», cioè questa lupa, la qual diceesser animale senza pace, percioché la notte e 'l dí sempre staattenta e sollecita a poter predare e divorare: «Che venendomiincontro», come soglion fare le bestie che vogliono altrui assalire,«a poco a poco», tirandom'io indietro, «Mi ripignea lá ove il soltace», cioè nella oscura selva, della quale io era uscito. Ed èquesto, cioè «dove 'l sol tace», improprio parlare, e non l'usal'autore pur qui, ma ancora in altre parti in questa opera, sí comenel canto quinto quando dice: «I' venni in luogo d'ogni luce muto».Assai manifesta cosa è che il sole non parla, né similemente alcunoluogo, de' quai dice qui che l'un tace, cioè il sole, e il luogo èmuto di luce; e sono questi due accidenti, il tacere e l'esser muto,propriamente dell'uomo (quantunque il Vangelo dica che uno avea undimonio addosso, e quello era muto): ma questo modo di parlare siscusa per una figura, la qual si chiama «acirologia». Vuole adunquedir qui l'autore, che la paura, ch'egli avea di questo animale, ilripignea lá dove il sol non luce, cioè in quella oscuritá, la qualeegli disiderava di fuggire.

«Mentre ch'io rovinava in basso loco». Qui dissi si cominciava laseconda parte di questo canto, nella quale l'autor dimostra ilsoccorso venutogli ad aiutarlo uscire di quella valle. E fa in questaparte sei cose: egli primieramente chiede misericordia a Virgilioquivi apparitogli, quantunque nol conoscesse; appresso, senzanominarsi, per piú segni dimostra Virgilio chi egli è; poi l'autore,estollendo con piú titoli Virgilio, s'ingegna di accattare labenivolenza sua, e mostragli di quello che egli teme; oltre a ciò,Virgilio gli dichiara la natura di quella lupa, e il disfacimento dilei, consigliandolo della via, la quale dee tenere; appresso, l'autorepriega Virgilio che gli mostri quello che detto gli ha; ultimamente,movendosi Virgilio, l'autore il segue. E segue la seconda quivi: «Edegli a me»; la terza quivi: «Or se' tu quel Virgilio»; la quartaquivi: «A te conviene»; la quinta quivi: «Ed io a lui:—Poeta»; lasesta quivi: «Allor si mosse».

Dice adunque nella prima: «Mentre ch'io rovinava», cioè tornava, «inbasso loco», cioè nella valle della quale era cominciato a partire,«Dinanzi agli occhi mi si fu offerto Chi per lungo silenzio pareafioco». Il che avviene, o perché da alcuna secchezza intrinsica è sírasciutta la via del polmone, dal quale la prolazione si muove, che leparole non ne possono uscire sonore e chiare, come fanno quando inquella via è alquanta d'umiditá rivocata; o è talvolta che il lungosilenzio, per alcun difetto intrinsico dell'uomo, provoca tantaumiditá viscosa in questa via, che similemente rende l'uomo menoespeditamente parlante, infino a tanto che o rasciutta o sputata nonè. [Ma non credo l'autore questo intenda qui, ma piú tosto, perdifetto delli nostri ingegni, i libri di Virgilio essere intralasciatigiá e tanto tempo, che la chiara fama di loro è quasi perduta odivenuta piú oscura che esser non solea.]

[«Quando vidi costui», cioè Virgilio apparitogli dinanzi, «pel grandiserto», cioè per quella tenebrosa valle, meritamente chiamatadall'autore «diserto», sendo sí aspra, come di sopra ha detto, e privadi luce; «-Miserere di me—gridai a lui». Sí come molte voltegl'impauriti e sbigottiti usano, per essere del loro avvenuto casosoccorsi, gridare; tale l'autore, nella paura presa della orribilebestia, fece alla veduta di Virgilio, umilmente verso di luigridando:—Abbi misericordia di me,—quasi dicendo:—Aiutami,—comepiú innanzi si dichiarerá.]

«—Qual che tu sii, od ombra od uomo certo».—Non conosceva quivil'autore, per lo impedimento della paura, se costui, che apparito gliera, era piú tosto spirito che uomo o uomo che spirito; e in questoparlare in forse il chiama «ombra», il qual è vocabolo usitatissimode' poeti; e questo muove da ciò, che altrimenti prendere non sipossono, che l'uomo possa pigliare l'ombra che alcun corpo faccia. E,percioché questa materia, cioè che cosa sia l'ombra ovvero anima, ecome l'ombra prenda quel corpo, il quale agli occhi nostri appare cheella abbia, quando talvolta n'appaiono, si tratterá, sí come in luogociò richiedente, nel venticinquesimo canto del Purgatorio, non curoqui di farne piú luogo sermone.

«Risposemi:—Non uom». In questa seconda particella si dimostra chicostui fosse che apparito gli era; e questo si dimostra per sei cosespettanti al domandato. Dice adunque «non uomo», a dimostrare chel'uomo è composto d'anima e di corpo, e però, separato l'unodall'altro, non rimane uomo, né il corpo per se medesimo, né l'animaper sé; e in quanto dice «uomo giá fui», mostra sé essere spirito giástato congiunto con corpo.

«E li parenti miei». È colui che si manifesta qui, Virgilio; e primasi manifesta dalla regione nella quale nacque, in quanto dice, «furonlombardi». Dove è da sapere che Virgilio fu figliuolo di Virgiliolutifigolo, cioè d'uomo il quale faceva quell'arte, cioè di comporrediversi vasi di terra; e la madre di lui, secondo che dice ServioSopra l'«Eneida», quasi nel principio, ebbe nome Maia. Dice adunqueche costoro furono lombardi, cosí dinominati da Lombardia, provinciasituata tra 'l monte Appennino e gli Alpi e 'l mare Adriano; e avantiche Lombardia si chiamasse, fu chiamata Gallia, da' galli che quellaoccuparono e cacciaronne i toscani; e prima che Gallia si chiamasse,quella parte dove è Mantova, fu chiamata Venezia, da quegli èneti cheseguirono Antenore troiano dopo il disfacimento di Troia. La cagioneperché Lombardia si chiama, è che, partitisi certi popoli dell'isoladi Scandinavia, la quale è tra ponente e tramontana in Oceano,chiamati dalle barbe grandi e da' capegli, li quali s'intorcevanodavanti al viso, «longobardi», e sotto diversi signori, e dopolunghissimo tempo in varie regioni venendo, dimorati, si fermarono inUngheria, e in quella stettero nel torno di quarantasei anni; poi, a'tempi di Giustiniano imperadore, essendo patricio in Italia per lui unsuo eunuco, chiamato Narsete, e non essendo bene nella grazia diSofia, moglie di Giustiniano, ed essendo da lei minacciato cherichiamare il farebbe e metterebbelo a filare colle femmine sue,sdegnato rispose che, s'ella sapesse filare, al bisogno le sarebbevenuto, percioché egli ordirebbe tal tela, ch'ella non la fornirebbedi tessere in vita sua; e carichi molti somieri di diversi frutti, conuna solenne ambasciata gli mandò in Ungheria ad Albuino, il qualeallora era re de' longobardi, mandandolo pregando che egli co' suoipopoli venissero ad abitare quel paese, ove quegli frutti nascevano.Albuino, che giá in Gallia era stato, ed era amico di Narsete,lasciata Ungheria a certi popoli vicini, li quali si chiamavano ávari,in Gallia con tutti i suoi maschi e femmine, piccoli e grandi, nevenne, e con la loro forza, e col consiglio e aiuto di Narsete, tuttoil paese occuparono; e, toltogli il nome antico, da sé lo dinominaronoLombardia, il qual nome infino a' nostri dí persevera.

«Mantovani, per patria, amendui». Mantova fu giá notabil cittá; ma,percioché d'essa si tratterá nel ventesimo canto di questo pienamente,qui non curo di piú scriverne.

«Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi». Qui dimostra Virgilio chiegli fosse dal tempo della sua nativitá. E' pare che l'autore voglialui esser nato vicino al fine della dettatura di Giulio Cesare, laqual cosa non veggo come esser potesse; percioché se al fine delladettatura di Giulio nato fosse, ed essendo cinquantadue anni vissutocome fece, sarebbe Cristo nato avanti la sua morte: dove Eusebio, inlibro De temporibus, scrive lui essere morto l'anno dello 'mperiod'Ottaviano Cesare…[1], che fu avanti la nativitá di Cristo daquattordici o quindici anni; e il predetto Eusebio scrive, nel dettolibro, della sua nativitá cosí: «Virgilius Maro in vico Andes, haudlonge a Mantua natus, Crasso et Pompeio consulibus»; il quale anno fuavanti che Giulio Cesare occupasse la dettatura (la qual tenne quattroanni e parte del quinto) bene venti anni.

«E vissi a Roma». Certa cosa è che Vergilio, avendo lo ingegnodisposto e acuto agli studi, primieramente studiò a Cremona, e diquindi n'andò a Milano, lá dov'egli studiò in medicina; e, avendo lo'ngegno pronto alla poesia, e vedendo i poeti esser nel cospettod'Ottaviano accetti, se n'andò a Napoli, e quivi si crede sottoCornuto poeta udisse alquanto tempo. E quivi similmente dimorando, sícome egli medesimo testimonia nel fine del libro, avendo primacomposto la Buccolica, e racquistato per opera d'Ottaviano i campipaterni, li quali a Mantova erano stati conceduti ad un centurionechiamato Arrio, compose la Georgica. Poi, sí come Macrobio in libroSaturnaliorum scrive, mostra mentre che scrisse l'Eneida si stessein villa: il dove non dice, ma, per quello che delle sue ossa feceOttaviano, si presume che questa villa fosse propinqua a Napoli, eprossimana al promontorio di Posillipo, tra Napoli e Pozzuolo. [Eportò tanto amore a quella cittá che, essendo solennissimo astrolago,vi fece certe cose notabili con l'aiuto della strologia; percioché,essendo Napoli fieramente infestato da continua moltitudine di mosche,di zenzare e di tafani, egli vi fece una mosca di rame, sotto sí fattacostellazione che, postala sopra il muro della cittá, verso quellaparte onde le mosche e' tafani da un padule indi vicino, vi venivano,mai, mentre star fu lasciata, in Napoli non entrò né mosca né tafano.Fecevi similmente un cavallo di bronzo, il quale avea a far sano ogni

[Footnote 1: In bianco nei codd. [Ed.].] cavallo che avesse i dolori,o altra naturale infermitá, avendo tre volte menatolo d'intorno aquesto. Fece, oltre a questo, due teste di marmo intagliate, dellequali l'una piagnea e l'altra ridea, e posele ad una porta, la qualesi chiamava porta Nolana, l'una dall'un lato della porta, e l'altradall'altro; ed avevan questa proprietá, che chi veniva per alcuna suavicenda a Napoli, e disavvedutamente entrava per quella porta, se eglipassava dalla parte della porta dove era posta quella che piagnea, mainon potea recare a fine quello per che egli venuto v'era, e se pure ilrecava, penava molto, e con gran noia e fatica il faceva; se passavadall'altra parte, dove era quella che rideva, di presente spacciava labisogna sua.] E però credo che egli vivesse poco a Roma, ma che eglitalvolta vi usasse, questo è credibile.

«Sotto il buono Augusto», cioè Ottaviano Cesare, il quale, essendo pernazione della gente Ottavia, anticamente cittadina di Velletri,d'Ottavio padre e di Giulia, sirocchia di Giulio Cesare, nacque; ilquale poi Giulio Cesare s'adottò in figliuolo e per testamento glilasciò questo nome di Cesare. Poi, avendo egli perseguitati e disfattitutti coloro li quali avevano congiurato contro a Giulio Cesare, efinite nella morte d'Antonio e di Cleopatra le guerre cittadine, emolte nazioni aggiunte allo 'mperio di Roma; ed essendo a Roma venutiambasciadori indiani e di Scizia, genti ancora appena da' romaniconosciute, a domandare l'amicizia e la compagnia sua e de' romani; e,oltre a ciò, avendo i parti renduti i regni romani tolti a Crasso e adAntonio; parendo a' romani questo essere maravigliosa cosa, ilvollero, secondo che alcuni dicono, adorare per iddio: la qual cosaegli rifiutò del tutto. E nondimeno, avendogli tutto il governo dellarepublica commesso, e tenendo ragionamento di doverlo cognominareRomolo, per consiglio di Numacio Planco senatore fu cognominatoAugusto, cioè accrescitore. Ma, percioché in molte parti di questolibro si fa di lui menzione, per questa credo assai sia detto.Chiamalo il «buon Augusto» l'autore, percioché, quantunque crudelgiovane fosse, nella etá matura diventò umano e benigno prencipe ebuono per la republica.

«Nel tempo degl'iddii falsi e bugiardi». Sono falsi, non veri iddii,«quia dii gentium daemonia»: «bugiardi» gli chiama, percioché ildemonio, sí come e' medesimo in altra parte dice, è padre di menzogna.

[Lez. III]

«Poeta fui». Apresi ancora qui Virgilio per questo nome di «poeta»piú all'autore; [intorno al qual nome, chiamato da molti e conosciutoda pochi, estimo sia alquanto da estendersi. È dunque da vedere dondeavesse la poesia e questo nome origine, qual sia l'uficio del poeta, eche onore sia retribuito al buon poeta. Estimaron molti, forse piú dainvidia che da altro sentimento ammaestrati, questo nome «poeta»venire da un verbo detto «poio pois», il quale, secondo che ligrammatici vogliono, vuol tanto dire, quanto «fingo fingis»: il qual«fingo» ha piú significazioni; percioché egli sta per «comporre»,per «ornare», per «mentire» e per altri significati. Quegli adunqueche dall'avvilire altrui credon sé esaltare, dissono e dicono che daldetto verbo «poio» viene questo nome «poeta»; e percioché quellosuona «poio» che «fingo», lasciati stare gli altri significati di«fingo», e preso quel solo nel quale egli significa «mentire»,conchiudendo, vogliono che «poeta» e «mentitore» sieno una medesimacosa; e per questo sprezzano e avviliscono e annullano in quantopossono i poeti, ingegnandosi, oltre a questo, di scacciargli e disterminargli del mondo, nel cospetto del non intendente vulgogridando: i poeti per autoritá di Platone dover esser cacciati dellecittá. E, oltre a ciò, prendendo d'una pistola di Geronimo a Damasopapa De filio prodigo questa parola: «Carmina poëtarum suntcibus daemoniorum»; quasi armati dell'arme d'Achille, con ardita frontecontra i poeti tumultuosamente insultano; aggiugnendo a' loro argomentile parole della Filosofia a Boezio, dove dice:—«Quis—inquit—hasscenicas meretriculas ad hunc aegrum permisit accedere, quae doloreseius non modo nullis remediis foverent, verum dulcibus insuper alerentvenenis?»—E, se piú alcuna cosa truovano, similmente, come contro anemici della repubblica, contro ad essi l'oppongono.]

[Ma, percioché a questi cotali a tempo sará risposto, vengo alla primaparte, cioè donde avesse origine il nome del «poeta». Ad evidenzadella qual cosa è da sapere, secondo che il mio padre e maestro messerFrancesco Petrarca scrive a Gherardo suo fratello, monaco di Certosa,gli antichi greci, poiché per l'ordinato movimento del cielo emutamento appo noi de' tempi dell'anno, e per altri assai evidentiargomenti, ebbero compreso uno dover essere colui il quale conperpetua ragione dá ordine a queste cose, e quello essere Iddio, e traloro gli ebbero edificati templi, e ordinati sacerdoti e sacrifici;estimando di necessitá essere il dovere nelle oblazioni di questisacrifici dire alcune parole, nelle quali le laudi degne a Dio, eancora i lor prieghi a Dio si contenessero; e conoscendo non esserdegna cosa a tanta deitá dir parole simili a quelle che noi, l'unoamico con l'altro, familiarmente diciamo o il signore al servo suo:costituirono che i sacerdoti, li quali eletti e sommi uomini erano,queste parole trovassero. Le quali questi sacerdoti trovarono; e, perfarle ancora piú strane dall'usitato parlare degli uomini,artificiosamente le composero in versi. E perché in quelle sicontenevano gli alti misteri della divinitá, accioché per troppanotizia non venissero in poco pregio appo il popolo, nascosero queglisotto fabuloso velame. Il qual modo di parlare appo gli antichi grecifu appellato «poetes»; il qual vocabolo suona in latino, «esquisitoparlare»; e da «poetes» venne il nome del «poeta», il qual nullaaltra cosa suona che «esquisito parlatore». E quegli, che primatrovarono appo i greci questo, furono Museo, Lino e Orfeo. E, perchéne' lor versi parlavano delle cose divine, furono appellati nonsolamente «poeti», ma «teologi»; e per le opere di costoro diceAristotile che i primi che teologizzarono furono i poeti. E, se benesi riguarderá alli loro stili, essi non sono dal modo del parlaredifferenti da' profeti, ne' quali leggiamo, sotto velamento di parolenella prima apparenza fabulose, l'opere ammirabili della divinapotenza. È vero che coloro, spirati dallo Spirito santo, quel disseroche si legge, il quale credo tutto esser vero, sí come da veracedettatore stato dettato; quello, che i poeti finsero, fecero per forzad'ingegno, e in assai cose non il vero, ma quello che essi secondo iloro errori estimavan vero, sotto il velame delle favole ascosero. Mai poeti cristiani, de' quali sono stati assai, non ascosero sotto illoro fabuloso parlare alcuna cosa non vera, e massimamente dovefingessero cose spettanti alla divinitá e alla fede cristiana: la qualcosa assai bene si può cognoscere per la Buccolica del mioeccellente maestro messer Francesco Petrarca, la quale chi prenderá eaprirá, non con invidia, ma con caritevole discrezione, troverá sottoalle dure cortecce salutevoli e dolcissimi ammaestramenti; esimilmente nella presente opera, sí come io spero che nel processoapparirá. E cosí si cognoscerá i poeti non essere mentitori, comegl'invidiosi e ignoranti li fanno.]

[Appresso l'uficio del poeta è, sí come per le cose sopradette assaichiaro si può comprendere, questo nascondere la veritá sotto favolosoe ornato parlare: il che avere sempre fatto i valorosi poeti sitroverá da chi con diligenza ne cercherá. Ma ciò che io ora ho detto,è da intendere sanamente. Io dico «la veritá», secondo l'oppenione diquegli tali poeti; percioché il poeta gentile, al quale niuna notiziafu della cattolica fede, non poté la veritá di quella nascondere nellesue fizioni, nascosevi quelle che la sua erronea religione estimavaesser vere; percioché, se altro che quello, che vero avesse istimato,avesse nascoso, non sarebbe stato buon poeta.]

[E, percioché i poeti furono estimati non solamente teologi, maeziandio esaltatori dell'opere de' valorosi uomini, per li quali listati de' regni, delle province e delle cittá si servano; e, oltre aciò, quegli ne' lor versi di fare eterni si sforzarono; e similementefurono grandissimi commendatori delle virtú e vituperatori de' vizi:estimarono lor dovere estollere con quel singulare onore che iprincipi triunfanti per alcuna vittoria erano onorati; cioè che dopola vittoria d'alcuna loro laudevole impresa, in comporre alcunsingular libro, essi fossero coronati di alloro, a dimostrare che,come l'alloro serva sempre la sua verdezza, cosí sempre era daconservare la lor fama. Le fatiche de' quali, se molto laudevoli nonfossero, non è credibile che il senato di Roma, al qual soloapparteneva il concedere, a cui degno ne reputava, la laurea, avessequella ad un poeta conceduta, ch'egli concedette ad Affricano, aPompeo, a Ottaviano e agli altri vittoriosi prencipi e solenni uomini:la qual cosa per avventura non considerano coloro che menoavvedutamente gli biasimano. E se per avventura volesson dire:—Noigli biasimiamo perché furon gentili, le scritture de' quali sono daschifare sí come erronee;—direi che da tollerar fosse, se Platone,Aristotile, Ipocrate, Galieno, Euclide, Tolomeo e altri simili assai,cosí gentili come i poeti furono, fossero similemente schifati; il chenon avvenendo, non si può forse altro dire se non che singularmalivolenzia il faccia fare.]

[Ma da rispondere è alle obbiezioni di questi valenti uomini fattecontro a' poeti.]

[Dicono adunque, aiutati dall'autoritá di Platone, che i poeti sono daesser cacciati delle cittá, quasi corrompitori de' buoni costumi. Laqual cosa negare non si può che Plato nel libro della sua Republicanon lo scriva; ma le sue parole non bene intese da questi cotali fannoloro queste cose senza sentimento dire. Fu ne' tempi di Platone, eavanti, e poi perseverò lungamente, ed eziandio in Roma, una spezie dipoeti comici, li quali, per acquistare ricchezze e il favore delpopolo, componevan lor commedie, nelle quali fingevano certi adultèrie altre disoneste cose, state perpetrate dagli uomini, li quali lastoltizia di quella etá aveva mescolati nel numero degl'iddii; equeste cotal commedie poi recitavano nella scena, cioè in una piccolacasetta, la quale era constituita nel mezzo del teatro, standodintorno alla detta scena tutto il popolo, e gli uomini e le femmine,della cittá ad udire. E non gli traeva tanto il diletto e il disideriodi udire, quanto di vedere i giuochi che dalla recitazione del commedoprocedevano; i quali erano in questa forma: che una spezie di buffoni,chiamati «mimi», l'uficio de' quali è sapere contraffare gli attidegli uomini, uscivano di quella scena, informati dal commedo inquegli abiti ch'erano convenienti a quelle persone, gli atti dellequali dovevano contraffare, e questi cotali atti, onesti o disonestiche fossero, secondo che il commedo diceva, facevano. E, perciochéspesso vi si facevano intorno agli adultèri, che i commedi recitavano,di disoneste cose, si movevano gli appetiti degli uomini e dellefemmine, riguardanti, a simili cose disiderare e adoperare; di che ibuon costumi e le menti sane si corrompevano, e ad ogni disonestádiscorrevano. Perciò, accioché questo cessasse, Platone, considerando,se la republica non fosse onesta, non poter consistere, scrisse, emeritamente, questi cotali dovere essere cacciati delle cittá. Nonadunque disse d'ogni poeta. Chi fia di sí folle sentimento, che credache Platone volesse che Omero fosse cacciato della cittá, il quale èdalle leggi chiamato «padre d'ogni virtú»? chi Solone, che nelloestremo de' suoi dí, ogni altro studio lasciato, ferventissimamentestudiava in poesia? Le leggi del qual Solone, non solamente loscapestrato vivere degli ateniesi regolarono, ma ancora composero icostumi de' romani, giá cominciati a divenire grandi. Chi crederách'egli avesse cacciato Virgilio, chi Orazio o Giovenale, acerrimiriprenditori de' vizi? chi crederá ch'egli avesse cacciato ilvenerabile mio maestro messer Francesco Petrarca, la cui vita e i cuicostumi sono manifestissimo esemplo d'onestá? chi il nostro autore, lacui dottrina si può dire evangelica? E se egli questi cosí fatti poeticacciasse, cui riceverá egli poi per cittadino? Sardanapalo, TolomeoEvergete, Lucio Catellina, Neron cesare? Ma in veritá questaobbiezione potevano essi o potrebbono agevolmente tacere. Non è eglisí gran calca fatta da' poeti onesti d'abitare nelle cittá: Omeroabitò il piú per li luoghi solitari d'Arcadia; Virgilio, come detto è,in villa; messer Francesco Petrarca a Valchiusa, luogo separato d'ogniusanza d'uomini; e, se investigando si verrá, questo medesimo sitroverá di molti altri.]

[Dicono oltre a questo, le parole scritte da san Girolamo: «Daemonumcibus sunt carmina poëtarum». Le quali parole senza alcun dubbio sonvere. Ma chi avesse in questa medesima pístola letto, avrebbe potutovedere di quali versi san Girolamo avesse inteso; e massimamente nellafigura, la qual pone, d'una femmina non giudea, ma prigione de'giudei, la qual dice che, avendo raso il capo, e posti giú ivestimenti suoi, e toltesi l'unghie e i peli, potersi ad uno ismaelitaper via di matrimonio congiugnere: forse con minor fervore, avendo lafigura intesa, avrebbero quelle parole contro a' poeti allegate. E,accioché questo piú apertamente s'intenda, non vuole altro la figuraposta da san Girolamo, se non, per quegli atti che la scrittura di Diodice dover fare, se non, una purgazione del paganesimo o d'altra settafatta, potere qualunque femmina nel matrimonio venir de' giudei: ecosí, purgate certe inconvenienze del numero de' poeti, restare iversi de' poeti non come cibo di dimonio, ma come angelico potersi da'fedeli cristiani usare. E questa purgazione per la grazia di Dio sipuò dir fatta, poi che Costantino imperadore, battezzato da sanSilvestro, diede luogo al lume della veritá; percioché per la santitáe sollecitudine dei papi e degli altri ecclesiastici pastori,scacciando i sopradetti comici e ogni disonesto libro ardendo, parquesta poesia antica purgata, e potersi, ne' libri autorevoli elaudevoli rimasi, congiugnere con ogni cristiano.]

[Non dico perciò (che è quello, a che san Girolamo nella predettapistola attende molto) che il prete o il monaco, o qual altroreligioso voglian dire, al divino oficio obbligato, debba il breviarioposporre a Virgilio; ma, avendo con divozione e con lagrime il divinooficio detto, non è peccare in Spirito santo il vedere gli onestiversi di qualunque poeta. E, se questi cotali non fossero piúreligiosi o piú dilicati, che stati sieno i santi dottori, essiritroverebbero questo cibo, il quale dicono de' demòni, non solamentenon essere stato gittato via o messo nel fuoco, come alcuni peravventura vorrebbono, ma essere stato con diligenzia servato, trattatoe gustato da Fulgenzio, dottore e pontefice cattolico, sí come apparein quello libro, il quale esso appella delle Mitologiae, da lui conelegantissimo stilo scritto, esponendo le favole de' poeti. Esimilmente troverebbono sant'Agostino, nobilissimo dottore, non avereavuto in odio la poesia, né i versi de' poeti, ma con solertevigilanza quegli avere studiati e intesi: il che se negare alcunvolesse, non puote; conciosiacosaché spessissime volte questo santouomo ne' suoi volumi induca Virgilio e gli altri poeti; né quasi mainomina Virgilio senza alcun titolo di laude.]

[Similmente e Geronimo, dottore esimio e santissimo uomo,maravigliosamente ammaestrato in tre linguaggi, il quale gli ignorantisi sforzano di tirare in testimonio di ciò che essi non intendono, contanta diligenzia i versi de' poeti studiò e servò nella memoria, chequasi paia nulla nelle sue opere non avere senza la testimonianza lorofermata. E, se essi non credono questo, veggano, tra gli altri suoilibri, il prologo del libro il quale egli chiama Hebraicarumquaestionum, e considerino se quello è tutto terenziano. Veggano seesso spessissime volte, quasi suoi assertori, induce Virgilio eOrazio; e non solamente questi, ma Persio e gli altri minori poeti.Leggano, oltre a questo, quella facundissima epistola da lui scritta asant'Agostino, e cerchino se in essa l'ammaestrato uomo pone i poetinel numero de' chiarissimi uomini, li quali essi si sforzano diconfondere.]

[Appresso, se essi nol sanno, leggano negli Atti degli apostoli etroveranno se Paolo, vaso d'elezione, studiò i versi poetici, e quegliconobbe e seppe. Essi troveranno lui non avere avuto in fastidio,disputando nello areopago contro la ostinazione degli ateniesi,d'usare la testimonianza de' poeti; e in altra parte avere usato iltestimonio di Menandro comico poeta, quando disse: «Corrumpunt moresbonos colloquia mala». E similmente, se io bene mi ricordo, egliallega un verso di Epimenide poeta, il quale attissimamente sipotrebbe dire contro a questi sprezzatori de' poeti, quando dice:«Cretenses semper mendaces, malae bestiae, ventres pigri». E cosícolui, il quale fu rapito insino al terzo cielo, non estimò quello,che questi piú santi di lui vogliono, cioè esser peccato oabbominevole cosa aver letti e apparati i versi de' poeti. Oltre atutto questo, cerchino quello che scrisse Dionisio areopagita,discepolo di Paolo e glorioso martire di Gesú Cristo, nel libro ilquale compose Della celeste gerarchia. Esso dice e proseguita epruova la divina teologia usare le poetiche fizioni, dicendo intral'altre cose cosí: «Etenim valde artificialiter theologia poëticissacris formationibus, in non figuratis intellectibus usa est, nostram,ut dictum est, animam relevans, et ipsi propria et coniecturalireductione providens, et ad ipsum reformans anagogicas sanctasScripturas»; ed altre cose ancora assai, le quali a questa sommaseguitano. E ultimamente, accioché io lasci star gli altri, li qualiio potrei inducere incontro a questi nemici del poetico nome, non essomedesimo Gesú Cristo, nostro salvadore e signore, nella evangelicadottrina parlò molte cose in parabole, le quali son conformi in parteallo stilo comico? Non esso medesimo incontro a Paolo, abbattuto dallasua potenza in terra, usò il verso di Terenzio, cioè: «Durum est tibicontra stimulum calcitrare»? Ma sia di lungi da me che io credaCristo queste parole, quantunque molto davanti fosse, da Terenzioprendesse. Assai mi basta a confermare la mia intenzione, il nostroSignore aver voluto alcuna volta usare la parola e la sentenziaprolata giá per la bocca di Terenzio, accioché egli appaia che deltutto i versi de' poeti non sono cibo del diavolo. Che adunque dirannoquesti li quali cosí presuntuosamente s'ingegnano di scalpitare ilnome poetico? Certo, al giudicio mio, e' non gli possono giustamentedannare, se non che co' versi poetici non si guadagnan danari, checredo sia quello che in tanta abbominazione gli ha loro messi nelpetto, perché a' loro desidèri non sono conformi.]

[Resta a spezzare l'ultima parte delle loro armi, le quali in granparte deono esser rotte, se a quel si riguarda che alla sentenza diPlatone fu risposto di sopra. Essi vogliono che la filosofia abbiacacciate le muse poetiche da Boezio, sí come femmine meretrici edisoneste, e i conforti delle quali conducono chi l'ascolta, non asanitá di mente, ma a morte. Ma quel testo, male inteso, fa errare chireca quel testo in argomento contro a' poeti. Egli è senza alcundubbio vero la filosofia esser venerabile maestra di tutte le scienzee di ciascuna onesta cosa; e in quello luogo, dove Boezio giacevadella mente infermo, turbato e commosso dello esilio a gran tortoricevuto, egli, sí come impaziente, avendo per quello cacciata da séogni conoscenza del vero, non attendeva colla considerazione a trovarei rimedi opportuni a dover cacciar via le noie che danno gl'infortunidella presente vita; anzi cercava di comporre cose, le quali nonliberasson lui, ma il mostrassero afflitto molto, e per conseguentemettessero compassion di lui in altrui. E questa gli pareva sí soaveoperazione che (senza guardare che egli in ciò faceva ingiuria allafilosofica veritá, la cui opera è di sanare, non di lusingare ilpassionato), che esso, con la dolcezza delle lusinghe del potersidolere, insino alla sua estrema confusione avrebbe in tale impresaproceduto; e, peroché questo è esercizio de' comici di sopra detti (afine di guadagnare), di lusingare e di compiacere alle inferme menti,chiama la Filosofia queste muse «meretriculae scenicae», non perchéella creda le muse esser meretrici, ma per vituperare con questovocabolo l'ingegno dell'artefice che nelle disoneste cose le induce.Assai è manifesto non esser difetto del martello fabbrile, se ilfabbro fa piú tosto con esso un coltello, col quale s'uccidono gliuomini, che un bómere, col quale si fende la terra, e rendesi abile aricevere il seme del frutto, del quale noi poscia ci nutrichiamo. Eche le Muse sieno qui istrumento adoperante secondo il giudiciodell'artefice, e non secondo il loro, ottimamente il dimostra laFilosofia, dicendo in quel medesimo luogo che è disopra mostrato,quando dice:—Partitevi di qui, Serene dolci infino alla morte, elasciate questo infermo curare alle mie muse, cioè alla onestá e allaintegritá del mio stilo, nel quale mediante le mie muse io glimostrerò la veritá, la quale egli al presente non conosce, sí comeuomo passionato e afflitto.—Nelle quali parole si può comprendere nonessere altre muse, quelle della filosofia, che quelle de' comicidisonesti e degli elegiaci passionati, ma essere d'altra qualitál'artefice, il quale questo istrumento dee adoperare. Non adunque neldisonesto appetito di queste muse, le quali chiama la Filosofia«meretricule», sono vituperate le muse, ma coloro che in disonestoesercizio l'adoperano.]

[Restavano sopra la presente materia a dir cose assai, ma percioché inaltra parte piú distesamente di questo abbiamo scritto, basti questoaverne detto al presente, e alla nostra impresa ne ritorniamo. Fuadunque Virgilio, poeta, e non fu popolar poeta, ma solennissimo, e lesue opere e la sua fama chiaro il dimostrano agl'intendenti.]

[Lez. IV]

«E cantai». Usa Virgilio questo vocabolo in luogo di «composi [versi»;e la ragione in parte si dimostrò, dove di sopra si disse perché«cantiche» si chiamano l'opere de' poeti; alla quale si puoteaggiugnere una usanza antica de' greci, dalla qual credo non menoesser mossa la ragione perché «cantare» si dicono i versi poetici, cheda quella che giá è detta. E l'usanza era questa: ch'e' nobili giovanigreci si reputavano quasi vergogna il non saper cantare e sonare, equesti loro canti e suoni usavano molto ne' lor conviti. E non eranoli lor canti di cose vane, come il piú delle canzoni odierne sono,anzi erano versi poetici, ne' quali d'altissime materie o di laudevolioperazioni da valenti uomini adoperate, sí come noi possiam vederenella fine del primo dell'Eneida di Virgilio, dove, dopo la notabilecena di Didone fatta ad Enea, Iopa, sonando la cetera, canta glierrori del sole e della luna, e la prima generazione degli uomini edegli altri animali, e donde fosse l'origine delle piove e del fuoco,e altre simili cose: dal quale atto poté nascere il dirsi che ipoetici versi si cantino. E per conseguente Virgilio, dell'opere da sécomposte dice «cantai». Il qual non solamente compuose l'Eneida, mamolti altri libri, si come, secondoché Servio scrive, l'Ostirina,l'Ethna, il Culice, la Priapea, il Cathalecthon, le Dire,gli Epigrammati, la Copa, il Moreto e altri; ma sopra tutti ful'Eneida, la quale in laude d'Ottaviano compuose. Poi, partendosi daNapoli, e andandone ad Atene ad udir filosofia, non avendo corretto ildetto Eneida, quello lasciò a due suoi amici valenti poeti, cioè aTucca e a Varrone, con questo patto che, se avvenisse che egli avantila tornata sua morisse, che essi il dovessero ardere; per che, essendoa Brandizio morto, senza potere esser pervenuto ad Atene, e Tucca eVarrone sappiendo questo libro in laude di Ottaviano essere statocomposto, e che esso il sapeva, temettero d'arderlo senza coscienzad'Ottaviano; e perciò, raccontata a lui la intenzion di Virgilio,ebbero in comandamento di non doverlo ardere per alcuna cagione, ma ilcorreggessero, con questo patto, che essi alcuna cosa nonv'aggiugnessero, e, se vi trovasser cosa da doverne sottrarre,potessero. Il che essi con fede fecero. Poi Ottaviano, fatte recare lesue ossa da Brandizio a Napoli, vicino al luogo dove gli era dilettatodi vivere, il fece seppellire, cioè infra 'l secondo miglio da Napoli,lungo la via che si chiamava Puteolana, accioché esso quivi giacessemorto, dove gli era dilettato di vivere.]

«Di quel giusto Figliuol d'Anchise», cioè d'Enea, del quale Virgilionel primo dell'Eneida fa ad Ilioneo dire alla reina Dido questeparole:

Rex erat Aeneas nobis, quo iustior alter nec pietate fuit, nec bello maior et armis,

nelle quali testimonia Enea essere stato giustissimo. Anchise fu dellaschiatta de' re di Troia, figliuolo di Capis, figliuolo di Assaraco,figliuolo di Troio, e fu padre d'Enea, come qui si dice, «che venne daTroia». Troia è una provincia nella minore Asia, vicina d'Ellesponto,alla quale è di ver' ponente il mare Egeo, dal mezzodí Meonia, dalevante Frigia maggiore, da tramontana Bitinia, cosí dinominata daTroio, re di quella. «Poi che il superbo Ilión fu combusto». Ilione fuuna cittá di Troia, cosí nominata da Ilio, re di Troia, e fu la cittáreale, e quella, secondo che Pomponio Mela scrive nel primo della suaCosmografia, che fu da' greci assediata, e ultimamente presa e arsae disfatta. Chiamalo «superbo» dall'altezza dello stato del re Priamoe de' suoi predecessori.

E poi che manifestato s'è, egli fa una breve domanda all'autore,dicendo:—«Ma tu perché ritorni a tanta noia?» quanta è a essere nellaselva, della quale partito ti se';—e quinci segue e fanneun'altra:—«Perché non sali al dilettoso monte, Ch'è principio ecagion di tutta gioia?».—

Espedite queste parole di Virgilio, segue la terza parte di questaseconda, nella qual dissi che con ammirazion l'autore rispondeva, e,col commendar Virgilio, s'ingegnava d'accattare la sua benivolenza. E,rispondendo alla dimanda di lui, gli mostra quello per che al montenon sale, e il suo aiuto addimanda, e dice:—«Or se' tu quel Virgilioe quella fonte, Che spande di parlar sí largo fiume?».—Commendalo quil'autore dell'amplitudine della sua facundia, quella facendosimigliante ad un fiume. «Rispos'io lui con vergognosa fronte».Vergognossi l'autore d'essere da tanto uomo veduto in sí miserabileluogo, e dice «con vergognosa fronte», percioché in quella parte delviso prima appariscano i segni del nostro vergognarci; comeché qui sipuò prendere il tutto per la parte, cioè tutto il viso per lafronte.—«O degli altri poeti» latini «onore», percioché per Virgilioè tutto il nome poetico onorato, «e lume». Sono state l'opere diVirgilio a' poeti, che appresso di lui sono stati, un esempio, ilquale ha dirizzate le loro invenzioni a laudevole fine, come la lucedirizza i passi nostri in quella parte dove d'andare intendiamo.«Vagliami il lungo studio e il grande amore». Poi che l'autore haposte le laude di Virgilio, accioché per quelle il muova al suobisogno, ora il priega per li meriti di se medesimo, per li qualiestima Virgilio sí come obbligatogli il debba aiutare, e dice:«Vagliami», a questo bisogno, «il lungo studio». Vuol mostrare d'averel'opera di Virgilio studiata, non discorrendo, ma con diligenza. «E 'lgrande amore». E per questo intende mostrare un atto caritativo, chefatto gli ha studiare il libro di Virgilio, e non, come molti fanno,averlo studiato per trovarvi che potere mordere e biasimare. «Che m'hafatto cercare il tuo volume», l'Eneida.

«Tu se' lo mio maestro». Qui con reverirlo vuol muover Virgiliochiamandolo «maestro», «e 'l mio autore». In altra parte si legge«signore», e credo che stia altresí bene; percioché qui, umiliandosi,vuol pretendere il signore dovere ne' bisogni il suo servidoreaiutare. «Tu se' solo colui da cui io tolsi», cioè presi, «il bellostilo», del trattato, e massimamente dello 'Nferno, «che m'ha fattoonore», cioè fará. E pon qui il preterito per lo futuro, facendosolecismo.

«Vedi la bestia», e mostragli la lupa, della quale di sopra è detto,«per cui io mi volsi», dal salire al dilettoso monte. E qui glirisponde all'interrogazion fatta; appresso il priega dicendo: «Aiutamida lei, famoso saggio»; nelle quali parole vuol mostrare coluiveramente esser saggio, il quale non solamente è saggio nel suosegreto, ma eziandio nel giudicio degli altri per lo quale essodiventa famoso. «Ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi». Triemano levene e' polsi quando dal sangue abbandonate sono, il che avvienequando il cuore ha paura; percioché allora tutto il sangue si ritrae alui ad aiutarlo e riscaldarlo, e il rimanente di tutto l'altro corporimane vacuo di sangue, e freddo e palido.

—«A te convien tenere altro viaggio». In questa quarta particella fal'autore due cose: prima dichiara ciò che Virgilio dice della naturadi quella lupa, e il suo futuro disfacimento; appresso gli dimostraVirgilio quel cammino che gli par da tenere, accioché egli possa diquello luogo pericoloso uscire. La seconda quivi: «Ond'io per lo tuome'». Dice dunque:—«A te convien tenere altro viaggio», che quello ilquale di tenere ti sforzi,—«rispose» Virgilio, «poi che lagrimar mivide,—Se vuoi campar», senza morte uscire, «d'esto loco selvaggio»,come di sopra è dimostrato. E, seguendo, Virgilio gli dice la cagioneperché a lui convien tenere altro cammino, dicendo: «Ché quellabestia», cioè quella lupa, «per la qual tu gride», domandandomisericordia, «Non lascia altrui passar per la sua via», non dellalupa, ma di colui che andar vuole; «Ma tanto lo 'mpedisce», ora in unamaniera e ora in un'altra, «che l'uccide. Ed ha», questa lupa, «naturasí malvagia e ria, Che mai non empie la bramosa voglia» del divorare,«Ma dopo il pasto ha piú fame che pria». Vuole Virgilio per questeparole rimuovere un pensier vano, il quale potrebbe caderenell'autore, dicendo:—Quantunque questa bestia sia bramosa e abbia lafame grande, egli potrá avvenire che ella prenderá alcuno animale epascerassi, e, pasciuta, mi lascerá andare dove io disidero;—il qualavviso si rimuove per quelle parole: «E dopo il pasto ha piú fame chepria».

«Molti son gli animali a cui s'ammoglia», cioè co' quali si congiugne.Questo è fuori dell'uso della natura di qualunque animale,congiugnersi con molti animali di diverse spezie; ma con alcuno assaibestie il fanno, sí come il cavallo coll'asino, la leonessa colleopardo e la lupa col cane. E questo non è da dubitare che l'autorenon sapesse; per che, avendol posto, assai bene possiam comprenderel'autore volere altro sentire che quello che semplicemente suona lalettera, e cosí in ciò che sèguita del rimettimento di questa lupa ininferno: la sposizione delle quali cose a suo tempo riserberemo. «Epiú saranno ancora», che stati non sono, «infin che 'l veltro Verrá».È il veltro una spezie di cani, maravigliosamente nimica de' lupi, de'quali veltri dice, come appare, doverne venire uno, «che la fará morircon doglia».

«Questi», cioè questo veltro, «non ciberá», cioè mangerá, «terra népeltro». Peltro è una spezie vile di metallo composta d'altri. «Masapienza, amore e virtute». Questi non sogliono essere cibi de' cani;e perciò assai chiaro appare lui intendere altro che non par che dicala lettera. «E sua nazion sará tra feltro e feltro». È il feltrovilissima spezie di panno, come ciascun sa manifestamente.

«Di quella umile». Usa qui l'autore un tropo, il quale si chiama«ironia», per vocabolo contrario mostrando quello che egli intende didimostrare; cioè per «umile», «superba», sí come noi tutto 'l díusiamo, dicendo d'un pessimo uomo:—Or questi è il buono uomo;—d'untraditore:—Questi è il leale uomo;—e simili cose. Dice adunque: «Diquella umile», cioè superba, «Italia fia salute». È Italia una granprovincia, nominata da Italo, figliuolo di Corito re e fratello diDardano (del quale piú distesamente diremo appresso nel quarto canto),terminata dall'Alpi e dal mare Tirreno e dall'Adriano, contenente insé molte province; e perciò, a voler dimostrare di qual parte diquesta Italia dice, soggiugne: «Per cui morí», cioè fu uccisa, «lavergine Camilla».

Fu questa Camilla, secondo che Virgilio scrive nell'undicesimodell'Eneida, figliuola di Metabo, re di Priverno, e di Casmilla, suamoglie. E, percioché nel partorire questa fanciulla morí la madre,piacque al padre di levare una lettera sola, cioè quella «s», che eranel nome di Casmilla, sua moglie, e nominare la figliuola Camilla. Laquale essendo ancora piccolissima, avvenne, per certe divisioni de'privernati, Metabo re a furore fu cacciato di Priverno. Il quale, nonavendo spazio di potere alcun altra cosa prendere, prese questapiccola sua figliuola e una lancia, e con essa, essendo dai privernatiseguito, si mise in fuga; e, pervegnendo a un fiume, il quale sichiamava Amaseno, e trovandol per una grandissima piova cresciutomolto, e sé veggendo convenirgli lasciar la fanciulla, se notando ilvolea trapassare, subitamente prese consiglio d'involgere questafanciulla in un suvero e legarla alla sua lancia, e quella lanciare dilá dal fiume e poi esso notando passarlo. Per che, legatola edovendola gittare oltre, umilemente la raccomandò a Diana, a leibotandola, se ella salva gliela facesse dall'altra parte del fiumeritrovare; e lanciatola e poi notando seguitola, e dall'altra partetrovata senza alcuna lesione la figliuola, andatosene con essa incerte selve vicine, allevò questa sua figliuola alle poppe d'unacavalla. Alla quale, come crescendo venne, appiccò una faretra allespalle, e posele un arco in mano, e insegnolle non filare, ma saettaree gittar le pietre con la rombola, e correr dietro agli animali [e isuoi vestimenti erano di pelli d'animali] salvatichi. Ne' qualiesercizi costei giá divenuta grande fu maravigliosa femmina; e fu incorrere di tanta velocitá, che, correndo, ella pareva si lasciassedietro i venti; e fu sí leggiera, che Virgilio, iperbolicamenteparlando, dice che ella sarebbe corsa sopra l'onde del mare senzaimmollarsi le piante de' piedi. Costei da molti nobili uominiaddomandata in matrimonio, mai alcuna cosa non ne volle udire, ma,virginitá servando, si dilettava d'abitar le selve nelle quali erastata allevata e di cacciare. Poi pare che richiamata fosse nel regnopaterno; e, ritornatavi, e sentendo la guerra di Turno con Enea, daTurno richiesta, con molti de' suoi volsci andò in aiuto di lui; doveun dí, fieramente contro a' troiani combattendo, fu fedita d'unasaetta nella poppa da uno che avea nome Arruns; della qual fedita essamorí incontanente.

«Eurialo, Turno e Niso di ferute». Eurialo e Niso furono due giovanitroiani, li quali in Italia aveano seguito Enea. Ed essendo insiemecon Ascanio, figliuolo d'Enea, rimasi a guardia del campo d'Enea, ilquale era andato a cercare aiuto contro a Turno a certi popolicircunvicini, avvenne che, premendo Turno molto Ascanio, si disposeAscanio, per téma di non poter sofferire la forza di Turno, di farsentire ad Enea come da assedio era gravemente stretto, accioché ditornare in soccorso di lui il padre s'affrettasse. Alla qual cosa fareNiso si profferse, e ingegnavasi di farlo occultamente da Eurialo;percioché conosceva il pericolo esser grande, ed Eurialo ancora ungarzone, ed egli nol voleva mettere a quel pericolo. Ma non seppe sífare che Eurialo nol sentisse; per la qual cosa convenne che Eurialoandasse con lui. E, usciti una notte del campo d'Ascanio, convenendoloro passar per lo mezzo de' nemici, e tacitamente andando etrovandogli tutti dormire, n'uccison molti. Ed Eurialo, vago come igarzon sono, di certe armadure belle, tratte a coloro li quali uccisiaveano, carico, seguitando Niso, avvenne che si scontrarono in unagrande quantitá di nemici, li quali come Niso vide, tantosto siricolse in un bosco, credendo avere appresso di sé Eurialo; ma egliera rimaso, e giá intorniato da' nimici, quando Niso lui non esserseco si avvide. Per che voltosi, e vedendol nel mezzo de' nemici, eloro correntigli addosso per ucciderlo, tornando addietro, cominciò agridare che perdonassero ad Eurialo, sí come a non colpevole, euccidesson lui, il quale aveva tutto quello male fatto. Ma poco valse:essi uccisono Eurialo e poi ucciser lui; e cosí amenduni quivi mortirimasero.

«Turno». Costui fu figliuolo di Dauno, re d'Ardea, e nepote carnaled'Amata, moglie di Latino, re de' laurenti, giovane ardentissimo e digran cuore; il quale, vedendo Latino re avere data Lavina suafigliuola per moglie ad Enea, la qual prima avea promessa a lui,sdegnato, avea mosso guerra ad Enea, e per questo molte battaglieaveano fatte; ultimamente, secondo che Virgilio scrive nel fine deldodicesimo dell'Eneida, soprastandogli Enea in una singularbattaglia stata fra loro, e veggendogli cinto il balteo, il quale erastato di Pallante, cui ucciso avea, lui addomandante perdono, uccise.

E cosí dalle morti di costoro ha l'autore discritta di qual parted'Italia intenda, cioè di quella lá dove è Roma, con alcune piccolecircustanze: la quale in tanta superbia crebbe, che le parve poco ilvoler soprastare a tutto il mondo; né per la ruina del romano imperiocessò però la romana superbia, perseverando in essa la sedeapostolica. Nella quale, al tempo che l'autore di prima pose mano allapresente opera, sedeva Bonifazio papa ottavo, il quale, quantunquealtiero signor fosse molto, parve per avventura ancor molto piúall'autore, in quanto piegare non fu potuto a' piaceri né alle domandefatte da quegli della setta della quale fu l'autore.

«Questi», cioè questo veltro, «la caccerá per ogni villa», cioèestermineralla del mondo, «Finché l'avrá rimessa nell'inferno, Lá ondeinvidia prima dipartilla». In queste parole chiaramente si puòintendere, l'autore dire una cosa e sentire un'altra; conciosiacosachémanifesto sia in inferno non generarsi lupi, e perciò di quello nonpoterne essere stato tratto alcuno, per doverlo in questa vita menare.

«Ond'io per lo tuo me'». In questa particella seconda della quarta,dice l'autore il consiglio preso da Virgilio per sua salute, e,secondo l'usanza poetica, mostra in poche parole ciò che dee trattarein tutto questo suo volume; e dice cosí: «Ond'io», considerata lanatura di questa lupa che t'impedisce, «per lo tuo me', penso ediscerno», giudico, «Che tu mi segua, ed io sarò tua guida, Etrarrotti di qui», cioè di questo luogo pericoloso, «per luogoeterno», cioè per lo 'nferno e per lo purgatorio, i quali son luoghieterni; «Dove», cioè in quel luogo, «udirai le dispietate strida», inquanto paiono d'uomini crudeli e senza alcuna umanitá; «E vederai glispiriti dolenti, Che la seconda morte ciascun grida»; cioè la mortedell'anima, percioché quella del corpo, la quale è la prima, essil'hanno avuta. Addomandano adunque la seconda, credendo per quella lepene, che sentono, non dover poscia sentire. [Ma i nostri teologitengono che, quantunque essi la spiritual morte domandino, non perciò,potendola avere, la vorrebbono, percioché per alcuna cagione nonvorrebbon perdere l'essere. Deesi adunque intendere li dannati chiamarla seconda morte, sí come noi mortali spesse volte chiamiamo la prima;la quale se venir la vedessimo, senza alcun dubbio a nostro potere lafuggiremmo. O puossi sporre cosí: tiensi per li teologi esser piúspezie di morte, delle quali è la prima quella della quale tutticorporalmente moiamo; la seconda dicono che è morte di miseria, laqual veramente io credo essere infissa ne' dannati, in tantatribulazione e angoscia sono: e questo è quello che ciascun dannatogrida, non dimandandola, ma dolendosi.]

«E vederai color che son contenti Nel fuoco», della penitenza; e dice«contenti», percioché quella penitenza, che non si facesse concontentamento d'animo di colui che la facesse, non varrebbe alcunacosa a salute; «perché speran di venire, Quando che sia», finito iltempo della penitenzia, «alle beate genti. Alle quali» beate genti,«se tu vorrai salire», però che sono in cielo, «Anima fia a ciò di mepiú degna: [Con lei ti lascerò nel mio partire». E questa fia quelladi Stazio poeta, con la quale egli poscia il lasciò in su la sommitádel monte di purgatorio, sopra la riva del fiume di Lete, come neltrentesimo canto del Purgatorio si legge.] «Ché quello imperador»,cioè Iddio, «che lassú», cioè in cielo, «regna, Perch'io fuiribellante», non seguendola, «alla sua legge», a' suoi comandamenti,«Non vuol che in sua cittá», in paradiso, «per me si vegna. In tutteparti impera», comandando, «e quivi», nel cielo empireo, «regge: Quiviè la sua cittá», nel cielo, «e l'alto seggio», reale. «O felice colui,cui quivi elegge!», per abitatore di quello, come i beati sono.—

«Io cominciai:—Poeta». In questa quinta particella l'autore, udito ilconsiglio di Virgilio, e approvandolo, lo scongiura che quivi il meni,dicendo: «io ti richieggio, Per quello Iddio», cioè Gesú Cristo, «chetu non conoscesti, Accioch'io fugga questo male», cioè il pericolo nelquale al presente sono, «e peggio», cioè la morte, «Che tu mi meni láove or dicesti», cioè in inferno e in purgatorio, «Sí ch'i' vegga laporta di san Pietro», cioè la porta del purgatorio, dove sta ilvicario di san Piero: «Con quelli i quai tu fai», cioè di' essere,«cotanto mesti», cioè dolorosi, dannati alle pene eterne.—

«Allor si mosse», entrando nel cammino dimostrato; ed è atto d'uomodisposto a quello di che è richiesto, che senza eccezione il mette adesecuzione. Ed è questa l'ultima particella delle sei, che dissi esserpartita la seconda parte principale del primo canto. «Ed io gli tennidietro», cioè il seguitai.

II

SENSO ALLEGORICO

[Lez. V]

«Nel mezzo del cammin di nostra vita», ecc. Poi che, per la grazia diDio, è quello, che secondo il senso litterale si può, dimostrato, è datornarsi al principio di questo canto, e quello che sotto la rozzacorteccia delle parole è nascoso, cioè il senso allegorico, aprire edichiarare. Intorno alla qual cosa credo udirete cose per le quali visi potrebbe forse meritamente dire le parole che l'autore medesimodice nel secondo canto del Paradiso, cioè: «Que' gloriosi chepassâro a Colco, Non s'ammiraron, come voi farete, Quando vider Giasonfatto bifolco». Percioché allora per effetto potrete vedere quantod'arte e quanto di sentimento sia stato e sia nello stilo poetico,oltre alla stima che molti fanno. E peroché gustando con lo 'ntellettoil mellifluo e celestial sapore, nascoso sotto il velo del favolosodiscrivere, forse vi dorrete il nostro poeta e gli altri avere tantasoavitá riposta, in guisa che senza difficultá aver non si puote; edirete:—Perché non diedono i poeti la loro dottrina libera e apertaed espedita, come molti altri fanno la loro, sí che, chi volesse, nepotesse prendere frutto piú tosto?—In risponsione della qual cosa sipossono due ragioni dimostrare: e la prima può esser questa.

Costume generale è, di tutte le cose meritamente da aver care, ildiscreto uomo non tenerle in piazza, ma sotto il piú forte serramec'ha nella sua casa, e con grandissima diligenza guardarle, e adalquanti suoi amici, ma a pochi e rade volte, mostrarle; e questo fa,accioché il troppo farne copia non faccia quelle divenire piú vili. Ilche per atto possiam tutto il dí vedere avvenire; e, se in ogni altracosa nascosa ci fosse questa veritá, guardiamo al sole, del qualealcuna cosa sí bella, non che piú, veggiamo, né alcuna sí chiaramuoversi, non tirato né sospinto, se non dal divino ordine impostogli;pieno di tanta luce, che ogni altro lucido corpo illumina, ogniterrena cosa vivifica, accresce e nutrica e al suo fine conduce: ilquale, per troppo mostrarsi, è non solamente poco prezzato, ma son diquegli che di vederlo ischifano. Per la qual cosa, accioché questo nonseguiti, non so qual altra cosa noi possiamo con piú certa ragion direche sia piú cara, piú da gradire e meglio da riporre e da guardare,che sono gli alti effetti della natura e i secreti misteri e i sublimidella divinitá. Questi, se negl'intelletti universalmente del vulgodivenissero, in poco tempo ne seguirebbe che sarebbon pregiati menoche non è il sole, o che i ragionamenti meccanici e le favole dellefemminelle. E per questo lo Spirito santo, d'ogni cosa dottissimo, glialti segreti della divina mente nascose, come noi possiam vedere,nelle figure del Vecchio Testamento, nelle Visioni di certiprofeti, e ancora nell'Apocalissi di Giovanni evangelista, sottoparole tanto nella prima faccia differenti dal vero e meno conforminell'apparenza a' sensi nascosi, che per poco piú esser nonpotrebbono. Le vestigie del quale, con quelle forze che possono gliumani ingegni seguir la divinitá, con ogni arte s'ingegnarono diseguitare i poeti, quelle cose che essi estimavano piú degne sottofavoloso parlare nascondendo, accioché dove carissime sono, nondivenissero vili ad ogni uomo, aperte lasciandole. Il che assai benepare ne dimostri Macrobio, nel primo libro De somnio Scipionis, cosídicendo: «De diis autem, ut dixi, caeteris et de anima, non frustrase, nec ut oblectent, ad fabulosa convertunt, sed quia sciunt inimicamesse naturae apertam nudamque expositionem sui: quae, sicut vulgaribushominum sensibus intellectum sui vario rerum tegmine operimentoquesubtraxit, ita a prudentibus arcana sua voluit per fabulosa tractari.Sic ipsa mysteria figurarum cuniculis operiuntur, ne vel hoc adeptisnudam rerum talium natura se praebeat, sed summatibus tantum viris,sapientia interprete, veri arcani consciis. Contenti sint reliqui advenerationem, figuris defendentibus a vilitate secretum», ecc.

La seconda ragione può essere questa. Suole quello, che con difficultás'acquista, piacer piú e guardarsi meglio che quello che senza alcunafatica o poca si truova; e questo le grandi ereditá rimase a' nostrigiovani cittadini hanno mostrato. Non essendo adunque alcun dubbioesser molta malagevolezza il trarre la nascosa veritá di sotto alfabuloso parlare, dee seguire essere incomparabile diletto, a coluiche, per suo studio, vede averla saputa trovare; laonde non solamenteogni affanno avutone se ne dimentica, ma ne rimane una dolcezzanell'animo, la quale quasi con legame indissolubile ferma, nellamemoria di colui che ritrovata l'ha, la veritá: dove quella che senzaalcuna difficultá s'acquista, come leggiermente venne, cosíleggiermente si parte. Di che séguita che dell'avere faticatos'acquista, dove del non avere studiato l'uomo si ritruova di scienzavòto.

[La terza ragione mi pare dovere esser questa. E' non pare che alcundubbio sia li cieli, i pianeti e le stelle esser ministri della divinapotenza, e, secondo la virtú loro attribuita, i corpi inferiorigenerare, mediante quelle cagioni che dalla natura sono ordinate, equegli nutrire e nel lor fine menargli. E, percioché essi corpisuperiori sono in continuo moto e in diversi modi si congiungono e siseparano l'uno dall'altro, par di necessitá che gli effetti da lorprodotti in diversi tempi e in materie diverse, debbano esser diversie a diverse cose disposti; e quinci par che séguiti la diversitá degliaspetti degli uomini, de' quali non pare che alcuno alcun altrosomigli; e similmente degli ofici, li quali veggiam manifestamenteessere, eziandio naturalmente, diversi negli uomini. Dalla qual cosamosso, dice il nostro autore nel Paradiso:

Un ci nasce Solone, ed altro Serse, altri Melchisedech, ed altri quello che, volando per l'aere, il figlio perse.

E questo si dee cognoscere muovere dal divino intelletto, il qualecognosce una universitá, come è quella dell'umana generazione, nonpoter consistere in sé, se non avesse diversitá d'ufici. E perciò,accioché dell'altre cose lasciamo al presente stare, alcun ci nasceatto a filosofia, alcuno ad astrologia, alcuno a poesia e alcuni altriad altre scienze. Colui, che nasce atto a poesia, séguita, quanto puòe sa, d'esercitarsi nel poetico oficio; e, quantunque da Dio sia allenostre anime, le quali esso immediate crea, data la ragione e illibero arbitrio, per lo quale, non ostante la forza de' cieli, ciascunpuò far quello che piú gli aggrada, pare che il piú seguitin gliuomini quello a che essi sono atti nati. Laonde quegli che al poeticooficio è nato, eziandio volendo, non pare che possa fare altro chequello che a tale oficio s'appartiene; e, percioché a quello oficios'appartiene quello che di sopra è detto, se egli in quellolaudevolmente s'esercita, non è per avventura da maravigliarsene]. Eperciò non si rammarichi alcuno, se dai poeti è sotto favole nascosala veritá, ma piú tosto si dolga della sua negligenza, per la quale e'perde o ha perduto quello che il farebbe lieto, faticandosi d'avereritrovata la cara gemma nella spazzatura nascosa. E questo basti averea questa parte risposto.

Fu adunque il nostro poeta, sí come gli altri poeti sono,nasconditore, come si vede, di cosí cara gioia, come è la cattolicaveritá, sotto la volgare corteccia del suo poema. [Per la qual cosa sipuò meritamente dire questo libro essere poliseno, cioè di piú sensi.De' quali è il primo senso quello il quale egli ha nelle cosesignificate per la lettera, sí come voi potete aver di sopra, nellaesposizion litterale, udito; e chiamasi questo senso «litterale», ecosí è. Il secondo senso è allegorico o vero morale, il quale,accioché voi comprendiate meglio, esemplificando vel dichiarerò inquesti versi: «In exitu Israël de Aegypto, domus Iacob de populobarbaro: facta est Iudea sanctificatio eius, Israël potestas eius».Da' quali, se noi guarderemo a quello che la lettera suona solamente,vedremo esserci significato l'uscimento de' figliuoli di Israeld'Egitto al tempo di Moisé; e se noi guarderemo alla alligoria,vedremo esserci mostrata la nostra redenzione fatta per Cristo; e senoi guarderemo al senso morale, vedremo esserci mostrata laconversione dell'anima nostra dal pianto e dalla miseria del peccatoallo stato della grazia; e se noi guarderemo al senso anagogico,vedremo esserci dimostrato l'uscimento dell'anima santa dallacorruzione della presente servitudine alla libertá della gloriaeternale. E cosí come questi sensi mistici sono generalmente per varinomi appellati, tutti nondimeno si possono appellare «allegorici»,conciosiacosaché essi sieno diversi dal senso litterale o veroistoriale: e questo è, percioché «allegoria» è detta da un vocabologreco, detto «aileon», il quale in latino suona «alieno», ovverodiverso; e perciò dissi questo libro esser poliseno, percioché tuttiquesti sensi, da chi tritamente volesse guardare, gli si potrebbono inassai parti dare]. E per questo, agutamente pensando, forse potremmodel presente libro dir quello che san Gregorio dice, nel proemio de'suoi Morali, della Santa Scrittura, cosí scrivendo: «SacraScriptura locutionis suae morem transcendit, quia in uno eodemquesermone dum narrat textum prodit mysterium, et sic mysterio sapientesexercet, sic superficie simplices refovet. Habet in publico undeparvulos nutriat, servat in secreto unde mentes sublimium inadmiratione suspendat. Quasi quidem quippe est fluvius, ut itadixerim, planus et allus, in quo et agnus ambulet, et elephansnatet», ecc.; percioché, recitando della presente opera la corteccialitterale, con quella insieme narriamo il misterio delle cose divine eumane, sotto quella artificiosamente nascose, e in questa manieraintorno al senso allegorico si possono i savi esercitare, e intornoalla dolcezza testuale nudrire i semplici, cioè quelli li quali ancoratanto non sentono, che essi possano al senso allegorico trapassare:cosí possiam vedere questo libro avere in publico donde nutrir possagl'ingegni di quegli che meno sentimento hanno, e donde egli sospendacon ammirazione le menti de' piú provetti. E ancora, quantunque allaSacra Scrittura del tutto agguagliar non si possa, se non in quanto diquella favelli, come in assai parti fa, nondimeno, largamenteparlando, dir si può di questo, quello esserne che san Gregorioafferma di quello: cioè questo libro essere un fiume piano e profondo,nel quale l'agnello puote andare e il leofante notare, cioè in esso sipossono i rozzi dilettare e i gran valenti uomini esercitare.

Ma, avendo giá l'una delle due parti in questo primo canto mostrata,cioè come quegli, che di minor sentimento sono, si possano intorno alsenso litterale non solamente dilettare, ma ancora e nudrire e le lorforze crescere in maggiori; è da dimostrare la seconda, intorno allaquale si possano gl'ingegni piú sublimi esercitare: la qual cosa sifará aprendo quello che sotto la crosta della lettera sta nascoso.Intorno alla qual cosa sono da considerare, quanto è alla prima partedel presente canto, dieci cose: delle quali la prima será il vederquello che il nostro autore voglia sentire per lo sonno, il quale diceche ricordar nol lascia come nella selva oscura s'entrasse; laseconda, come noi in questo sonno ci leghiamo; la terza, qual fosse ladiritta via la quale per questo sonno dice d'avere smarrita; laquarta, qual cosa potesse essere quella che il movesse a ravvedersiche esso avesse la diritta via smarrita; la quinta, perché piú nelmezzo del cammino di nostra vita che in altra etá; la sesta, quelloche egli intenda per quella selva tanto oscura e malagevole, quantodimostra esser quella nella quale dice si ritrovò; la settima, perchépiú nel principio del dí che ad altra ora scriva d'essersi ravveduto;la ottava, quello che vuole s'intenda per li raggi del soleapparitigli e per lo monte nella sommitá del quale gli apparvero; lanona, quello che esso senta per la considerazione avuta, poi chealquanto la paura gli cessò; la decima, quello che noi dobbiam sentireper le tre bestie le quali lo impedivano a salire al monte. E, questevedute, procederemo alla seconda parte del presente canto.

La prima cosa, la qual dissi si voleva investigare, accioché il sensoallegorico, nascoso sotto la lettera della prima parte di questocanto, si manifesti, è quello che il nostro autore voglia sentire perlo sonno, il qual dice che ricordar nol lascia come egli entrassenell'oscura selva. Ad evidenzia della quale è da sapere che 'l sonno,che alla presente materia appartiene, è di due maniere: l'una è sonnocorporale, l'altra è sonno mentale. Il sonno corporale si può in duemaniere distinguere. Delle quali l'una è naturale, e puossi dire esserquella la quale naturalmente in noi si richiede in nudrimento econservazione della nostra sanitá: il quale, occupandoci, lega e quasioziose rende tutte le nostre forze (ovvero potenze) sensitive e leintellettive, percioché, perseverante esso, né sentiamo né intendiamoalcuna cosa; di che a' morti simili divegnamo. Ma, poi che la naturaha preso per la sua indigenza quello che l'è opportuno a restaurazionedelle virtú faticate nella vigilia e in conforto della vegetativavirtú, eziandio senza essere da alcuno escitati, da questo per noimedesimi ci sciogliamo. E di questo alcuna cosa piú distesamentediremo nel principio del quarto canto del presente libro. L'altramaniera del corporal sonno è quella, dalla quale vinta ogni corporalpotenza, si separa l'anima dal corpo, e senza alcuna cosa sentire opotere o sapere, immobili giacciamo, e giaceremo infino al dínovissimo, senza poterci levare. E di questo intende il salmista,quando dice: «Cum dederit dilectis suis somnum».

Il sonno mentale, allegoricamente parlando, è quello quando l'anima,sottoposta la ragione a' carnali appetiti, vinta dalle concupiscenzetemporali, s'addormenta in esse, e oziosa e negligente diventa, e deltutto dalle nostre colpe legata diviene, quanto è in potere alcunacosa a nostra salute operare. E questo è quel sonno, dal quale nerichiama san Paolo, dicendo: «Hora est iam nos de somno surgere». Equesto sonno può essere temporale e può esser perpetuo. Temporale èquando ne' peccati e nelle colpe nostre inviluppati dormiamo; e ilsalmista dice: «Surgite postquam sederitis, qui manducatis panemdoloris»; e in altra parte san Paolo, dicendo: «Surge, qui dormis,et exurge a mortuis, et illuminabit te Christus». E talvolta avvieneper sola benignitá di Dio che noi ci risvegliamo, e, riconosciuti inostri errori e le nostre colpe, per la penitenzia levandoci, ciriconciliamo a Dio, il quale non vuole la morte dei peccatori; e, alui riconciliati, ripognamo, mediante la sua grazia, la ragione, sícome donna e maestra della nostra vita, nella suprema sediadell'anima, ogni scellerata operazione per lo suo imperio scalpitandoe discacciando da noi. Perpetuo è quel sonno mentale, il quale, mentreche ostinatamente ne' nostri peccati perseveriamo, ne sopraggiugnel'ora ultima della presente vita, e in esso addormentati, nell'altrapassiamo, lá dove, non meritata la misericordia di Dio, in sempiternocoi miseri in tal guisa passati, dimoriamo. Li quali si dicon «dormirenel sonno della miseria», in quanto hanno perduto il poter vedere,conoscere e gustare il bene dello 'ntelletto, nel qual consiste lagloria de' beati. È adunque questo sonno mentale quello del quale ilnostro autor vuole che qui allegoricamente s'intenda; nel qual,ciascuno che si diletta piú di seguir l'appetito che la ragione, èveramente legato, e ismarrisce, anzi perde la via della veritá, allaquale in eterno non può ritornare.

La seconda cosa che era da vedere dissi che era come noi in questosonno mentale ci leghiamo. E, percioché i lacciuoli sono infiniti, liquali la carne, il mondo e 'l dimonio tendono alla nostra sensualitá,pienamente dire non se ne potrebbe per lingua d'uomo; ma ad un de'modi, il quale è quasi universale, riducendoci, dico che, dalla nostrapuerizia, noi il piú dirizziamo i piedi, cioè le nostre affezioni, inquesti lacci, e, quasi non accorgendocene (percioché piú i sensi chela ragione abbiamo allora per guida), sí c'inveschiamo, che poi o nonci sciogliamo da quegli, o non senza grande difficultá, volendo, ce nesviluppiamo. A questa etá i nostri tre predetti nemici con ognisollecitudine stendono le reti loro. E la ragione è questa: l'etá,come detto è, è tenera e nuova e vaga, e la sensualitá è in essafortissima, percioché la ragione non v'è ancora assai perfetta; e,secondo che pare che la esperienza ne dimostri, dalla gola, alla qualequella etá è inchinevole, par che prenda inizio la nostra ruina. E laragione pare assai manifesta: sono generalmente i fanciulli vaghi delcibo, sospignendogli a ciò la natura che il suo aumento disidera; egustando, come spesso avviene, le saporite e dilicate vivande e i viniesquisiti, a pian passo procedendo ed ausando il gusto a quello chenon gli bisognerebbe, cominciano, quantunque piccoli e fanciullisieno, ad aver men cari quegli cibi, che, quantunque rozzi, soleanosatisfare alla fame e alla sete loro, e i piú preziosi desiderano edomandano, e dal disiderio ad ottenergli si sforzano; e con questonella etá piú piena procedendo, quasí come da naturale ordine tirati,nel vizio della lussuria discorrono. Questa, la quale non solamente igiovani, ma i vecchi fa se medesimi sovente dimenticare, loro contante e tali lusinghe diletica, che, potendo all'appetito la vigorosaetá dell'adolescenza sodisfare, con ogni pensiero e con ardentissimaaffezione quello vituperevole diletto seguendo, tutti si mettono. Equinci, per compiacere, negli ornamenti del corpo discorrono, nonaltrimenti assai sovente ornandosi, che se vender si volessono almercato de' poco savi. Le quali cose, percioché senza denari esercitarpienamente non si possono, gli sospingono nel disiderio d'aver denari,e, per quegli ogni coscienza posposta, senza alcuna difficultá ad ognidisonesto guadagno si dispongono, e quinci giucatori, ladri,barattieri, simoniaci, ruffiani e disleali divengono. E giá ad etá piúpiena d'anni venuti, veggendo gli onori, la pompa, la potenza e lagrandigia de' re, de' signori, de' gran cittadini, di queglis'accendono, e quinci invidiosi, superbi, crudeli e ambiziosidivengono. Le quali cose, e altre molte, cosí successivamente, etalora con altro ordine cresciute, e multiplicate e abituate in noi,nel sonno della oblivione dei comandamenti di Dio ci legano e tengonsí stretti, che, quasi convertite in natura, per romore che fatto cisia in capo, destare non ci lasciano. Le quali cose accioché a'lacedemoni avvenir non potessero, per legge comandò Licurgo che i lorfigliuoli, ecc. (vedi Giustino, nel terzo libro, poco dopo ilprincipio). [Né è mia intenzione il modo da addormentare i miseri nelsonno de' peccati lasciare.] Percioché molti aguati hanno gliavversari nostri, con li quali, se creduti sono, ogni matura e robustaetá adoppiano: ma perciò mi piacque far singular menzione di questa,perché, in questo modo presi, ci abituiamo ne' peccati; e por giúl'abito preso è difficilissimo; e, se pur si rimuove l'uomo talvoltadal peccare, con molta meno difficultá v'è rivocato colui che abituatovi fu, che colui che non vi fu abituato, e alcuna volta da essamemoria delle colpe giá commesse v'è ritirato.

La terza cosa, la qual dissi era da cercare, è di veder qual sia lavia la quale l'autore dice d'avere per questo sonno smarrita. Egli èil vero che le vie son molte, ma tra tutte non è che una che a portodi salute ne meni, e quella è esso Iddio, il quale di sé dicenell'Evangelio: «Ego sum via, veritas et vita»; e questa via tantevolte si smarrisce (dico «smarrisce», perché poi chi vuole la puòritrovare, mentre nella presente vita stiamo), quante le nostreiniquitá dai piaceri di Dio ne trasviano, mostrandoci nelle coselabili e caduch*e esser somma e vera beatitudine. E questa via, per laquale i nostri avversari ci ritorcono, danna il salmista, dicendo:«Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum, et in via peccatorumnon stetit», ecc.; ed in altra parte dice pregando: «Viaminiquitatis amove a me, et in lege tua miserere mei». Chiamasi ancorala vita presente «via»; e di questa dice il salmista: «Beatiimmaculati in via»; e in altra parte: «De torrente in via bibit».

Ma, come detto è, accioché di molt'altre lasciamo istare il ragionare,la prima è quella per la quale, se la gloria eterna vogliamo, ciconviene andare: e da questa si smarrisce ciascuno il quale nel sonnode' peccati si lega. E, percioché, come di sopra è mostrato,lusinghevolmente sottentrano i vizi, e cominciano in etá nella qualepienamente conosciuti non sono, dice l'autore non ricordarsí comequesta via diritta abbandonasse. E credibile è. Chi sará colui chepienamente della origine delle sue colpe si possa ricordare?Conciosiacosaché esse vengano con diletto della sensualitá, e, quelpassato, quasi state non fossero, leggiermente in dimenticanza simettono.

La quarta cosa, la qual propuosi da essere da investigare, fu qualcosa potesse esser quella che l'autor movesse a ravvedersi che essoavesse la diritta via smarrita. E questa, senza alcun dubbio, si deecredere che fosse la grazia di Dio, il quale ci ama assai piú che nonci amiamo noi medesimi, e sempre è alla nostra salute sollecito; ilche assai bene ne mostra Giovenale, dicendo:

Nam pro iocundis aptissima quaeque dabunt dii: carior est hom*o illis, quam sibi, ecc.

Ma, accioché noi cognosciamo qual fosse la grazia di Dio, dalla qualel'autore tócco si movesse a destarsi del sonno mortale, nel quale lamente sua era legata, e a ravvedersi in qual pericolo fosse l'animasua è da sapere, sí come il «maestro delle sentenze» afferma, esserquattro grazie quelle che la divina bontá ci presta alla nostrasalute: delle quali la prima è chiamata grazia «operante», della qualedice san Paolo: «Per la grazia di Dio io sono quello che io sono»; laseconda grazia si chiama grazia «cooperante», e di questa dice sanPaolo medesimo: «La grazia di Dio non fu in me vacua»; la terza graziasi chiama «perseverante», della qual dice il salmista: «Etmisericordia eius subsequatur me omnibus diebus vitae meae»; laquarta grazia si chiama «salvante», della quale si leggenell'Evangelio: «De plenitudine eius omnes accepimus gratiam pergratiam». Fa adunque la prima grazia, del malvagio uomo, buono, sícome nel Libro della sapienza si scrive: «Verte ipsum, et nonerit»; e san Paolo dice: «Fuistis aliquando tenebrae, nunc autem luxin Domino». La seconda, cioè la cooperante, fa del buono, migliore; edi ciò dice il salmo: «Ibunt de virtute in virtutem». La terza, cioèla perseverante, ne trasporta della via nella patria, della quale dicel'Evangelio: «Qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit»;nell'Apocalissi si legge: «Quicumque vicerit, dabo ei edere deligno vitae, quod est in paradiso Dei mei»; e in altra partenell'Apocalissi medesimo: «Quicumque vicerit, faciam illum columnamin templo Dei mei». La quarta, cioè la salvante, secondo i meritiguiderdona i faticanti; di che l'Evangelio dice: «Quid hic statisquotidie ociosi? ite et vos in vineam meam, et quod iustum fuerit dabovobis»; e san Paolo: «ut recipiat unusquisque secundum ea quaefecit». Di queste quattro grazie, delle quali ho alquanto parlato,percioché piú volte nel processo di questo libro se n'ará a ragionare,piú diffusamente se ne vorrebbe esser detto; nondimeno questo basti alpresente. E dico che la prima grazia senza alcun merito di colui chela riceve si dona; di che dice san Paolo: «Non secundum opera quaefecimus nos, sed secundum suam misericordiam salvos nos fecit». Lequalitá delle quali grazie considerate, assai manifestamente appare laprima delle quattro essere stata quella che al nostro autore (esimilemente a ciascun altro che in simile caso si truova), fuconceduta da Dio, per la quale esso il suo misero stato conobbe.

Ma potrebbe alcun domandare: in che maniera tocca Domeneddio ipeccatori con questa sua grazia? Le maniere son molte, percioché atanto artefice, quanto Iddio è, non mancò mai modo a quello che eglivolesse adoperare. Dice il salmista: «Dixit et facta sunt: mandavitet creata sunt». Esso primieramente alcuna volta con visioni tocca lementi di coloro che di questa grazia hanno bisogno, sí come noileggiamo di Costantino imperadore, il quale, dormendo, vide san Pietroe san Paolo, e il loro ammaestramento udí, e poi si destò dal corporalsonno e dal mentale, quello seguí, e gli errori del paganesimo tuttida sé cacciò. Tocca alcuna volta con aperta visione, come fece sanPaolo quando andava a Damasco; e fu di sí fatta forza questotoccamento, che esso divenne subitamente, di lupo, agnello e vaso dielezione pieno di Spirito santo. Tocca ancora co' suoi messaggeri, sícome fece David, il quale per l'omicidio d'Uria e per l'adulteriocommesso in Bersabé, essendosi dal suo piacer partito, mandatogliNathan profeta, il fece riconoscere; il quale, piangendo, e in quelsalmo allora da lui composto, cioè «Miserere mei, Deus», la suamisericordia addomandando, impetrò del commesso perdonanza; esimilemente Ezechia re, nunziatagli per comandamento di Dio da Isaiaprofeta la sua morte, pianse e pregò, e impetrò quindici anni di vita.Tocca ancora con tribulazioni intorno alle cose mondane; perché gliuomini, sentendosi affliggere nella perdita de' figliuoli e dellepossessioni, delle mercatanzie, degli stati e di simili cose, quasidesti dal mortal sonno si ritornano verso Iddio, e ingegnansi d'usciredella via delle tenebre e tornare alla luce. E quantunque saper nonpossiamo qual si fosse, di queste o forse d'alcuna altra, la manieracon la quale la grazia di Dio toccò l'autore addormentato dal sonnomentale, credesi nondimeno per molti che da tribulazioni fosse tócco;giá aveggendosi in questo tempo, nel quale la presente operaincominciò, di quello che poi quasi a mano a mano gli avvenne, cioè didover perdere lo stato suo, e di dovere andar in esilio, e di doverenelle proprie cose ricever danno. Per la qual cosa, da questa graziaoperante tócco, cominciò a pensare, e pensando a conoscere le cosepresenti non avere alcuna stabilitá, esser piene d'invidia e dipericoli, e nulla altra cosa in sé aver fermezza se non il servire eamare Iddio. Dal quale pensiero fu cominciata a rompere la nuvoladella ignoranza, la quale infino a quella ora l'avea occupato, ecominciò a conoscere la miseria dello stato de' peccati, e adavvedersi in quanti e quali fosse inviluppato, e in quanto pericoloesso fosse lungamente dimorato d'andare ad eterna perdizione.

La quinta cosa, che dissi era da vedere, è perché piú nel mezzo dellanostra vita che in altra etá questo avvenisse. Intorno alla qual cosaè da sapere questo vocabol «mezzo» potersi prendere in due modi. L'unmodo è quello che nella esposizione litterale dicemmo, cioè puntale;il quale mezzo è dirittamente quel punto che igualmente è distante adue estremitá. Verbigrazia: egli è una verga lunga due braccia, cioèdall'una estremitá della verga all'altra sono due braccia; per che ilmezzo puntale di questa verga sara lá dove, dall'una estremitácominciandosi e andando verso l'altra la lunghezza d'un braccio, ládove egli finirá, sia puntalmente il mezzo di questa verga. E possiamoancor dire il mezzo puntale esser quel punto il quale la sesta fa,quando alcun cerchio discriviamo; percioché questo in ogni parte delcerchio è igualmente distante dalla circunferenza. La seconda manieradel mezzo s'intende assai sovente ciò che si contiene intra dueestremi, o infra la circunferenza del cerchio; sí come Niccolaio diTamech sopra il Tito Livio dice che Arno è un fiume posto nel mezzotra Fiesole e Arezzo; e in alcun luogo dice la Scrittura, Ierusalemessere nel mezzo del mondo: per lo qual mezzo molti intendono il mezzopuntale, e ciò, come i geometri sanno, non è vero. E perciò in questaparte è da prendere la parola dell'autore, quanto alla persona sua,per lo mezzo puntale; percioché, come di sopra mostrammo, egli era dietá di trentacinque anni, ch'è il mezzo puntale della vita nostra,quando, tócco dalla grazia di Dio, si ravvide dove l'aveva laignoranza menato. Ma, percioché a ciascuno uomo, in che etá egli sisia, può avvenire, anzi avviene tutto il dí, che, abbandonata la viadella veritá, s'entra ne' vizi, e similemente, per la grazia di Dio,il ravvedersi; si può per gli altri, i quali in altra etá che l'autoresi ravveggono, intender questo mezzo quello spazio che è posto in frail dí della nostra nativitá e il dí della morte. E puossi quel mezzoil quale per l'autore s'intende, che è intorno all'etá de'trentacinque anni, moralmente prendere, secondo che in quella etá ognicorporale virtú è a sua perfezion venuta; e cosí, in qualunque tempol'uomo si ravvede del suo mal vivere e al ben vivere si converte, sipuò dire ogni potenzia animale esser venuta in perfetta virtú; e cosínella buona disposizione, aiutato dalla grazia cooperante,perseverando, va di questa virtú in altra maggiore, e di quell'altrain un'altra, tanto che egli perviene dove ciascun discreto disidera alsuo fine di venire.

La sesta cosa, la qual dissi che era da investigare, era quelloch'egli intendesse per quella selva oscura e malagevole nella qualedice si ritrovò. È adunque questa selva, per quello che io possocomprendere, lo 'nferno, il quale è casa e prigione del diavolo, nellaquale ciascun peccatore cade ed entra, sí tosto come cade in peccatomortale. E che ella sia lo 'nferno, la discrizion di quella ildimostra assai chiaro, in quanto dice che ella era «oscura», cioèpiena d'ignoranza (il che assai chiaro ne mostra Isaia quando dice:«Erravimus a via veritatis, et sol iustitiae non illuxit nobis»),considerata la qualitá di coloro che in essa dimorano: peroché, se inloro fosse alcuna luce di sapienza, non è alcun dubbio che noncercasson tantosto d'uscirne. E chi è piú ignorante che colui ilquale, potendo schifare il fare contro a' comandamenti del suoCreatore (ché può ciascun che vuole), si lascia tirare alle lusinghedella carne e del mondo e alle fallacie del dimonio? o che pure,veggendosi per la nostra fragilitá tirato, non si sforza, avendo lavia, d'uscirne, ma, aggiugnendo l'una colpa sopra l'altra, piú semedesimo inviluppa, e fa col continuo peccare piú tenebroso il suointelletto e piú forti le catene del suo avversario? Dice, oltre aciò, questa selva essere «selvaggia», sí come del tutto strana da ogniabitazione umana: percioché nella prigion del diavolo, nella quale noimedesimi peccando ci mettiamo, non è alcuna umanitá, né pietá, néclemenzia, anzi è piena di crudelitá, di bestialitá e di iniquitá. Néosta il dire: egli v'abitano gli uomini peccatori; percioché questonon è vero; ché, come l'uomo ha commesso il peccato, egli diventaquella bestia, li cui costumi son simili a quel peccato. Verbigrazia:colui che nel vizio della lussuria si lascia cadere, percioché lalussuria per la sua bruttezza è simigliata al porco, esso diventaporco, quantunque effigie umana gli rimanga; e il rapace diventa lupo,perché il lupo è rapacissimo animale: e cosí quello luogo è salvatico,sí come privato d'ogni umana stanza. È, oltre a questo, «aspra» per lespine, per li triboli e per gli stecchi, cioè per le punture de'peccati, li quali, continuamente dai morsi della coscienza infestati,dolorosamente pungono il peccatore. Ed è «forte», in quantotenacissimi sono i legami del diavolo, e massimamente negli ostinati,li quali, poi che nel profondo delle colpe caduti sono, della divinamisericordia disperandosi, disprezzano Iddio e turano gli orecchi alliammonimenti de' giusti uomini e alla evangelica dottrina. E, perqueste qualitá, a colui il qual è tócco dalla divina grazia, ella pare(e cosí è), piena di tanta amaritudine, che poco piú è la morteeternale, nella quale alcuna dolcezza non s'aspetta giammai.

Nondimeno dice l'autore alcun bene aver trovato in essa. Per lo qualbene niun'altra cosa credo che sia da intendere, altro che lamisericordia di Dio, la quale non ha luogo che ne' giusti s'adoperi; ecosí ne' peccatori è tanto necessaria, che, se essa non fosse, alcunnostro merito né lagrima mai potrebbe sodisfare alla divinitá, delpeccato commesso. Ella adunque è quella, che, nella oscuritá dellanostra ignoranza e delle nostre colpe, colle braccia aperte si trovapresta a non guardare a' difetti commessi, ma solamente alla buonaaffezione di chi a lei rivolger si vuole per doverla ricevere; questaè quella, la cui benignitá riguardata, a sé dalla disperazion ciritira. Della quale, sí come di bene trovato lá ove ella è opportuna,l'autore dice di voler trattare, sí come fa nel libro secondo dellapresente Commedia, nel quale pienamente si posson comprendere e lasua santissima liberalitá e pietosi effetti verso i peccatori,quantunque essi abbiano incontro ad essa operato.

La settima cosa dissi era da vedere perché piú nel principio del díscriva l'autore d'essersi ravveduto che ad altra ora. Puossi intorno aquesta parte dire, quanto gli uomini involti ne' peccati dimorano,tanto dimorare nelle tenebre della notte, cioè della ignoranzia; laquale, come la notte toglie il poter conoscere o vedere le cose,quantunque nel cospetto ci sieno, cosí toglie il cognoscere il verodal falso e le cose utili dalle dannose. E perciò, qualora avviene chela grazia di Dio operante tocca il peccatore ed è da lui ricevuta,cosí comincia a tornar la luce della conoscenza di Dio e di semedesimo e del suo stato; e ognora che la luce apparisce, è dinecessitá che le tenebre della notte cessino; ed in quella ora che letenebre cessano, sí come manifestamente appare, è principio del dí, emassimamente a colui il quale abbandona la notte della ignoranza,sollecitato e sospinto dalla divina grazia. E di questo dice Oseaprofeta in persona di Cristo: «In tribulatione sua mane consurgent adme». Ed il peccatore d'altra parte, come agli occhi dell'intellettogli apparisce la divina luce, giá le sue malvage operazionicominciando a cognoscere, può dire quelle parole del salmista: «Maneadstabo tibi et videbo: quoniam non Deus volens iniquitatem tu es».Dunque congruamente finge l'autore di mattina essere stato questoravvedimento, per lo quale si conobbe essere nella oscura selva deipeccati e della ignoranza.

L'ottava cosa dissi era da vedere quello che l'autor vuol intendereper lo sole che sopra il monte vide e per lo monte. Per li montiintende la Scrittura di Dio spesse fiate gli apostoli; e questo,percioché, come i monti son quegli che prima ricevono i raggi del solemateriale surgente, cosí gli apostoli furono i primi che ricevettero iraggi, cioè la dottrina del vero sole, cioè di Gesú Cristo, il quale èveramente sole di giustizia e luce, la quale illumina ciascuno cheviene in questo mondo. E che esso sia vero sole, per molte ragioni sidimostrerebbe, le quali al presente per brevitá ometto. E, secondo cheio estimo, nell'autore, sentita la grazia di Dio, venne queldesiderio, il quale si dee credere che vegna in ciascuno il qualequella grazia in sé riceve: cioè di conoscere pienamente le colpe sue,e qual via dovesse tenere per poter venire a salute; ed occorseglinella mente alcuna dottrina non potergli in questo suo disideriosatisfare, come l'apostolica; rammemorandosi delle parole delsalmista, dove, parlando di loro, dice: «Non sunt loquelae, nequesermones, quorum non audiantur voces eorum. In omnem terram exivitsonus eorum, et in fines orbis terrae verba eorum». E però, fuggendola confusione delle tenebre del peccato, si può dire dicesse, cometalvolta disse il salmista: «Levavi oculos meos in montes, undeveniet auxilium mihi»; volendo in questo dire che egli levasse gliocchi della mente alle Scritture e alla dottrina apostolica, dallaquale sperava dovere avere aiuto al suo bisogno. Ed accioché questasperanza gli si fermasse nel cuore, dice che vide la sommitá di questomonte coperta de' raggi del pianeta, cioè del sole, a dimostrare cheessa dottrina apostolica sia illuminata del lume dello Spirito santo,il quale veramente mena altrui diritto per ogni calle; cioè, da cheche colpa l'uom si parte, egli è da lui menato in porto di salute. Eche la dottrina degli apostoli sia santa e veramente piena de' donidello Spirito santo, appare per le parole d'Isaia, dove dice:«Requiescet super eum spiritus timoris Domini, spiritus sapientiae etintellectus, spiritus consilii et fortitudinis, spiritus scientiae etpietatis, et replebit cum spiritus timoris Domini». Per che l'autore,e qualunque altro, veggendosi cosí fatto rifugio apparecchiatodavanti, dove prender lo voglia, puote meritamente sperare, e,sperando, minuire la paura della morte eterna, nella quale il fannodimorare le catene del diavolo, mentre in esse dimora legato. E, oltrea ciò, veggendo sopra questo monte il sole scacciatore delle tenebreeterne, e il quale è toglitore de' peccati, sí come noi di luileggiamo: «Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi»; puoteancora maggiormente sperar salute, sospinto dalle parole d'Isaia, ilquale dice: «Vobis, qui timetis Deum, orietur sol iustitiae». Eperciò meritamente l'autore, conosciuto, lá dove era, esser valle dimiseria, sí si sforza di partir di quella e di voler salire al monte,cioè alla dottrina della veritá, e a Colui il quale puote liberareciascuno, che con affetto vuole, delle mani dello 'nferno.

[Lez. VI]

La nona cosa, la qual dissi considerar si volea, era quello chel'autor sentisse per la considerazione avuta, poi che alquanto lapaura gli cessò; e appare per le sue parole essere stata del pericolo,nel quale si vedeva essere stato la passata notte: per la qualedobbiamo intendere il primiero atto dell'animo di colui che la passatamiseria della sua vita comincia a cognoscere. Il quale veramente non èaltro che paura, e spezialmente avendo egli spazio e alcuna luce disentimento, per la qual possa discernere quante e quali possano esserestate quelle cose che in quelle miserie l'avrebbono, ciascuna per semedesima, potuto far morire di perpetua morte: e massimamentecognoscendo la ingratitudine sua verso Iddio, dal quale infinitibenefici ha ricevuti, cognoscendo la sua giustizia, la quale, passatoil tempo della misericordia, è irrevocabile, né si può, come quellade' mortali giudici, con prieghi né con lagrime piegare, né corrompercon doni o con eccezioni prolungare. Dalla quale considerazione silevan presti coloro, li quali invano non ricevono la divina grazia, eper la diserta piaggia a salire al monte muovono i passi loro. E dice«diserta», percioché ancora è sterile e senza alcun virtuoso fruttol'anima di colui che pure ora ora comincia a partirsi della via delpeccato.

La decima cosa, la quale da essere cercata dissi, è quello che noidobbiamo sentire per le tre bestie, le quali l'autor mostra cheimpedivano il suo cammino. [Ed intorno a questo è da considerarequeste bestie altrimenti doversi intendere avendo riguardo solamenteall'autore, e altrimenti avendo riguardo generalmente a ciascunpeccatore, che vuole alla via della veritá ritornare, percioché nonogni uomo igualmente è da una medesima passione impedito: e perciòavviso l'autor ponesse quello che a lui sentiva s'appartenesse e diche piú si conosceva passionato. E però primieramente quello diròch'io sentirò per queste tre bestie appartenere all'autore; poi, seniuna cosa v'avrò da mutare per riducerle al senso spettanteall'universitá dei peccatori, come saprò, il farò e dimostrerò].

Dice adunque che, essendo nella predetta meditazione, diliberato dilasciare la valle oscura e di salire al monte luminoso e chiaro, cioèalla dottrina apostolica ed evangelica, essere state tre bestie quelleche il suo salire impedivano: una leonza, o lonza che si dica, e unleone e una lupa. Le quali, quantunque a molti e diversi vizi adattaresi potessono, nondimeno qui, secondo la sentenzia di tutti, par che sidebbano intendere per questi: cioè per la lonza il vizio dellalussuria, e per lo leone il vizio della superbia, e per la lupa ilvizio dell'avarizia. E, percioché io non intendo di partirmi dalparere generale di tutti gli altri, verrò a dimostrare come questianimali a' detti vizi si possono appropriare; e poi, se all'autoreparrá di dovergli attribuire, rimangasi nello arbitrio di ciascuno.

Sono adunque nella lonza, tra l'altre molte, quattro singolariproprietá: ella primieramente è leggierissima del corpo, tanto, o piú,quanto alcun altro quadrupede sia; appresso, la sua pelle è leccata,piana e di molte macchie dipinta; oltre a questo, ella èmaravigliosamente vaga del sangue del becco; ultimamente, ella è disua natura crudelissimo animale.

Le quali quattro proprietá, secondo il mio giudicio, sono mirabilmenteconformi al vizio della carne: percioché la sua leggerezza è adimostrare la levitá degli animi di quelle persone o che conl'appetito o che attualmente con esso vizio s'inviscano; imperochéessi alcuna volta ardon tutti, da fervente disiderio della cosa amataaccesi, e alcun'altra son piú freddi che la neve, cessando punto lasperanza della cosa amata; e quasi in un momento ridono e cantano, elamentansi e piangono, e cosí insuperbiscono subito, e subitamentediventano umili; ora turbati garrono e gridano, e di presente mitigatilusingano. Le quali levitá ottimamente discrive Plauto in una suacommedia chiamata Cistellaria, dove un giovane, piú che uopo non gliera, invescato in questa pania, dice cosí:

Credo ego amorem primum apud homines carnificinam commentum, hanc egode me coniecturam domi facio, ne foras quaeram, qui omnes hominessupero, atque antideo cruciabilitatibus animi. Iactor, crucior,agitor, stimulor, vexor vi amoris totus, miser. Exanimor, feror,differor, distrahor, diripior: ita nullam mentem animi habeo: ubi sum,ibi non sum: ubi non sum, ibi est animus: ita mihi omnia ingenia sunt.Quod lubet, non lubet iam id continuo. Ita me amor lassum animiludificat, fugat, agit, appetit, raptat, retinet, iactat, largitur:quod dat, non dat: deludit: modo quod suasit, dissuadet: quoddissuasit, itidem ostentat. Maritimis moribus mecum expelitur: itameum frangit amantem animum neque, nisi quia miser ne eo pessum, mihiulla abest perdito pernities, ecc.

Oltre a ciò, questo disonesto appetito è velocissimo in permutarsi, esalta tosto d'una cosa in un'altra: un muover d'occhi, un attovezzoso, un riso, una guatatura soave, una paroletta accesa, unalusinga, d'uno amore in un altro, come vento foglia, gli trasporta; eora avendo a schifo questa che piacque, e ora desiderando quella cheancora non era piaciuta, dimostrano il lieve movimento della lormente. La infelice Didone, secondo Virgilio, per un forestieroaffabile, mai piú non veduto, subitamente dimenticò il lungamente emolto amato Sicheo; assai bene verificando quello che l'autore, nelPurgatorio, delle femmine dice:

Per lei, assai di lieve si comprende quanto in femmina fuoco d'amor dura, se l'occhio o 'l tatto spesso nol raccende.

Giasone dell'amor d'Isifile in brieve tempo saltò in quel di Medea, e,lei abbandonata, poi si rivolse a Creusa. Le quali inconvenienze edisordinati appetiti, assai bene convenirsi la leggerezza di questabestia co' miseri libidinosi dimostrano.

Appresso, la pelle sua leccata e di macchie dipinta, non meno che lapredetta, si confá co' costumi de' lascivi; percioché quegli, gli qualida tal passione son faticati, quanto possono, o per pigliare o pertenere, si studiano di piacere; per la qual cosa s'adornano divestimenti vari, pettinansi, lavansi e dipingonsi, specchiansi,tondonsi, vanno e tornano, cantano, suonano, spendono, gittano, e, dovedi parer piú begli e piú accettevoli si sforzano, vituperevolmente didisoneste ed enormi brutture si macchiano. Con queste armi e' prese e fupreso Paris da Elena; con queste armi mise Dalila nelle mani de' suoinemici Sansone; con queste armi prese e irretí Cleopatra Cesare.

E, oltre a questo, questa bestia è maravigliosamente vaga del sanguedel becco. Intorno alla qual cosa si dee intendere in questodimostrarsi l'appetito corrotto di coloro li quali in questa brutturasi mescolano: percioché, sí come il becco è lussuriosissimo animale,cosí, per l'usare questo vizio, piú lussurioso si diviene. Per la qualcosa alcuni miseramente, credendosi in cotal guisa sviluppare, nonaccorgendosene, s'inviluppano; percioché non questo, come gli altrivizi, per continuo combattimento si vince, ma per fuggire: il cheottimamente dimostrarono i poeti nella scrizione della battagliad'Ercule e d'Anteo. E, oltre a ciò, il becco è fiatoso animale eolido, del quale questa bestia si diletta: in che si dimostra lavaghezza dei libidinosi intorno al fiatoso e abbominevole attovenereo, il quale è intanto al naso e agli occhi noioso e allo'ntelletto umano, che se non fosse che la natura ha in quello postomaraviglioso diletto, accioché l'umana specie per non generare nonvenga meno, io sono d'opinione che ciascuno come fastidiosissima cosail fuggirebbe. E la dilettazione, la quale questa bestia ha del sanguedel becco, assai chiaro dimostra l'appetito che ciascuna delle partidi quegli, che a questa turpitudine si congiungono, hanno del fine diquello disonesto atto; nel quale il sangue de' miseri dannosamentetante volte, quante per altro che per generare si versa, non menobiasimevolmente, che se in una fetida sentina si gittasse, si perde.Senza che, per questo i nervi indeboliscono, il veder ne raccorcia, imembri ne diventan tremuli, e la nodosa podagra, con gravissima noiadi chi l'ha, tiene tutto il corpo quasi immobile e contratto; e cosínon solamente se n'offende Iddio, ma ancora se ne guastano i miseri lapersona. Per questo convenne a Gaio Antonio, poste giú l'armi,militare con l'animo dietro a Catellina; e, come che piú non me neridica or la memoria, non è da dubitare che i passati secoli non nesieno stati cosí copiosí come veggiamo l'odierno.

Ultimamente dissi questo animale essere crudele, per la qual crudeltáè da intendere la crudeltá di questo peccato, il quale quegli, che piúcon lui si dimesticano e congiungono, le piú delle volte conduce acrudelissime spezie di morte. Quanti robusti giovani, quante vaghedonne, mentre senz'alcun freno questo disonesto diletto hanno seguito,hanno giá la lor morte, dopo faticosa infermitá, avacciata? Quantiancora, non potendo sofferire né por modo al loro fervente disideriodi pervenire a quello, hanno se medesimi disonestamente disfatti? Ilnon potere aspettare Demofonte, suo amico, condusse Fillide adimpiccarsi. La miseria di questo vizio diede ad Artabano medo vittoriasopra Sardanapalo. E qual porco crederem noi che uccidesse Adone altroche il soperchio coito con Venere, reina di Cipri, sua moglie?

Bene adunque si può questa bestia dire essere la concupiscenzacarnale, la quale, lusinghevole insino alla morte, con tutte quellemortali dolcezze ch'ella porge, facendosi incontro alla sensualitáumana, qualora l'animo, riconosciuta la tristizia di quella, da essapartir si vuole e alle divine cose tornarsi, con non piccola forzas'ingegna di ritenerlo, non partendoglisi dinanzi dal volto; quasivoglia dire: rammemorando tutte quelle persone che giá sono stateamate, tutti quegli atti, tutte le parole che giá sono state piaciute;le lagrime, la promessa fede, i rotti sacramenti con pietoso aspettoricordandogli; con false dimostrazioni suadendogli che questa castitá,questo proponimento riserbi agli anni vecchi, e non voglia ora perderequello che mai non dee potere recuperare. Con li quali conforti, ealtri molti a questi simiglianti, nel quarto dell'Eneida mostraVirgilio essersi Didone ingegnata di ritenere Enea e dalla gloriosaimpresa rivolgerlo, come giá assai dal buon principio hanno rivolti aldoloroso fine d'eterna perdizione.

Questa adunque si parò davanti al nostro autore, per doverlo farenelle abbandonate tenebre ritornare; il quale dall'ora del tempo edalla dolce stagione prese speranza di vincere questo vizio oppostosialla sua salute. Per la quale ora del principio del dí credo sia daprendere l'ora o 'l tempo nel quale Cristo prese carne umana; il qualeprender di carne, fu senza alcun dubbio il principio della nostrasalute il principio della riconciliazione del nostro signore Iddio conla nostra umanitá, il principio del tempo accettevole, il quale pertante migliaia d'anni fu aspettato. E questo, percioché in quelproprio dí fu, cioè di venticinque di marzo, nel quale, sí comeapparirá appresso, il nostro autore dice sé essere risentito dal sonnomortale. E cosí vuole adunque l'autore darne a vedere che, di ciòricordandosi, prendesse buona speranza della misericordia di Colui,senza la quale non si puote avere d'alcun vizio vittoria. La stagionedel tempo similmente gli die' buona speranza, conoscendo che in quellastagione era cominciato il tempo della grazia, e aperta la via allanostra salute, lungamente stata serrata, ed il nemico della umanagenerazione abbattuto: per che sperar si dovea di poter similmenteabbattere i suoi ministri.

La seconda bestia, la qual si fece incontro al nostro autore, fu unleone, il quale dissi essere inteso per la superbia, alla quale, comeegli si confaccia, ne mostreranno alcune delle sue proprietá, a quelledel vizio poi equiparate. È il lione non solamente audace matemerario; e appresso è rapace e soprastante; ed è ancora altisono nelruggir suo, intanto che egli spaventa le bestie circunvicine chel'odono: e, come che assai piú ce n'abbia, queste tre bastino amostrare per lui ottimamente potersi intendere il vizio dellasuperbia.

Dissi adunque il lione essere non solamente audace ma temerario;percioché, senza misurare le forze sue, non è alcuno animale sí forte(che ne sono assai piú forti di lui), il quale egli non presumad'assalire; di che egli talvolta con gran suo danno è ributtatoindietro. Ed Aristotile nel terzo dell'Etica, lá dove parla dellafortezza, dice che l'esser temerario è vizio, in quanto il temerariopresume, oltre alle sue forze, quello che a lui non s'appartiene. Equesto vizio è il presumere alcuno di combattere con due o con tre ocon piú; conciosiacosaché ciascuno debba credere uno poter quanto unaltro, e con quell'uno mettersi a combattere è ardire e segno difortezza; dove l'andar contro a piú, potendogli schifare, è temeritá.In questo l'uomo superbo è simigliante al leone, percioché ildisiderio del superbo è tanto di parer quello che egli non è, che cosanon è alcuna sí grave, che egli non presuma di fare, quantunque a luinon si convenga, sol che egli creda per quello essere reputatomagnanimo. E questa cechitá ha giá messo in distruzione molti regni,molte province e molte genti; questa fu cagione al primo agnolod'esser cacciato di paradiso con tutti i suoi seguaci; questa fucagione a Capaneo d'esser fulminato e gittato dalle mura di Tebe interra; questa fu cagione a Golia d'essere ucciso da David, come laScrittura ne dice.

Dissi ancora che il lione era rapace e soprastante: la qual cosa èquanto piú può propria del superbo, al quale, quantunque ricco sia,non soffera l'animo d'esser contento al suo, ma continuamente prieme eoppressa i minori, ruba l'avere, occupa le possessioni, batte eferisce i resistenti, e in ciascun suo atto è violento e pieno d'ogninequizia, e in ogni cosa vuol soprastare agli altri, estimando perquesto lo stato suo divenir maggiore, esser piú temuto e di piúeccellente animo reputato. La qual cosa condusse Giugurta, re diNumidia, ad essere del sasso Tarpeio gittato nel Tevero; e Iezzabel adessere della torre sospinta, e da' cavalli e da' carri e dagli uominiscalpitata, e divenir loto e sterco della vigna di Nabaoth: e Antiocore d'Asia e di Siria essere oltre al monte Tauro da' romani rilegato.

Similemente dissi che il leone era altisono nel ruggir suo e ch'eglispaventa le bestie circunstanti; il che Amos profeta dice: «Leorugiet, quis non timebit?». Al qual romore il vizio della superbia èevidentissimamente simigliante, in quanto l'uomo superbo sempre usaparole altiere, spaventevoli e oltraggiose in ogni suo fatto; sempreparla di sé e de' suoi gran fatti, e dilettasi e vuole che altri neparli; quello estimando d'essere che i paurosi ragionano perpiacergli. Per la qual bestialitá, Nabucdonosor, di se medesimo perdivina operazione ingannato, lasciato il solio reale, n'andò a pascerl'erbe ne' boschi; Simon mago cadde d'aria e fiaccossi la coscia;Roboam, re de' giudei, de' dodici tribi d'Israel ne perdé nove.

Le quali cose sanamente considerate, assai aperto dimostrano noi doverpotere per lo leone, al nostro autore apparito, intendere il viziodella superbia, la quale all'uomo, che da lei e dall'altre nequizie sivuol partire e tornare nel cammino delle virtú, si para dinanzi agliocchi della mente, non lusingandolo, ma spaventandolo, col mostrargliche, dove egli la sua maggioranza, il suo altiero stato abbandoni,egli diverrá un menomo plebeio; né sará mai ad alcuna gran cosachiamato, e intra' suoi di niuna reputazione avuto, sará dispettato, eda coloro, li quali esso ha giá premuti, offeso e scalpitato, rubato espogliato; e, se egli ancora del suo stato scende, non vi potrá,quando vorrá, risalire. [Para ancora la gloria della preminenza, lapotenza del levare in alto e d'abbassare secondo il suo volere, lapompa degli onori, e simili cose assai.] Le quali cose senza alcundubbio hanno molto a muovere le tenere menti e a renderle timide dicadere, e per conseguente a farle ritirare indietro dalla laudevoleimpresa. Ma a queste due, dice l'autore essere ancora ad impedire ilsuo cammino sopravvenuta una lupa, e quella, piú che l'altre due,averlo spaventato e ripintolo indietro.

La terza bestia, che davanti all'autore si parò, fu una lupa, fieroanimale e orribile, il quale, come davanti dissi, è inteso perl'avarizia, con la quale come costei si convenga, come nell'altre dueabbiam fatto, alcune delle sue proprietá prese, e con quelle del vizioconformatole, il mostreranno. Manifesta cosa è la lupa essere animalefamelico e bramoso sempre; appresso, quando quel tempo viene, nelquale ella è atta a dovere concépere, avendo molti lupi dietrocontinuamente, a quello il quale piú misero di tutti le pare, glialtri schifati, si concede; e, oltre a ciò, il lupo è animalesospettissimo, continuo si guarda d'intorno, e quasi in parte alcunanon si rende sicuro, credo dalla coscienza sua medesima accusato.

Dico adunque la lupa essere famelico e bramoso animale, e quelmedesimo essere l'uomo avaro; percioché, quantunque l'uomo avaro abbiaquello che gli bisogna, onestamente e in qualunque guisa ragunato,forse con molta sollecitudine e gran suo pericolo, non sta a quelcontento; ma, da maggior cupiditá acceso e da nuova sete stimolato, inciascun suo esercizio piú che mai si mostra affamato; e, per sodisfarea questa insaziabile fame, niun pericolo è, niuna disonestá, niunafalsitá o altra nequizia, nella qual'e' non si mettesse. Per la qualcosa Virgilio, nel terzo dell'Eneida, fieramente la sgrida, dicendo:

… Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames?

Secondariamente il vizio dell'avarizia si mette in uomini cattivi epusillanimi; il che appare, in quanto in alcun valente uomo omagnanimo non si vede giammai; e che essi sieno cosí, le lorooperazioni il dimostrano. Metterassi l'avaro in una piccola casetta, ein quella, in continua dieta per non spendere, dimorando senzamuoversi, dieci e venti anni presterá ad usura, vestirá male e calzerápeggio, rifiuterá gli onori per non onorare, e, dove egli dovrebbe de'suoi acquisti esser signore, esso diventa de' suoi tesori vilissimoservo; e, quanto maggiore strettezza fa del suo, tanto tien gli occhipiú diritti all'altrui. Sempre è pieno di rammarichii, sempre dice séesser povero, e mostrasi; e, brievemente, facendosi dei beni dellafortuna tristissima parte, quanto l'animo suo sia piccolo e miseromanifestamente dimostra. Nelle quali cose si può comprenderel'avarizia accompagnarsi con la piú misera condizione d'uomini che sitrovi, come la lupa col piú tristo de' lupi si congiugne.

Appresso questo, dissi il lupo essere sospettoso animale: la qual cosaesser l'avaro, i suoi costumi il dimostrano. Esso con alcun suo amiconon comunica la quantitá de' suoi beni, sospicando non la granquantitá palesata gli generi agguati o invidia. E, oltre a ciò, niunafede presta all'altrui parole; sempre suspica che viziatamente gli siaparlato per sottrargli alcuna cosa; in niuna parte estima essere assaisicuro, e di ciascuno, che guarda la porta della sua casa, teme nonper doverlo rubare la riguardi. Alcun sonno non puote avere intero, nériposata alcuna notte; ogni piccol movimento di qualunque menomoanimale suspica non andamento sia di ladroni; e, non fidandosi dellecasse ferrate, i suoi danari fida alle cave e fosse sotterranee. Chipotrebbe assai pienamente narrare i sospetti de' miseri avari, liquali tutti in sé convertono i lacciuoli, li quali giá hanno tesi adaltrui?

E perciò, dovendo bastare quello che detto n'è, credo assaiconvenientemente l'avarizia o l'avaro convenirsi alla lupa, la qualepiena di spavento si para davanti a colui, il quale i disonestiguadagni e l'altre men che buone opere vuole lasciare, per dovere inmiglior via ritornare. E nel cuore gli mette cotali pensieri:—Che faitu, misero? ove vuo' tu andare? da qual parte comincerai tu a renderei furti, le ruberie e le baratterie e i denari in mille modi maleacquistati? vuo' tu lasciare quello che tu hai, per quello che tu nonsai se tu l'avrai? vuo' tu avere tanta fatica, tanto tempo perduto,quanto tu hai messo in ragunare? vuo' tu venire alla mercé degliuomini? come faranno i figliuoli tuoi? vuogli tu vedere morir di fame?come fará la tua bella donna, e tu, misero, come farai? Tu diventeraifavola del vulgo, tu sarai schernito, e non sará chi ti voglia vederené udire. Tu puoi ancora indugiare; ogni volta, eziandio morendo, puo'tu lasciare il tuo a coloro da' quali tu l'hai avuto. Egli sará ilmeglio che tu attenda a guadagnare.—

E con questa e con simili dimostrazioni, che il misero fa persudducimento e opera del dimonio, il quale alla nostra salute sempres'oppone quanto può, spesse volte siamo frastornati; e, avuta poco aprezzo la grazia di Dio, nella nostra miseria ricaggiamo, e perconseguente in eterna perdizione ruiniamo. Né a guardarcene maic'induce l'etá piena d'anni; percioché, quantunque gli altri viziinvecchino con gli uomini, solo l'avarizia inringiovenisce. E di ciòfurono verissimi testimoni Tantalo, Mida e Crasso, li quali, morendo,prima lei abbandonarono che essa da loro, vivendo, fosse abbandonata.

[Poterono adunque questi vizi essere all'autore in singularitá cagionedi resistenza e di paura. Ma che direm noi, in generalitá, che questitre animali significhino in altri assai, che, dal vizio partendosi,vogliono alla virtú ritornare? Nulla altra cosa m'occorre, alla qualequeste tre bestie si possano meglio adattare, che sia quello il che èa tutti comune, che alli tre nostri principali nemici, cioè la carne,il mondo, il diavolo; e per la carne intender la lonza, per lo mondoil leone, e 'l diavolo per la lupa. Questi tre continuamente vegghianoe stanno intenti alla nostra dannazione. La carne ne lusinga con ladolcezza de' diletti temporali, sotto a' quali è nascoso il velenoinfernale, il qual noi, come il pesce con l'ésca piglia l'amo, cosíquasi sempre co' diletti prendiamo, e, di ciò velenati, miseramentemoiamo. Per la qual cosa il nostro Salvador n'ammaestra e sollecita distare attenti a non lasciarci ingannare, quando dice: «Vigilate, etorate: spiritus quidem promptus, caro autem infirma». E san Paolosimilemente ne rende avveduti e cauti, quando dice: «Spiritusconcupiscit adversus carnem, et caro adversus spiritum»; vogliendoneper questo ammaestrare che noi siamo e avveduti e forti a resisterealle tentazioni carnali. Il simigliante fa il mondo: questi ne paradinanzi gli splendor suoi, gl'imperi, i regni, le province, gli statie la pompa secolare, gli onori e la peritura gloria; nascondendo sottola sua falsa luce i tradimenti, le violenze, gl'inganni, le guerre,l'uccisioni, l'invidie e i furori e i cadimenti e altre cose assai,senza le quali né pigliare né tenere si possono queste preeminenze,questi fulgori, queste grandezze temporali: le quali tutte, eciascuna, n'ha a privare di pace e di riposo e della eternabeatitudine. Susseguentemente il dimonio, rapacissimo ed insaziabiledivoratore, pieno d'ingegno e d'avvedimento nel male adoperare, neminaccia e spaventa di ruine, di tempeste, di tribulazioni, se dellasua via usciremo; attorniandoci sempre con agguati, non forse daquelle volessimo deviare. E in tanta ansietá con le sue dimostrazioniassai volte ci reca, che, toltoci lo sperare della divinamisericordia, a volontaria morte c'induce: e cosí impedisce tanto chivuole alla via della veritá ritornare, che egli nelle tenebre eterneil conduce. E queste sono le paure, questi sono gl'impedimenti e lenoie che preparate e date da' nostri nemici ne sono, e il nostro benvolere adoperare impedito e frastornato, come nella corteccia dellalettera l'autore ne dimostra.]

«Mentre ch'io ruinava in basso loco». Nella precedente parte di questocanto è stato dimostrato, per opera della divina grazia il peccatoreaver conosciuto il suo stato, e disiderar d'uscir di quello, e tornarealla via della veritá, da lui per lo mentale sonno smarrita; e, oltrea ciò, quali sieno le cose le quali il suo tornare alla diritta viaimpediscono: in questa parte dimostra il divino aiuto al suo scampomandatogli, accioché, schifato lo 'mpedimento delli detti vizi, essopossa quel cammin prendere e seguire che opportuno è alla sua salute.E come questo mandato gli fosse, piú distintamente si mostrerá nelcanto seguente. E, percioché, come noi per esperienza veggiamo, coloroi quali delle infermitá si lievano, esser deboli e male atanti dellapersona; cosí creder dobbiamo esser l'anima, la quale dalla infermitádel peccato levandosi, s'ingegna di tornare alla sua sanitá. E, comeil nostro corpo infermo, senza l'aiuto d'alcun bastone sostener non sipuote, né muoversi ad alcuno atto utile; cosí l'anima nostra, dalpeccato vinta e stanca, senza alcuno aiuto della divina clemenza nonpuò cosa alcuna aoperare in sua salute. E perciò intende qui l'autoredi mostrarci come Iddio, il quale ha sempre gli occhi della sua pietádiritti a' nostri bisogni, ne mandi la sua seconda grazia, cioè lacooperante, con l'aiuto e colla dimostrazione della quale noi prendiamforza e noi medesimi ordiniamo; e, riconosciute con piú avvedimento lenostre colpe, nel timor di Dio torniamo, e della terza grazia,perseverando, ci facciam degni, e quindi della quarta.

Le quali cose in questa parte l'autore sotto il velame de' suoi versiintende, sentendo per Virgilio questa seconda grazia cooperante; e luiprende come sofficiente, sí per discrezione, e sí per iscienza, e síancora per laudevoli costumi atto a tanto uficio; e, oltre a ciò,percioché Virgilio, quantunque con altro senso, in parte trattò quellamedesima materia, la quale egli intende di trattare; e ancora,percioché il trattato dee essere poetico, era piú conveniente un poetache alcuno altro sublime uomo; e però prese lui, piú tosto che alcunaltro, percioché egli tra' latini ottiene il principato.

E costui, dice, gli apparve «nel gran diserto», cioè in quella partedove l'anima sua, timida di non essere dalle lusinghe e daglispaventamenti de' suoi viziosi pensieri ritirata nel profondo dellemiserie, del quale del tutto era disposto d'uscire, si ritrovava senzaconsiglio alcuno e senza conforto.

Ed è in questa parte da intendere in questa forma: che Virgilio, ládove bisogno será, nella presente opera s'intenda per la ragione a noiconceduta da Dio, e per la quale noi siamo chiamati «animalirazionali»; percioché la ragione è quella parte dell'uomo, nella qualesi dee credere questa seconda grazia ricevere e abitare,conciosiacosaché essa ne sia da Dio data non solamente a cooperare conl'altre nostre potenze animali e intellettive, ma a dirizzare e aguidare ogni nostra operazione in bene. La qual cosa ella fa, mossa eammaestrata dalla divina grazia, quante volte è da noi lasciata esserdonna e imperadrice de' nostri sensi; ma, quando la sensualitá, per lenostre colpe, la caccia del luogo suo e signoreggia ella, la ragiontace e diventa mutola, non comanda, non dispon piú secondo il suoconsiglio le nostre operazioni. E, percioché sotto i piedi dellasensualitá era nell'autore lungo tempo giaciuta, si può dire che nelprimo muover delle sue parole paresse «fioca».

Questa adunque, come il disiderio della virtú torna, abbattuta lasensualitá, risurge e torna nella sua sedia e manifestasi alladestituta anima, constituta «nel diserto», cioè nel luogo d'ognivirtú, d'ogni buona operazione, vacuo, pronta e apparecchiata ad ognisua opportunitá: [e, avanti ad ogni altra cosa, fa in se medesimamaravigliar l'anima riconosciuta; per che, lasciando di salire aCristo, il quale è principio e cagione d'intera beatitudine, si lasciadallo spaventamento dei vizi sospignere allo 'nferno. Della qual cosasegue che la ragione, mostrandole apertamente che cosa sia l'avarizia,e qual sia il fine suo, cioè che dalla liberalitá, la quale è morale elaudevole virtú, ella fia scacciata, superata e vinta, e in infernorimessa lá onde il diavolo, per invidia della gloriosa vita promessaall'umana generazione, la trasse e menolla nel mondo, accioché per lasua opera, l'anime, create ad essere beate, fossero laggiú traboccate,onde ella era stata menata]. E di questo séguita che, poiché, per loimpedimento dei vizi, quella via piú propinqua di salire a Dio gli eratolta, che a lui conveniva, e a ciascun convenirsi che vuole uscirdella via del peccato e a Dio ritornarsi, seguire la ragione,dimostratrice della veritá, a vedere que' luoghi che nel testo sileggono.

Intorno alla qual cosa è da sapere non essere senza misterio, volendouscire dello stato della miseria e ritornar nella grazia, tenere ilcammino che la ragion dimostra all'autore convenirsi tenere. E laragione può esser questa: opportuno è a ciascuno, il quale vuol farequello che detto è, primieramente conoscere le colpe sue; alle quali,conosciute, e veduto come dalla giustizia di Dio siano quelle colpepunite, non è dubbio seguire nell'anima ben disposta il timor di Dio,il quale è principio della sapienza, come il salmista ne dice. Questotimore di Dio incontanente fa seguire nelle nostre menti contrizione epentimento delle cose non ben fatte; dalla quale, secondo che lacensura ecclesiastica ne dimostra, si viene [alla confessione, e daquella] alla satisfazione, dopo la quale si sale alla gloria, comepossiamo ordinatamente comprendere, nel cammino che il nostro autoretiene, seguire. E tutte queste cose, insino al salire alla gloria, nepuò la nostra ragion dimostrare; percioché tutti sono atti civili emorali e reduttibili agli spirituali.

[Nasce adunque da questo il consiglio, il quale la ragione, che tienqui luogo della grazia cooperante, gli dá, cioè che egli per lo'nferno, cioè per gli atti degli uomini terreni (li quali, a rispettode' corpi celestiali, ci possiam reputare di essere in inferno); e,tra quegli, considerati quegli che la nostra ragione, le leggipositive e la divina dannino: conoscerá quello da che astener si deeciascuno che secondo virtú vuol vivere, e quello che, seguendol,merita pena, e qual pena secondo le leggi temporali e secondol'eterne; conoscerá la giustizia di Dio, e meritamente avrá timoredell'ira sua. E da questo luogo, giá delle cose men che ben fattepentendosi, venga a vedere coloro che son contenti nel fuoco, cioènell'afflizione della penitenzia; accioché quindi, dietro alla guidadella teologia, le cui ragioni e dimostrazioni la nostra ragion nonpuò comprendere, salga purgato delle offese all'eterna beatitudine.]Ed in questo mi pare consista la sentenza dell'allegoria di questoprimo canto.

Restaci nondimeno a vedere una parte, alla quale pare che dirizzil'animo ciascuno che il presente libro legge, e quella disidera disapere; cioè quello che l'autore abbia voluto sentire per quelloveltro, la cui nazione dice dovere esser «tra feltro e feltro». E, perquello che io abbia potuto comprendere, sí per le parole dell'autore,sí per li ragionamenti intorno a questo di ciascuno il quale ha alcunsentimento, l'autore intende qui dovere essere alcuna costellazionceleste, la quale dee negli uomini generalmente impriemere la vertúdella liberalitá, come giá è lungo tempo, e ancora persevera quelladel vizio dell'avarizia. Il che l'autore assai chiaro dimostra nelPurgatorio, dove dice:

O ciel, nel cui girar par che si creda le condizion di quaggiú trasmutarsi, quando verrá, per cui questa disceda?

cioè questa lupa, per la quale, come detto è, s'intende il viziodell'avarizia. [Or non so io, se questo dovere avvenire, l'autore ne'moti futuri de' superiori corpi si vide, o se per alcuna altraconiettura ciò dovere avvenire s'è avvisato: è nondimeno assai chiaroi costumi degli uomini mutarsi e d'una parte in altra trasportarsi.Percioché, sí come ne mostrano le istorie de' gentili e ancoradell'altre, lo 'mperio delle cose temporali cominciando sotto Nino re,fu molte centinaia d'anni sotto gli assiri, sotto i medi e sotto ipersi; e lungamente avanti v'era stata la religione e la scienza, lequali, come prima lá erano state, cosí primieramente se ne partirono,e vennerne in Egitto, e d'Egitto in Grecia; e poi da Alessandro re diMacedonia fu d'Asia lo 'mperio trasportato in Grecia, donde lascienza, la religione e l'armi poi partendosi ne vennero appo ilatini, e qui per lungo spazio furono; poi di qui paiono andate inver'ponente, essendo appo i tedeschi e appo i galli, e par giá che ilcielo ne minacci di portarle in Inghilterra: il che per avventurapotrá, se piacer fia di Dio, di questa costellazione che l'autor dice,avvenire, ecc.] E, percioché queste impressioni del cielo conviene chequaggiú s'inizino, e comincino ad apparere i loro effetti o per alcunouomo, o per piú; par l'autore qui sentire che per uno si debbano glialti effetti di questa impression dimostrare: il quale metaforicechiama «veltro», percioché i suoi effetti saranno del tutto cosícontrari all'avarizia, come il veltro di sua natura è contrario allupo.

E costui mostra dovere essere virtuosissimo uomo, e che la nazion suadebba essere tra feltro e feltro. E questa è quella parte dalla qualemuove tutto il dubbio che nella presente discrizion si contiene. Laqual parte io manifestamente confesso ch'io non intendo: e perciò inquesta sarò piú recitatore de' sentimenti altrui che esponitore de'miei.

Vogliono adunque alcuni intendere questo veltro doversi intendereCristo, e la sua venuta dovere esser nell'estremo giudicio, ed eglidovere allora esser salute di quella umile Italia, della quale nellaesposizion litterale dicemmo, e questo vizio rimettere in inferno. Maquesta opinione a niun partito mi piace; percioché Cristo, il quale èsignore e creatore de' cieli e d'ogni altra cosa, non prende i suoimovimenti dalle loro operazioni, anzi essi, sí come ogni altracreatura, seguitano il suo piacere e fanno i suoi comandamenti; e,quando quel tempo verrá, sará il cielo nuovo e la terra nuova, e nonsaranno piú uomini, ne' quali questo vizio o alcun altro abbia ad averluogo; e la venuta di Cristo non sará allora salute né d'Italia néd'altra parte, percioché solo la giustizia avrá luogo, e allamisericordia sará posto silenzio, e il diavolo co' suoi seguaci tuttisaranno in perpetuo rilegati in inferno. E, oltre a ciò, Cristo nondee mai piú nascere, dove l'autor dice che questo veltro dee nascere.Né si può dire l'autore aver qui usato il futuro per lo preterito,quasi e' nacque tra feltro e feltro, cioè della Vergine Maria, che erapovera donna, e nacque in povero luogo: ma questa ragione nonprocederebbe, percioché sono MCCCLXXIII anni che egli nacque, e, neitempi che nacque, era la potenza di questo vizio nelle menti umanegrandissima; né poi si vede, non che essere scacciata, ma né mancata.Né si può dire che nascesse tra feltro e feltro, cioè di vile nazione:egli fu figliuolo del Re del cielo e della terra, e della Vergine, cheera di reale progenie. E se dire volessono: ella era povera; lapovertá non è vizio, e perciò non ha a imporre viltá nel suggetto;percioché noi leggiamo di molti essere stati delle sustanze temporalipoverissimi, e ricchissimi di virtú e di santitá. Perché dich'io tanteparole? Questa ragione non procede in alcuno atto.

Altri dicono, e al parer mio con piú sentimento, dover potereavvenire, secondo la potenza conceduta alle stelle, che alcuno,poveramente e di parenti di bassa e d'infima condizione nato (il chepaiono voler quelle parole «tra feltro e feltro», in quanto questaspezie di panno è, oltre ad ogni altra, vilissima), potrebbe per virtúe laudevoli operazioni in tanta preeminenza venire e in tantaeccellenza di principato, che, dirizzandosi tutte le sue operazioni amagnificenza, senza avere in alcuno atto animo o appetito ad alcunoacquisto di reame o di tesoro, ed avendo in singulare abbominazione ilvizio dell'avarizia, e dando di sé ottimo esempio a tutti nelle coseappartenenti alla magnificenzia, e la costellazione del cieloessendogli a ciò favorevole; che egli potrebbe, o potrá, muovere glianimi de' sudditi a seguire, facendo il simigliante, le sue vestigie,e per conseguente cacciar questo vizio universalmente del mondo. Ed,essendo salute di quella umile Italia, la qual giá fu capo del mondo,e dove questo vizio, piú che in alcuna altra parte, pare aver potenza,sarebbe salute di tutto il rimanente del mondo; e cosí, d'ogni partediscacciatala, la rimetterebbe in inferno, cioè in dimenticanza e inabusione, o vogliam dire in quella parte dove gli altri vizi sontutti, e donde ella primieramente surse intra' mortali. E, a roborarequesta loro oppenione, inducono questi cotali i tempi giá stati, cioèquegli ne' quali regnò Saturno, li quali per li poeti si truovanoessere stati d'oro, cioè pieni di buona e di pura semplicitá, e ne'quali questi beni temporali dicon che eran tutti comuni; e perconseguente, se questo fu, anche dover essere che questi sotto ilgoverno d'alcuno altro uomo sarebbono.

Alcuni altri, accostandosi in ogni cosa alla predetta oppenione, dannodel «tra feltro e feltro» una esposizione assai pellegrina, dicendo séestimare la dimostrazione di questa mutazione, cioè del permutarsi icostumi degli uomini, e gli appetiti da avarizia in liberalitá,doversi cominciare in Tartaria, ovvero nello 'mperio di mezzo, lá doveestimano essere adunate le maggiori [ricchezze e] moltitudini ditesori, che oggi in alcuna altra parte sopra la terra si sappiano. Ela ragione, con la quale la loro oppenione fortificano, è che diconoessere antico costume degli imperadori dei tartari (le magnificenzede' quali e le ricchezze appo noi sono incredibili), morendo, essereda alcuno de' loro servidori portata sopra un'asta, per la contradadov'e' muore, una pezza di feltro, e colui che la porta andargridando:—Ecco ciò che il cotale imperadore, che morto è, ne porta ditutti i suoi tesori;—e, poi che questa grida è andata, in questofeltro inviluppano il morto corpo di quello imperadore; e cosí senzaalcun altro ornamento il sepelliscono. E per questo dicon cosí: questoveltro, cioè colui che prima dee dimostrare gli effetti di questacostellazione, nascerá in Tartaria, tra feltro e feltro, cioè regnantealcuno di questi imperadori, il quale regna tra 'l feltro adoperatonella morte del suo predecessore e quello che si dee in lui nella suamorte adoperare. Questa oppinione sarebbero di quegli che direbbonoavere alcuna similitudine di vero; la quale non è mia intenzione divolere fuori che in uno atto riprovare, e questo è, in quanto diconoquegli imperadori aver grandissimi tesori, e però quivi mostran cheistimino, dall'abbondanza dei tesori riservati, essendo sparti,doversi la gola dell'avarizia riempiere e gli effetti magnifichicominciare. Il che mi pare piú tosto da ridere che da credere:percioché quanto tesoro fu mai sotto la luna, o sará, non avrebbeforza di saziare la fame di un solo avaro, non che d'infiniti, chesempre sopra la terra ne sono. Che dunque piú? Tenga di questociascuno quello che piú credibile gli pare, ché io per me credo,quando piacer di Dio sará, o con opera del cielo o senza, sitrasmuteranno in meglio i nostri costumi. E questo, quanto sopra ilprimo canto, basti d'avere scritto [sempre a correzione di coloro chepiú sentono che io non faccio].

Possono per avventura essere alcuni, li quali forse stimano, nonsolamente in questo libro, ma eziandio in ogni altro [e ne' divini],ne' quali figuratamente si parli, ogni parola aver sotto sé alcunsentimento diverso da quello che la lettera suona; e però, non essendonel precedente canto ad ogni parola altro sentimento dato che illitterale, diranno, nell'aprire l'allegoria, essere difettuosamente dame proceduto. Ma in questa parte, salva sempre la reverenzia di chi 'ldicesse, questi cotali sono della loro oppenione ingannati; perciochéin ciascuna figurata scrittura si pongono parole che hanno anascondere la cosa figurata, e alcune che alcuna cosa figurata nonascondono, ma però vi si pongono, perché quelle che figurano possanconsistere: sí come per esemplo si può dimostrare in assai parti nellapresente opera. Che ha a fare al senso allegorico: «La sesta compagniain duo si scema»? che n'ha a fare: «Cosí discesi del cerchio primaio»?che molte altre a queste simili? E, se queste se ne tolgono, comepotrá seguire l'ordine della dimostrazione che l'autore intende difare? come acconciarsi quelle che per significare altro si scrivono?Se ogni parola avesse alcun altro senso che il litterale a nascondere,di soperchio avrebbe san Girolamo detto nel proemio dell'Apocalissi,e non in altra parte della Scrittura, tanti essere i misteri quanteson le parole; conciosiacosaché nell'Apocalissi per eccellenziaquello si creda avvenire, che in alcun altro libro della SacraScrittura non avviene. Tuttavia, accioché piú pienamente si creda nonogni parola avere allegorico senso, leggasi quello che ne scrive santoAgostino nel libro Dell'eterna Ierusalem, dicendo: «Non omnia, quaegesta narrantur, aliquid etiam significare putanda sunt; sed propterilla, quae aliquid significant, attexuntur; solo enim vomere terraproscinditur; sed, ut hoc fieri possit, etiam caetera aratri membrasunt necessaria. Et soli nervi in citharis atque huiusmodi vasismusicis aptantur ad cantum; sed, ut aptari possint, insunt et caeterain compagibus organorum, quae non percutiuntur a canentibus, sed ea,quae percussa resonant, his connectuntur», ecc. E perciò estimo chemolto piú onesto sia a credere ad Agostino che stoltamente opinarequello che manifestamente si può riprovare; e quinci prenderecertezza, se alcuna cosa allegorizzando è omessa, quella non pernegligenza, ma per non conoscere che opportuna vi sia l'allegoria,essere stata intralasciata.

CANTO SECONDO

SENSO LETTERALE

[Lez. VII]

«Lo giorno se n'andava, e l'aer bruno», ecc. Comincia qui la parteseconda di questa prima cantica chiamata Inferno, nella qual dissil'autore cominciare il suo trattato. E, come che questa si potesse indiverse maniere dividere, questa sola intendo che basti peruniversale, cioè dividersi in tante parti, quanti canti seguitano;percioché pare che ciascun canto tratti di materia differente daglialtri. E questo canto dividerò in sei parti: nella prima si continual'autore al precedente; nella seconda, secondo il costume poetico, fala sua invocazione; nella terza muove l'autore a Virgilio un dubbio;nella quarta Virgilio solve il dubbio mossogli; nella quinta l'autore,rassicurato, dice di volere seguir Virgilio; nella sesta ed ultimal'autor mostra come appresso a Virgilio entrò in cammino. La secondacomincia quivi: «O mese, o alto ingegno»; la terza quivi: «Iocominciai:—Poeta»; la quarta quivi: «Se io ho ben la tua parola»; laquinta quivi: «Quale i fioretti»; la sesta quivi: «E poi che mossofue».

Dico adunque che l'autore si continua alle cose precedenti; percioché,avendo detto nella fine del precedente canto sé esser mosso dietro aVirgilio, nel principio di questo discrive l'ora nella quale simossero, dicendo: «Lo giorno se n'andava», e questo per lo chinare delsole all'occidente; «e l'aer bruno», cioè la notte sopravvegnente, laqual sempre all'occultar del sole séguita. [Di che appare null'altracosa essere il dí, se non la stanza del sole sopra la terra; e questoè quello che è cosí chiamato, cioè «dí» dalla luce. (E percioché, allevarsi di quello, sempre la notte fugge, Pronapide, greco poeta emaestro di Omero, racconta una cotale favola.) E vogliono gliastrologi questo chiamarsi «dí artificiale», cioè quello spazio ilquale si contiene tra il levare del sole e l'occultare; e la ragioneè, perché essi, usandolo nelle loro elevazioni, d'ogni tempo ildividono in dodici parti equali, e cosí fanno la notte. Il dí naturaleè di ventiquattro ore equali, e in questo è notte congiunta col dí; madinominasi tutto dí dalla parte piú degna, cioè dalla parte splendida.E chiamasi dí da «Dios» graece, il quale in latino viene a dire«Iddio»; percioché, come Iddio sempre in ogni cosa buona ne giova eaiuta, cosí nelle nostre operazioni ne aiuta il dí con la sua luce. Epotrebbesi dire che egli n'aiuta nelle buone, percioché chi fa male hain odio la luce.] E mostra, per questa discrizione del farsi notte,che l'autore fosse stato, dal farsi dí infino al farsi notte di queldí, in quella valle, occupato da quelle tre bestie ed a ragionar conVirgilio.

«Toglieva gli animai che sono in terra, Dalle fatiche loro».Dimostrane qui l'autore una delle operazioni della notte, la qualel'ordine della natura attribuisce al riposo e alla quiete deglianimali, degli affanni avuti il dí passato; percioché, se alcun tempoal riposo non si prestasse, non sarebbe alcuno animale che nelle sueoperazioni potesse perseverare; e però dice l'autore che l'aer bruno«toglieva», cioè levava, «Dalle fatiche loro». E séguita: «ed io soluno». Par che qui sia un vizio, il qual si chiama «inculcatio», cioèporre parole sopra parole che una medesima cosa significhino, come quisono; percioché «solo» non può essere se non uno, e «uno» non puòessere se non solo; ma questo si scusa per lo lungo e continuo uso delparlare, il quale pare aver prescritto questo modo di parlare, controal vizio della inculcazione. O potrebbesi dire questo nome «solo»fosse nome adiettivo, e «uno» fosse nome proprio di quel numero, ecosí cesserebbe il vizio. «M'apparecchiava a sostener la guerra», cioèla fatica, nemica e infesta al mio riposo, «sí del cammino», che fardovea (in che mostra dovere il corpo esser gravato), «e sí dellapietate», cioè della compassione, la quale aspetta d'avere vedendol'afflizione e le pene de' dannati e di quegli che nel fuoco sipurgano. Ed in questo dimostra l'anima dovere esser faticata,percioché essa è dalle passioni, che dalle cose esteriori vengono,gravata e noiata essa, e non il corpo; quantunque ella sia ancorgravata dalle passioni corporali. «Che tratterá», cioè racconterá, «lamente», cioè la potenza memorativa, «che non erra»; e questo dice,percioché si conosceva aver tenace memoria, per la qual cosa nontemeva dovere errare né nella quantitá né nella qualitá.

«O muse, o alto ingegno». In questa seconda parte l'autore fa la suainvocazione, secondo il costume poetico. Usano i poeti in pochi versidire la intenzion sommaria di ciò che poi intendono di trattare intutto il processo del libro, e, questo detto, fare la loroinvocazione. E cosí fa Virgilio nel principio del suo Eneida:

… at nunc horrentia Martis arma, virumque cano, Troiae qui primus ab oris, ecc.;

e, questi pochi versi detti, incontanente invoca, dicendo:

Musa, mihi causas memora; quo numine laeso, ecc.

E Ovidio, nel principio del suo maggior volume, dice:

In nova fert animus mutatas dicere formas corpora;

ed incontanente invoca, dicendo:

…dii coeptis, nam vos mutastis et illas, aspirate meis, ecc.

E talvolta i poeti, insieme con la invocazione, mescolano la sommariaintenzion loro; e cosí, nel principio della sua Odissea, fece Omero,li versi del quale ottimamente traslatò in latino Orazio, dicendo:

Dic mihi, musa, virum, captae post tempora Troiae, qui mores hominum multorum vidit, et urbes.

Cosí similmente il venerabile mio precettore messer Francesco Petrarcafece nel principio della sua Africa, dicendo:

Et mihi cospicuum meritis, belloque tremendum, musa, virum referas.

Ma il nostro autore s'accostò piú allo stilo di Virgilio, come inciascuna cosa fa, che a quello d'alcun altro; percioché, avendo sottobrevitá nel precedente canto mostrato quello che intende in tutto illibro suo di dire, lá dove dice: «E trarrotti di qui per luogoeterno», ecc.; qui fa la sua invocazione, dicendo: «O muse, o altoingegno, or m'aiutate. O mente, che scrivesti», ecc. [Invoca adunquein questo suo principio, sí come appare, le muse, come di sopra èmostrato far gli altri poeti: per che pare di dover dichiarare checosa sieno queste muse e quante, e qual sia il loro uficio; e questo,sí per piú pienamente dar lo intelletto del presente testo, e síancora perché in piú parti del presente libro se ne fará menzione.]

[È adunque da sapere, secondo che i poeti fingono, che le muse sonnove, e furono figliuole di Giove e della Memoria: e la ragione perchéquesto sia da' poeti, fingendo, detto, è questa. Piace ad Isodoro,cristiano e santissimo uomo e pontefice, nel libro Delle etimologie,che, percioché il suono delle predette muse è cosa sensibile, e chenel preterito passa, e impriemesi nella memoria, però essere da' poetidette figliuole di Giove e della Memoria. Ma io, a maggiordichiarazione di questo sentimento, estimo che sia cosí da dire: che,conciosiacosaché da Dio sia ogni scienzia, come nel principio dellibro Della sapienza si legge, e non basti a ricever quellasolamente l'avere inteso, ma che, a farla in noi essere scienza, siadi necessitá le cose intese commendare alla memoria, e cosí divenirein noi scienza (il che l'autore appresso assai bene ne dimostra, ládove dice:

Apri la mente a quel ch'io ti paleso, e fermal dentro, ché non fa scienza, senza lo ritenere, avere inteso);

dobbiamo, e possiam dire, queste muse, cioè scienza, in noi giáabituata per lo intelletto e per la memoria, potersi dire figliuole diGiove, cioè di Dio Padre e della Memoria. E dico Giove doversiintendere qui Iddio Padre, percioché alcuno altro nome non so piúconveniente a Dio Padre che questo. E la ragione è che Giove si chiamain latino Iupiter, il qual noi intendiamo «iuvans pater»: il qualnome, se ben vorremo riguardare, ad alcun altro che a Dio Padredirittamente non s'appartiene, percioché esso solo dirittamente si puòdir padre; percioché, essendo senza avere avuto padre, è delle coseeterne, ed eziando dell'altre, unico e vero creatore e padre; e, oltrea ciò, ad ogni onesta operazione è veramente aiutatore, né si puòsenza il suo aiuto alcuna cosa perfettamente ad effetto recare: ecosí, quante volte in alcuno onesto atto Giove si nomina, possiamo edobbiamo di Dio onnipotente intendere. Cosí adunque, ritornando alproposito, meritamente di Giove e della Memoria possiam dire le museessere state figliuole, in quanto egli è vero dimostratore dellaragione di qualunque cosa; le quali sue dimostrazioni, servate nellamemoria, fanno scienza ne' mortali, per la quale qui, largamenteprendendo, s'intendono le muse: e cosí sará la memoria, ricevitrice eritenitrice di questo santo seme, e poi riducitrice, quasipartoritrice, madre delle muse. Le quali dice il predetto Isidoro, nellibro preallegato, esser nominate «a quaerendo», cioè da «cercare»;percioché per esse, sí come gli antichi vogliono, si cerca la ragionede' versi e la modulazione della voce; e per questo, per derivazione,viene dal nome loro questo nome di «musica», la quale è scienza disapere moderare le voci. E da questa ragione si può prendere lacagione perché piú se l'hanno i poeti appropriate e fatte familiariche alcun'altra maniera di scientifici.]

[Son queste muse in numero nove. E perché elle sieno nove, si sforzadi mostrare Macrobio nel secondo libro Super somnio Scipionis,equiparando quelle a' canti delle otto spere del cielo, vogliendo poila nona essere il concento che nasce della modulazione di tutti e ottoi cieli; aggiugnendo poi le muse essere il canto del mondo, e questo,non che dall'altre genti; ma eziandio dagli uomini di villa sapersi,percioché da loro sono le muse chiamate «camene», quasi «canene», dal«cantare» cosí nominate.]

[E, accioché voi intendiate che vuol dire questo canto del mondo,dovete sapere che fu oppinione di Pitagora e di altri filosofi, checiascun cielo, di questi otto, cioè l'ottava spera e i sette de' settepianeti, volgendosi in su li loro cardini, facessero alcuno ruggire,qual piú aguto e qual piú grave, sí, per divino artificio, di debititempi misurati, che, insieme concordando, facevano una soavissimamelodia, la quale qui intende Macrobio per lo concento; della qualnoi, per l'udirla continuo, non ci curiamo, né vi riguardiamo. Maquesta oppinione di Pitagora con manifeste ragioni è riprovata daAristotile.]

[Ma di questo rende Fulgenzio nel libro delle sue Mitologie altraragione, dicendo per queste nove muse doversi intendere la formazioneperfetta della nostra voce: la qual voce, dice, si forma da quattrodenti, li quali la lingua percuote quando l'uomo parla; de' quali, sealcun mancasse, parrebbe che piú tosto si mandasse fuori un sufolo chevoce. Appresso questo, dice formarsi la voce dalle due nostre labbra,le quali non altrimenti sono che due cembali modulanti la comoditádelle nostre parole; e cosí la lingua, col suo piegamento ecircunflessione, essere a modo che un plettro, il quale formi lospirito vocale; e quindi essere opportuno il palato, per la concavitádel quale si proffera il suono. E ultimamente, accioché nove cosesieno, s'aggiugne la canna della gola, la qual presta il corsospirituale per la sua ritonda via. Ed oltre a questo, percioché damolti si dice Apollo cantare con queste nove muse, non altrimenti cheservatore del concento al canto delle predette cose, è dal dettoFulgenzio aggiunto il polmone, il quale, a guisa d'un mantaco, le coseconcette manda fuori e rivoca dentro. E, non volendo che in cosíriposto segreto della natura a lui solamente paia di dovere esserprestata fede di cosí esquisita ragione, induce per testimoniAnassimandro lampsaceno e Zenofane eracleopolita, li quali confermaqueste cose avere scritte ne' libri loro; aggiugnendo ancora questemedesime cose da molti chiarissimi filosofi essere affermate, sí comeda Pisandro fisico, e da Eussimene in quel libro il quale egli chiamaThelugumenon.]

[Appresso, il detto Fulgenzio ad altro intelletto e piú divulgatodisegna gli effetti di queste muse, i loro nomi ponendo e quello perciascuno in particularitá si debba intendere. E cosí la prima nominaClio, e per questa vuole s'intenda il primo pensiero d'apparare;percioché «Clios» in greco viene a dire «fama» in latino; e nulloè che cerchi scienza se non quella nella quale crede potere prolungarela dignitá della fama sua: e per questa cagione è chiamata la primaClio, cioè «pensiero di cercare scienza». La seconda è in grecochiamata Euterpe, la quale in latino vuol dire «bene dilettante»,accioché primieramente sia il cercare scienza, e appresso sia ildilettarsi in quello che tu cerchi. La terza è appellata Melpomenequasi «melempio comene» cioè «facente stare la meditazione»;accioché primieramente sia il volere, e appresso che quello ti dilettiche tu vuogli, e, oltre a ciò, perseverare, meditando quello che tudisideri. La quarta ha nome Talia, cioè capacitá, quasí come l'uomdicesse «Tithonlia», cioè «pognente cosa che germini». La quinta sichiama Polimnia, quasi «poliumneemen», cioè «cosa che faccia moltamemoria»; percioché noi diciamo che, dopo la capacitá, è necessaria lamemoria. La sesta è chiamata Erato cioè «eurun comenon», il qual noiin latino diciamo «trovatore del simile»; percioché, dopo la scienza edopo la memoria, è giusta cosa che l'uomo di suo trovi alcuna cosasimile. La settima si chiama Tersicore, cioè «dilettanteammaestramento»: adunque, appresso la invenzione, bisogna che l'uomodiscerna e giudichi quello che esso truovi. L'ottava si chiama Urania,cioè «celestiale»; percioché, dopo l'aver giudicato, elegge l'uomoquello che egli debba dire e quello che egli debba rifiutare;percioché lo eleggere quello che sia utile e rifiutare quello che siacaduco e disutile, è atto di celestiale ingegno. La nona è chiamataCalliope, cioè «ottima voce». Sará dunque l'ordine questo:primieramente volere la dottrina; appresso dilettarsi in quello chel'uom vuole; poi perseverare in quello che diletta; e, oltre a ciò,prendere quello in che si dee perseverare; e quinci ricordarsi diquello che l'uom prende; appresso trovare del suo cosa simigliante aquello di che l'uom si ricorda; dopo questo, giudicar di quello di chel'uom si ricorda; e cosí eleggere quello di che si giudichi; eultimamente profferere bene quello che l'uomo avrá eletto.]

[Dalle quali dimostrazioni, e spezialmente per le prime, si puòcomprendere che cagione muova i poeti ad invocare il loro aiuto.Nondimeno pare ad alcuno che le muse si debbano dinominare da«moys», che in latino viene a dire «acqua». E questo vogliono,percioché il comporre, e ancora il meditare alcuna invenzione e lacomposta esaminare, si sogliano con meno difficultá fare su per lariva di un bel fiume o d'alcun chiaro fonte che in altra parte, quasiil riguardar dell'acqua abbia alle predette cose e muovere e incitargl'ingegni. E questo par che vogliano prendere da ciò che Cadmo re diTebe, sedendo sopra il fonte chiamato Ippocrene, trovò le figure dellelettere greche, le quali essi ancora usano; come che da Palamede poi,e ancora da Pittagora, ve ne fossero alcune aggiunte; e quivisimilemente meditò la loro composizione insieme, accioché, secondoquello che era opportuno al greco idioma, per quelle si profferesse;affermando ancora molti fonti, secondo l'antico errore, essere statialle muse consecrati, sí come il fonte Castalio, il fonte Aganippe edaltri, questo rispetto avendo, che sopra quegli fossero gl'ingegniumani piú pronti alle meditazioni che in alcun'altra parte.]

«O alto ingegno.» È l'ingegno dell'uomo una forza intrinsecadell'animo, per la quale noi spesse volte troviamo di nuovo quello chemai da alcuno non abbiamo apparato. Il che avere sovente fattol'autore in questo libro si trova, percioché, quantunque Omero e,appresso lui, Virgilio dello scendere in inferno scrivessero, ancorache in alcuna parte gli abbia l'autore imitati nello 'Nferno, nellepiú delle cose tiene da loro cammino molto diverso: del quale perochéalcuno altro scrittore non si truova che in quella forma trattaton'abbia, assai manifestamente possiam vedere della forza del suoingegno questa invenzione e il modo del procedere essere premuto.

«Or m'aiutate»: percioché mi bisogna a questo punto la 'nventiva, e 'lmodo del procedere, e la sonoritá dello stilo.

«O mente». Non bastando solo lo 'ngegno, per la cui forza lepellegrine inventive si truovano, invoca ancora la mente sua,accioché, per l'opera di lei, quello possa servare e poi raccontare,che avrá trovato. [Ed è questa mente, secondo che Papia scrive, la piúnobile parte della nostra anima, dalla quale procede l'intelligenzia,e per la quale l'uomo è detto fatto alla immagine di Dio; o è l'animastessa, la quale per li molti suoi effetti ha diversi nomi meritati.Ella è allora chiamata «anima», quando ella vivifica il corpo; ella èchiamata «animo», quando ella alcuna cosa vuole; ella è chiamata«ragione», quando ella alcuna cosa dirittamente giudica; ella èchiamata «spirito», quando ella spira; ella è chiamata «senso», quandoella alcuna cosa sente; ella è chiamata «mente», quando ella sa edintende.] Questa sta nella piú eccelsa parte dell'anima, e perciò èchiamata mente, perché ella si ricorda. Per lo quale effetto qui ilsuo aiuto invoca l'autore; percioché, se in questo la mente nonl'aiutasse, invano sarebbe disceso o discenderebbe a vedere tante cosee cosí diverse, quanto per opera della mente ne scrive.

«Che scrivesti», cioè in te raccogliesti, «ciò ch'i' vidi», nelcammino da me fatto, «Qui», cioè nella presente opera, «si parrá latua nobilitate», cioè la tua sufficienza in conservare; percioché lanobilitate della cosa consiste molto nello esercitar bene ecompiutamente quello che al suo uficio appartiene.

«Io cominciai:—Poeta». In questa terza parte del presente canto dissiche l'autore moveva un dubbio a Virgilio: il quale, mosso dapusillanimitá mostra di temere di mettersi nel cammino, il qualeVirgilio nella fine del primo canto disse di dovergli mostrare; edice: «Io cominciai», a dire:—«Poeta», Virgilio, «che mi guidi,Guarda», cioè esamina, «la mia virtú», cioè la mia forza, «s'ella èpossente», a sostener tanto affanno, quanto nel lungo cammino emalagevole, per lo quale tu di' di volermi menare, fia di necessitá disofferire; e fa' questo, «Prima che all'alto passo», cioè d'entrare ininferno, «tu mi fidi», tu mi commetta. Quasi voglia dire:—Io vorreiper avventura ad ora tornare indietro ch'io non potrei.—

«Tu dici». Qui vuole l'autore levar via una risposta, la qualVirgilio, sí come egli avvisava, gli avrebbe potuta fare, cioè didire:—Non puo' tu venire, o non credi poter, lá dove andò Enea eancora lá dove andò san Paolo?—E comincia: «Tu dici», nel sesto librodel tuo Eneida, «che di Silvio lo parente», cioè padre.

Ebbe Enea due figliuoli, de' quali fu l'uno chiamato Iulio Ascanio, equesto ebbe di Creusa, figliuola di Priamo re di Troia; e l'altro ebbenome Iulio Silvio Postumo, il quale Lavinia, figliuola del re Latino,essendo rimasa gravida d'Enea, partorí dopo la morte d'Enea in unaselva. Per la qual cosa ella il cognominò Silvio; e Postumo fuchiamato, percioché dopo la umazione del padre, cioè poi che 'l padrefu messo sotterra, era nato: e cosí si chiamano tutti quelli che dopola morte de' padri loro nascono.

«Corruttibile ancora», cioè ancora vivo (percioché chiunque nellapresente vita vive è corruttibile, cioè atto a corruzione), «adimmortale», cioè eterno, «secolo», cioè mondo.

«Secolo», secondo il suo proprio significato, è uno spazio di tempo dicento anni, secondo il romano uso: ma in questa parte non lo 'ntendel'autore per ispazio di tempo, ma, seguendo l'uso del parlarefiorentino, nel quale, volendo dire «in questo mondo», spesso si dice«in questo secolo», rivolgendo il nome del tempo in nome del luogodove il tempo s'usa, cioè nel mondo, chiama «secolo» l'altro mondo,cioè lo 'nferno, il quale noi similmente assai spesso chiamiamo«l'altro mondo», il che la sacra Scrittura similemente fa alcunavolta. [Il quale del presente mondo dicendo, dice san Paolo: «Pie etiuste viventes in hoc saeculo»; e dell'altra vita parlando:«Nescimus in quos fines saeculi devenerunt».]

«Andò, e fu sensibilmente»: volendo per questo s'intenda Enea, non pervisione o per contemplazione essere andato in inferno, ma col verocorpo sensibilmente. E questo prende l'autore da ciò che Virgilioscrive nel sesto dell'Eneida, nel qual dice che, essendo Enea, poiche di Cicilia si partí, pervenuto nel seno di Baia, e quivi in assaitranquillo mare, dando per avventura riposo a' suoi compagni, edisideroso di sapere quello che di questa sua peregrinazione glidovesse avvenire; essendo andato al lago d'Averno, dove avea uditoessere l'oraculo della sibilla cumana ed essa altresí, la pregò che ininferno il menasse al padre; e, dietro alla sua guida, vivo e conl'arme discese: e, per quello passando, pervenne ne' campi Elisi, ládove quegli, che in istato di beatitudine, erano secondo l'anticoerrore. E perciò dice l'autore che egli andò «sensibilmente».

«Perché, se l'avversario d'ogni male», cioè Iddio, «Cortese fu», dilasciarlo andare senza alcuna offensione, non è maraviglia, «pensandol'alto effetto Che uscir dovea di lui», cioè d'Enea, «e 'l chi, e 'lquale», [cioè Cesare dettatore, o Ottaviano imperadore. De' qualiciascun fu da molto, e ciascun si potrebbe dire essere stato fondatoredella imperial dignitá; percioché, quantunque Cesare non fosseimperadore, egli fu dettatore perpetuo, e fu il primo, dopo i recacciati di Roma, il quale recò nelle sue mani violentemente tutto ilgoverno della republica. Del quale occupamento seguí il triumvirato diOttaviano e de' compagni; e da quello, essendo da Ottaviano, per lorobestialitá, posti giú dell'uficio del triumvirato Marco Antonio eMarco Lepido, e rimaso egli solo triumviro, ne seguí, o per tacitaforza, o pure per ispontaneo piacere del senato e del popolo di Roma,l'essergli il governo della republica commesso, quando cognominato fuAugusto; dopo il quale sempre fu servato poi, uno dopo l'altro, esserein quella dignitá sustituiti e chiamati imperadori. E risponde quil'autore ad una tacita quistione. Potrebbe alcun dire:—Come déi tu,che se' cristiano, credere che Iddio fosse piú liberale ad un paganodi lasciarlo andare vivo in inferno, che a te?—A che egli e nelleparole predette risponde e in quelle che seguono, dicendo:]

«Non pare indegno» l'avere Iddio sostenuto l'andata d'Enea «ad uomod'intelletto», il cui giudicio è ragionevole e giusto, e massimamenteavendo riguardo «Ch'ei», Enea, «fu dell'alma», cioè eccelsa, «Roma»,la quale tutto il mondo si sottomise, «e dello 'mpero», cioè dellasignoria di Roma, o vogliam dire della dignitá spettante a quelli chenoi chiamiamo imperadori, de' quali fu il primo Ottaviano, disceso permolti mezzi della schiatta d'Enea, «Nell'empireo ciel», cioè nel cielodella luce dove si crede essere il solio della divina maestá; [echiamasi «empireo», cioè igneo, percioché «pir» in greco, viene adire «fuoco» in latino: e vogliono i nostri santi quello dirsi«empireo», percioché egli arde tutto di perfetta caritá;] «per padreeletto». Vuol per questo sentir l'autore per divina disposizioneessere d'Enea seguito quello che leggiamo essere stato operato per lisuoi successori.

E dice qui Enea esser padre di Roma e dello 'mperio, percioché quegliche di lui nacquero per sedici re, infino a Numitore, che fu l'ultimodella schiatta d'Enea, regnarono in Alba per ispazio di quattrocentoventiquattro anni. Poi, essendo di Numitore re nata Ilia, e Amulio,fratello di Numitore, piú giovane d'etá, tolto a Numitore il regno,fece uccidere un figliuolo di Numitore chiamato Lauso; e per torre adIlia speranza di figliuoli, la fece vergine vestale, alle quali erapena d'essere sotterrate vive, se in adulterio fossero state trovate.Nondimeno questa Ilia, come che ella si facesse, [o con cui ella sigiacesse,] ella ingravidò, e partorí due figliuoli ad un parto, deiquali l'uno fu chiamato Romolo e l'altro Remulo: li quali, essendogiá, per comandamento di Amulio, Ilia stata sotterrata viva, furonogittati, da persone mandate dal re a ciò, non nel corso del Tevero, alquale, perché cresciuto era, non si poteva andare, ma alla riva: e 'lfiume scemato, ed essi trovati vivi da una chiamata Acca Laurenzia,moglie d'un pastore del re, chiamato Faustulo, furono raccolti enutricati, niente sappiendone il re, e cosí nominati da Faustolo. Liquali cresciuti, ed avendo reale animo, ed essendo pastori e capitanie maggiori di ladroni e d'uomini violenti, ed avendo da Faustulosentito cui figliuoli erano; composto il modo tra loro, fu l'un diloro preso e menato davanti dal re e accusato; e l'altro, attendendoil re ad udire la querela, feritolo di dietro, l'uccise, e a Numitoreloro avolo, che in villa si stava, restituirono il reame; ed essi,tornatisene lá dove allevati erano stati, fecero quella cittá, laqual, da Romolo dinominata Roma, divenne donna del mondo. Per la qualcosa appare Enea essere stato padre di Roma.

Appresso, partitosi Iulio Proculo, il quale fu bisnipote di IulioSilvio e di Romulo, re d'Alba, e discendente, come detto è, d'Enea, evenutosene con Romolo ad abitare a Roma; quivi fondò la famiglia de'Giuli secondo che Eusebio, in libro Temporum, dice: li quali poi inRoma, per continue successioni perseverando, infino a Gaio IulioCesare pervennero. Il quale, non avendo alcun figliuolo, s'adottò infigliuolo Ottaviano Ottavio [li cui antichi, secondo che diceSvetonio, De XII Caesaribus, furono di Velletri], figliuolo d'unasua sirocchia carnale, chiamata Iulia: ed in costui poi fu di pariconsentimento del senato e del popolo di Roma, come davanti è detto,commesso il governo della republica, e fu cognominato Augusto; e fu ilprimo imperadore, e de' discendenti di Enea. E cosí Enea fu similmentepadre dello 'mperio, cioè della dignitá imperiale.

«La quale», cioè Roma, «e 'l quale», imperio, «a voler dir lo vero,Fûr stabiliti», ordinati per evidenzia da Dio, «per lo loco santo»,cioè per la sedia apostolica, «U' siede il successor», cioè il papa,«del maggior Piero», cioè di san Piero apostolo, il quale chiama«maggiore» per la dignitá papale e a differenza di piú altri santiuomini nominati Piero. E che questo fosse preveduto e ordinato da Dio,appare nelle cose seguite poi, tra le quali sappiamo Costantinoimperadore, mondato della lebbra da san Silvestro papa, lasciò Roma ela imperial sedia al papa, e andossene in Costantinopoli; e oltre aquesto, ordinò e fe' i suoi successori sempre con la loro potenzaesser presti contro a ciascheduno il quale infestasse o turbasse laquiete della Chiesa di Dio e dei pastori di quella: per chemeritamente dice l'autore essere stabiliti e Roma e lo 'mperio per losanto luogo dell'apostolica sede. E però conoscendo Iddio, al qualenulla cosa è nascosa, questo, non è da maravigliare se esso fu cortesead Enea di lasciarlo andare in inferno; e massimamente sappiendo cheesso dovea laggiú udir cose, le quali l'animerebbero a dover dareopera a quello di che dovea questo seguire.

E poi soggiugne l'autore: «Per questa andata», di Enea in inferno,«onde», cioè della quale, «tu mi dái vanto», cioè promessione, dicendodi menarmi laggiú (benché in alcuni libri si legge: «Per questaandata, onde tu gli dái vanto», ad Enea, commendandolo ed estollendoloper quella, lá ove tu di' nel sesto dell'Eneida:

Noctes atque dies patet atri ianua Ditis sed revocare gradum superasque evadere ad auras, hoc opus, hic labor est. Pauci, quos aequus amavit Iuppiter, aut ardens evexit ad aethera virtus, Dis geniti potuere:

per le quali parole estimo migliore questa seconda lettera che laprima), «Intese cose», Enea, «che furon cagione Di sua vittoria», inquanto, riempiendolo di buona speranza, il fecero animoso all'impresacontro a Turno re de' rutuli, del quale avuto vittoria, e giá inItalia divenuto potente, ne seguí l'effetto che poco avanti si legge,cioè «del papale ammanto». Vuol qui l'autore per parte s'intenda iltutto, cioè per lo papale ammanto tutta l'autoritá papale. Ed è daintender qui che egli in quelle cose che da Anchise intese, comeVirgilio nel sesto dell'Eneida mostra, cominciando quivi:

Nunc age, Dardaniam prolem quae deinde sequatur gloria, ecc.,

non udí cosa alcuna del papale ammanto, ma udí cose le quali poi inprocesso di tempo, come detto è, furon cagione che Roma divenissesedia del papa, come lungamente giá fu.

«Andovvi poi», cioè lungo tempo dopo Enea, «il vaso d'elezione», cioèsan Paolo, il quale non andò in inferno come Enea, ma fu rapito inparadiso, lá dove tu di' che io andrò se io vorrò. La qual cosa èvera, sí come egli medesimo testimonia, affermando sé aver vedute cosedelle quali non è lecito agli uomini di favellare: e percioché Iddiol'aveva eletto per vaso dello Spirito santo, conoscendo il frutto chedelle sue predicazioni doveva uscire, non è mirabile se Iddio di cosífatta andata gli fu cortese, e massimamente considerando che egliv'andò, «Per recarne», quaggiú tra noi, «conforto a quella fede»,cristiana, «Ch'è principio alla via di salvazione». E questo ècertissimo, peroché, non possendosi gli alti segreti della divinitáper alcuna nostra ragione conoscere, è di necessitá, innanzi ad ognialtra cosa, che per fede si credano. Sí che ben dice l'autore la fedecattolica esser principio alla via di salvazione; alla quale, ancoradebole e fredda nelle menti di molti giá cristiani divenuti, sanPaolo, con la dottrina appresa nel celeste regno, recò molto conforto,riscaldando colle sue predicazioni e con l'epistole le menti fredde equasi ancora dubitanti.

«Ma io perché venirvi?» ne' luoghi ne' quali tu mi prometti dimenarmi, quasi dica:—per qual mio merito?—«o chi 'l concede?», cioèche io in questi luoghi debba venire; volendo per questo intendere,come appresso dimostra, esser temeraria cosa l'andare in alcun segretoluogo, senza alcun merito o senza licenza.

«Io non Enea», al quale Iddio fu cortese per le ragioni giá mostrate.Chi Enea fosse, ancora che a molti sia noto, nondimeno piúdistesamente si dirá appresso nel quarto canto di questo libro, eperò, quanto è al presente, basti quello che detto n'è.

«Io non Paolo sono». San Paolo fu del tribo di Beniamin, e fu perpatria di Tarso cittá di Cilicia: [e avanti che divenisse cristiano,fu nelle scienze mondane assai ammaestrato, e fu ferventissimoperseguitore de' cristiani. Poi, chiamato da Dio al suo servigio, fumirabilissimo dottore, e con le sue predicazioni molte nazioniconvertí al cristianesimo, molti pericoli e molte avversitá di mare edi terra e d'uomini sostenne per lo nome di Cristo, e ultimamente,imperante Nerone Cesare, per lo nome di Cristo ricevette il martirio;e, percioché era cittadino di Roma, gli fu tagliata la testa, e nonfu, come san Piero, crocefisso. Di costui predisse Iacob, moltecentinaia d'anni avanti, in persona di Beniamin suo figliuolo, e delquale egli doveva discendere: «Beniamin, lupus rapax, mane devoratpraedam et vespere dividit spolia». Il quale vaticinio appartenere asan Paolo assai chiaramente si vede, percioché esso fu lupo rapace: ela mattina, cioè nella sua giovanezza, divorò la preda, cioè uccise icristiani; e al vespro, cioè nella sua etá piú matura, divenutoservidore a Cristo, divise le spoglie.] Il quale da Dio fu eletto perconforto della nostra fede.

«Me degno a ciò». Quasi voglia dire: perché io non sia Enea né sanPaolo, io potrei per alcun altro gran merito credere d'esser degno divenirvi, ma io non so; e, per questo, d'esser di venir degno «né io néaltri il crede».

Appresso questo, conchiude al dubbio suo, dicendo: «Per che», cioè pernon esserne degno, «se del venire», lá dove tu mi vuoi menare, «iom'abbandono», cioè mi metto in avventura, «Temo che la venuta», mia,«non sia folle», cioè stolta, in quanto male e vergogna me ne potrebbeseguire. E quinci rende Virgilio, al quale egli parla, attento a doverguardare al dubbio il quale egli muove, in quanto dice: «Se' savio,e», per questo, «intendi me' ch'i' non ragiono», cioè che io non ti sodire.—E, appresso questo, per una comparazione liberamente aprel'animo suo dicendo: «E quale è quei che disvuol», cioè non vuole,«ciò ch'e' volle», poco avanti, «E per nuovi pensier», sopravvenuti,«cangia proposta», quello che prima avea proposto di fare, «Sí che dalcominciar tutto si tolle; Tal mi fec'io in quella oscura costa»;percioché mostra non fossero ancor tanto andati, che usciti fosserodel luogo oscuro, nel quale destandosi s'era trovato. «Per che,pensando»; mostra la cagione perché divenuto era tale, quale è coluiil quale disvuole ciò ch'e' volle, e dice che, pensando non fosse ilsuo andare pericoloso, «consumai», cioè finii, «l'impresa», che fattaavea di seguir Virgilio. «Che fu, nel cominciar, cotanto tosta», cioèsúbita, in quanto senza troppo pensare aveva risposto a Virgilio, comenel canto precedente appare, pregandolo che il menasse.

[Lez. VIII]

—«Se io ho ben la tua parola intesa»—In questa quarta parte delpresente canto, dimostra l'autore qual fosse la risposta fattagli daVirgilio: nella qual discrive come e da cui e perché e donde Virgiliofosse mosso a dover venire allo scampo suo. Dice adunque: «Rispuose»,a me, «del magnanimo quell'ombra», cioè quell'anima di Virgilio, ilquale cognomina «magnanimo», e meritamente, percioché, sí comeAristotile nel quarto della sua Etica dimostra, colui è da dire«magnanimo», il quale si fa degno d'imprendere e d'adoperare le grancose. La qual cosa maravigliosamente bene fece Virgilio in quelloesercizio, il quale alla sua facultá s'apparteneva: perciochéprimieramente, con lungo studio e con vigilanza, si fece degno didover potere sicuramente ogni alta materia imprendere, per dovered'essa in sublime stilo trattare; e, fattosene col bene adoperaredegno, non dubitò d'imprenderla e di proseguirla e recarla aperfezione. E ciò si fu di cantare d'Enea e delle sue magnificheopere, in onore d'Ottaviano Cesare: le quali in sí fatto e sí eccelsostilo ne discrisse, che né prima era stato, né fu poi alcun latinopoeta che v'aggiugnesse.—«Se io ho ben la tua parola intesa», cioè iltuo ragionare, il quale veramente aveva bene inteso, «L'anima tua è daviltate offesa», cioè occupata da tiepidezza e da pusillanimitá, laquale non che le maggiori cose, ma eziando quelle che a colui, nelquale ella si pon, si convengono, non ardisce d'imprendere. «La qual»,viltá, «molte fiate l'uomo ingombra», cioè impedisce, «Sí che d'onrataimpresa» [poi fatta] «l'arivolve», [dal]la sua misera e tiepidaoppinione, «Come», ingombra, «falso veder», parendo una cosa perun'altra vedere (il che addiviene per ricevere troppo tosto nellavirtú fantastica alcuna forma, nella immaginativa subitamente venuta),«bestia quand'ombra», cioè adombra, e temendo non vuole piú avantiandare. E vuolsi questa lettera cosí ordinare: «la quale molte fiateingombra l'uomo, come falso vedere fa bestia, quand'ombra, e d'onorataimpresa l'arivolve».

Poi séguita: «Da questa téma», la quale tu hai di venire lá dove dettot'ho, «accioché tu ti solve», cioè sciolghi, sí che ella non ti tengapiú impedito, «Dirotti perch'i' venni, e», dirotti, «quel ch'iointesi, Nel primo punto che di te mi dolve», cioè che io ebbicompassion di te.

«Io era tra color che son sospesi», in quanto non sono demersi nellaprofonditá dello 'nferno, né nella profonda miseria de' supplici piúgravi, come sono molti altri dannati; né sono non che in gloria, ma inalcuna speranza di minor pena, che quella la qual sostengono. Poisegue Virgilio: ed essendo quivi, «E donna mi chiamò beata e bella».Dove, per mostrare piú degna colei che il chiamò, le pone tre epiteti:prima dice che era «donna», il qual titolo, come che molte, anzi quasitutte, oggi usino le femmine, a molte poche si confá degnamente; edimostrasi per questo la condizione di costei non esser servile. Dice,oltre a questo, che ella era «bella»; e l'esser bella è singular donodella natura, il quale, quantunque nelle mondane donne sia fragile epoco durabile, nondimeno da tutte è maravigliosamente disiderato;senza che egli è pure alcun segno di benivole stelle operatesi nellaconcezione di quella cotale, che questo dono riceve; e quasi non maisogliono i superiori corpi questo concedere, ch'egli non sia d'alcunaaltra grazia accompagnato: per la qual cosa paiono piú venerabiliquelle persone, che hanno bello aspetto, che gli altri. Appresso diceche era «beata», nella qual cosa racchiude tutte quelle cose, le qualidebbano potere muovere a' suoi comandamenti qualunque personarichiesta; peroché chi è beato non è verisimile dovere d'alcuna cosa,se non onestissima, richiedere alcuno; e può chi è beato remunerare; edé' si credere lui esser grato verso chi a' suoi piacer si dispone. Lequali cose Virgilio, sí come avvedutissimo uomo, conoscendo, dice:ella era «Tal che di comandare i' la richiesi»; cioè offersimi, comeella mi chiamò, presto ad ogni suo comandamento. E ben doveva questadonna esser degna di reverenza, quando tanto uomo, quanto Virgilio fu,si proffera a lei.

Poi segue continuando il suo dire, e ancora piú degna la dimostra,dicendo: «Lucevan gli occhi suoi piú che la stella». Dé'si quiintendere l'autore volere preporre la luce degli occhi di questa donnaalla luce di quella stella ch'è piú lucente. «E cominciommi a dir»,questa donna, «soave e piana»: nel qual modo di parlare si comprendela qualitá dell'animo di colui che favella dovere essere riposata, nonmossa da alcuna passione, e, oltre a ciò, in questo disegna l'attodell'onesto, il quale in ogni suo movimento dee esser soave eriposato. «Con angelica voce» aggiugne un'altra cosa, mirabilmenteopportuna nelle donne, d'aver la voce piacevole, né piú sonora né menoche alla gravitá donnesca si richiede; e queste cosí fatte voci franoi sono chiamate «angeliche». E, oltre a questo, l'attribuisceVirgilio questa voce in testimonio della beatitudine di lei, perciochéestimar dobbiamo alcuna cosa deforme non potere essere in alcun beato.«In sua favella», cioè in fiorentino volgare, non ostante che Virgiliofosse mantovano. Ed in ciò n'ammaestra alcuno non dovere la suaoriginal favella lasciare per alcun'altra, dove necessitá a ciò nolcostrignesse. La qual cosa fu tanto all'animo de' romani, che essi,dove che s'andassero, o ambasciadori o in altri ufici, mai in altroidioma che romano non parlavano; e giá ordinarono che alcuno, di cheche nazion si fosse, in senato non parlasse altra lingua che laromana. Per la qual cosa assai nazioni mandaron giá de' loro giovaniad imprendere quello linguaggio, accioché intendesser quello e inquello sapessero e proporre e rispondere.

Ma potrebbesi qui muovere un dubbio, e dire:—Come sai tu che questadonna parlasse fiorentino?—A che si può rispondere apparire in piúluoghi, in questo volume, Beatrice essere stata una gentildonnafiorentina, la quale l'autore onestamente amò molto tempo; e perquesto comprendere e dire lei in fiorentin volgare aver parlato.

E percioché questa è la primiera volta che di questa donna nelpresente libro si fa menzione, non pare indegna cosa alquantomanifestare di cui l'autore, in alcune parti della presente opera,intenda nominando lei, conciosiacosaché non sempre di leiallegoricamente favelli. Fu adunque questa donna (secondo la relazionedi fededegna persona, la quale la conobbe, e fu per consanguinitástrettissima a lei) figliuola d'un valente uomo chiamato FolcoPortinari, antico cittadino di Firenze: e, come che l'autore sempre lanomini Beatrice dal suo primitivo, ella fu chiamata Bice; ed egliacconciamente il testimonia nel Paradiso, lá dove dice: «Ma quellareverenza, che s'indonna Di tutto me, pur per B e per ice». E fu dicostumi e d'onestá laudevole quanto donna esser debba e possa, e dibellezza e di leggiadria assai ornata; e fu moglie d'un cavaliere de'Bardi, chiamato messer Simone; nel ventiquattresimo anno della sua etápassò di questa vita, negli anni di Cristo milleduecentonovanta. Fuquesta donna maravigliosamente amata dall'autore. Né cominciò questoamore nella loro provetta etá, ma nella loro fanciullezza; peroché,essendo ella d'etá d'otto anni e l'autore di nove, sí come eglimedesimo testimonia nel principio della sua Vita nuova, primapiacque agli occhi suoi. Ed in questo amore con maravigliosa onestáperseverò mentre ella visse. E molte cose in rima, per amore ed inonor di lei giá compose; e, secondo che egli nella fine della suaVita Nuova scrive, esso in onor di lei a comporre la presente operasi dispose; e come appare e qui e in altre parti, assaimaravigliosamente l'onora.

—«O anima». Qui cominciano le parole, le quali Virgilio dice esserglistate dette da questa donna, nelle quali la donna, con trecommendazioni di Virgilio, si sforza di farlosi benivolo edubbidiente, dicendo primieramente: «cortese», il che in qualunque,quantunque eccellente uomo e onorevole, titolo è da disiderare,percioché in ciascuno nostro atto è laudevole cosa l'esser cortese;quantunque molti vogliano che ad altro non si riferisca l'essercortese, se non nel donare il suo ad altrui; «mantovana», il che ladonna dice per mostrare che ella il conosca, e a lui voglia dire edica, e non ad un altro; «La cui fama nel mondo ancora dura», cioèpersevera. E questa è la seconda cosa per la quale la donna si vuolfare benivolo Virgilio, mostrandogli lui essere famoso.

[È la Fama un romore generale d'alcuna cosa, la qual sia stataoperata, o si creda essere stata, da alcuno, sí come noi sentiamo eragioniamo delle magnifiche opere di Scipione Africano, dellalaudevole povertá di Fabrizio e della fornicazione di Didone e disimiglianti: la qual finge Virgilio, nel quarto del suo Eneida,essere stata figliuola della Terra e sorella di Ceo e d'Anchelado, elei la Terra, commossa dall'ira degl'iddii, aver partorita. Della qualsi racconta una cotal favola, che, conciofossecosaché, per desideriod'ottenere il regno Olimpo, fosse nata guerra tra i Titani, uominigiganti, figliuoli della Terra, e Giove; si divenne in questo, chetutti i figliuoli della Terra, li quali inimicavan Giove, furon daldetto Giove e dagli altri iddii occisi: per lo qual dolore la Terracommossa e disiderosa di vendetta, conciofossecosaché a lei nonfossero arme contro a cosí possenti nemici, accioché con quelle forze,le quali essa potesse, alcun male contro agl'iddii facesse, costrettoil ventre suo, ne mandò fuori la Fama, raccontatrice delle scellerateoperazioni degl'iddii. La forma della quale Virgilio nel preallegatolibro discrive, e dice:

Fama, malum quo non aliud velocius ullum, ecc.,

seguendo che ella vive per movimento, e andando acquista forze, enella prima tema è piccola, ma poi se medesima lieva in alto, e quindiva su per lo suolo della terra e il suo capo nasconde tra' nuvoli; ech'ella è in su i piè velocissima, e ha alie molto ratte, ed è unmostro orribile e grande; e quante penne ha nel corpo suo, tanti occhin'ha sotto che sempre vegghiano, e tante lingue e tante bocche lequali continuamente parlano, e tanti orecchi li quali sempre tienelevati; e vola la notte per lo mezzo del cielo e per l'ombra dellaterra, stridendo, senza dormir mai; e 'l dí siede ragguardatrice soprala sommitá delle case, e spaventa le cittá grandi: tenace cosí de'composti mali, come rapportatrice del vero.]

[Ma, se io, avendo la sua origine e la forma e gli effetti secondo lefizion poetiche discritte, non aprissi quello che essi sotto questacrosta sentano, potrei forse meritamente essere ripreso. Dico adunqueche gl'iddii, per l'ira de' quali la Terra si commosse e turbò, è daintendere intorno ad alcuna cosa l'operazion delle stelle, le qualigli antichi, erronei, chiamavano «iddii», avendo riguardo alla loroeternitá e alla loro integritá, che alcuna corruzione non ricevea. Lequali stelle e corpi superiori, senza alcun dubbio per la potenza loroattribuita dal creatore di quelle, adoperano in noi secondo ledisposizioni delle cose riceventi le loro impressioni; e da questoavviene che il fanciullo, o vogliam dire il giovane, per loro opera èaumentato, conciosiacosaché colui che invecchia sia diminuito, econciosiacosaché mai si scostino dalla ragione dell'ottimo e perfettogovernatore. Alcuna volta fanno cose, le quali dal repentino e falsogiudicio de' mortali pare che abbino, sí come adirati, fatte, comequando per loro opera muore un giusto re, un felice imperadore, uncaro e opportuno uomo al ben comune, un savissimo uomo, o un nobile edegregio cavaliere: e per questo, cioè per lo fare venir meno i solenniuomini, pare che come adirati contro a loro faccino.]

[Dissono li poeti gl'iddii essere adirati, avendo uccisi coloro liquali si doveano perpetuare; ma che di questo séguita che la Terra sene commuove, cioè l'animoso uomo (percioché tutti siamo di terra, e interra torniamo), e sforzasi d'adoperar quello di che nasca nome e famadi lui, la quale sia vendicatrice della sua futura morte; accioché,quando quello avverrá che i corpi superiori facciano venire al suofine il suo mortal corpo, viva di lui, per li suoi meriti (eziandionon volendo i corpi superiori), il nome suo e la fama delle sueoperazioni, non altrimenti che esso vivo fosse. E in quanto dicequesta nella prima téma esser piccola, non ce ne inganniamo,percioché, quantunque grandi sien l'opere delle quali ella nasce,nondimeno paiono da un temore degli uditori cominciare a spandersi.Poi, in quanto dice Virgilio essa elevarsi ne' venti, niun'altra cosavuol dire se non essa divenire in piú ampio favellio delle genti; ovogliam, per quel, sentire essa mescolarsi ne' ragionamenti dellegenti mezzane. E, in quanto poi discende nel suolo della terra,intende il poeta lei mescolarsi nel vulgo; e cosí, quando mette ilcapo ne' nuvoli, dobbiamo intendere lei dovere mescolarsi ne'ragionamenti de' prencipi e degli uomini sublimi. E l'avere l'alie e ipiè veloci assai manifestamente dimostra il suo presto trascorso d'unaparte in un'altra; e per gli occhi, li quali le discrive molti, senteagli occhi della Fama ogni cosa pervenire, e cosí agli orecchi. E leinon tacer mai, dove che ella si favelli, o in pubblico o in occulto, oin un luogo o in un altro; lei non dormir mai, e volar la notte per lomezzo del cielo o per l'ombra della terra: non credo altro intenderesi debbia se non il suo continuo andamento di questo in quello e, perli suoi rapportamenti vari e molti, metter tremore ne' popoli, e perconseguente fare guardar le terre e alle porti e sopra le torri farestare le guardie e gli speculatori. E, percioché essa non cura didistinguere il vero dal falso, è contenta di rapportare ciò che ellaode. Ma, in quanto dicono costei dalla Terra essere generata perdovere i peccati e le disoneste cose degl'iddii raccontare, peralcun'altra cosa non credo esser stato fitto se non per dimostrare levendette degli uomini men possenti, li quali, non potendo altro farea' grandi uomini, s'ingegnano, parlando mal di loro, di farli venirein infamia, e per conseguente in disgrazia delle genti. Figliuoladella Terra è detta, percioché dell'opere sole, che sopra la terra sifanno, si genera la fama. E che essa non abbia padre credo avvenire daquesto: per lo non sapersi donde il piú delle volte nasca il principiodel ragionare di quello che poi fama diventa; il che se si sapesse,direbbe l'uomo quel cotale essere il padre della fama.]

La qual cosa, quantunque ad ogni uomo, il quale ha sentimento, moltopiaccia, sopra a tutti gli altri piacque a' gentili, li quali nonavendo alcuna notizia della beatitudine celestiale, la quale Iddioconcede a coloro li quali adoperan bene, quegli cotali, li qualivirtuosamente adoperavano, a fine d'acquistar fama il facevano, equella vedersi avere acquistata con somma letizia ascoltavano.

Dunque mostra in questo la donna di conoscere da quali cose si dovevafar benivolo Virgilio. E poi soggiugne la terza, dicendo: «E durerá»,questa tua fama, «mentre il mondo lontana», ponendo qui il presentetempo per lo futuro, in quanto dice «lontana» per «lontanerá», cioè siprolungherá. E questo per la consonanza della rima si concede. Ed èquesta terza cosa quella che piú piace a coloro li quali famaacquistano, che essa dopo la lor morte duri lunghissimo tempo,estimando che quanto piú dura, piú certo testimonio renda della virtúdi colui che guadagnata l'ha. Ed in questo la donna gli compiace, inquanto gli dice quello che gli è grato ad udire; e, oltre a ciò,dicendo quella dovere essere perpetua, mostra di credere lui esserestato per sua grandissima virtú degno d'eterna fama.

[Ma, percioché qui di questa fama si fa menzione, e ancora in piúparti nel processo se ne fará, e di sopra abbiamo scritta la suaorigine, estimo sia commendabile il mostrare, anzi che piú procediamo,che differenza sia tra onore e laude e fama e gloria, accioché, dovenelle cose seguenti menzione se ne fará, s'intenda in che differentisieno; e questo dico, percioché giá alcuni indifferentemente poserol'un nome per l'altro, de' quali forse furono di quegli che nonsapevano la differenza. Dico adunque che «onore» è quello il quale adalcuno in presenza si fa, o meritato o non meritato che l'abbia; comeche il meritato sia vero onore e l'altro non cosí: sí come a ScipioneAfricano, il quale avendo magnificamente per la republica contro aCartagine adoperato, tornando a Roma, gli fu preparato il carrotriunfale e fattigli tutti quegli onori che al triunfo aspettavano,che eran molti. E questo era vero e debito onore, che per virtú dicolui che il riceveva s'acquistava. A dimostrazione della qual cosa èda sapere che Marco Marcello, nel quinto suo consolato, secondo chedice Valerio, avendo vinto primieramente Clastidio, e poi Seragusa inSicilia, e botato in questa guerra un tempio alla Virtú e all'Onore,fu per lo collegio dei pontefici giudicato a due deitá non potersi untempio solo farsi; percioché, se alcuna cosa miracolosa in quelloavvenisse, non si saprebbe a quale delle due deitá ordinare isacrifici debiti e le supplicazioni. E perciò fu ordinato che aciascuna delle due deitá si facesse un tempio; li quali furono fatticongiunti insieme in questa guisa: che nel tempio fatto in reverenzadell'Onore non si poteva entrare, se per lo tempio della Virtú nons'andasse. E questo fu fatto a dare ad intendere che onore non sipoteva acquistare se non per operazion di virtú. È, oltre a questo,fatto onore ad alcuni, li quali per loro meriti nol ricevono, ma peralcuna dignitá loro conceduta, o per la memoria de' lor passati, oforse per la loro etá: questi sono, andando, messi innanzi, postinelle prime sedie, e in simili maniere onorati. Le «laude», comel'onore si fa in presenza a colui che meritato l'ha, cosí si diconolui essendo assente; percioché, se lui presente si dicessero, nonlaude ma lusinghe parrebbono. La «gloria» è quella che delle ben fattecose da' grandi e valenti uomini, essendo lor vivi, si cantano e sidicono, e l'essere con ammirazione della moltitudine riguardati emostrati e reveriti, come fu giá Giunio Bruto, avendo cacciatoTarquinio re e liberata Roma dalla sua superbia, e Gaio Mario, avendovinto Giugurta e sconfitti i cimbri e i téutoni. «Fama» è quelloragionare che lontano si fa delle magnifiche opere d'alcun valenteuomo, e che dopo la sua vita persevera nelle scritture di coloro liquali in nota messe l'hanno, spandendosi per lo mondo e molti secolicontinuando; come ancora e udiamo e leggiamo tutto il dí di Pompeomagno, di Giulio Cesare dettatore, d'Alessandro re di Macedonia e disimiglianti.]

[Ma da tornare è alla intralasciata materia. E dico che,] avendoquesta donna captata la benivolenzia di Vergilio, gli comincia adichiarare il suo disiderio dicendo: «L'amico mio», cioè Dante, ilquale lei, mentre ella visse, come detto è, assai tempo e onestamenteavea amata; e però, sí come l'autore nel Purgatorio dice:

amore
acceso da virtú, sempre altro accese,
sol che la fiamma sua paresse fuore,

mostra dovere egli essere stato onestamente amato da lei; dal qualeonesto amore è di necessitá essere stata generata onesta e laudevoleamistá, la quale esser vera non può, né è durabile, se da virtúcausata non è: e cosí mostra che fosse questa, in quanto la donna, dilui parlando, il chiama «suo amico». E qui non senza cagione, lasciatostare il proprio nome, il chiama la donna «amico»: la quale è perdimostrare, per la virtú di cosí fatto nome, l'autore le sia moltoall'animo e per mostrare in ciò che ella non venga a porgere i preghisuoi per uomo strano o poco conosciuto da lei. E aggiugne «e non dellaventura», cioè della fortuna, percioché infortunato uomo fu l'autore;e questo aggiugne ella per mettere compassion di lui in Virgilio, ilquale intende di richiedere che l'aiuti, percioché degl'infelici sivuole aver compassione. «Nella diserta piaggia», della qual di sopra èpiú volte fatta menzione, «è impedito», dalle tre bestie, delle qualidi sopra dicemmo, «Sí», cioè tanto, «nel cammin, che vòlto è», aritornarsi nella oscuritá della valle, «per paura», di quelle bestie.

«E temo che non sia giá sí smarrito, Ch'io mi sia tardi al soccorso»,di lui, «levata, Per quel ch'io ho di lui nel cielo udito», da Lucia.E pone la donna queste parole per avacciare l'andata di Virgilio; eappresso ancora il sollecita dicendo: «Or muovi, e con la tua parolaornata» (commendalo qui d'eloquenza, la quale ha grandissime forze nelpersuadere quello che il parlatore crede opportuno), «E con ciò che èmestiere al suo campare, L'aiuta», da quelle bestie che l'impediscono,«sí», cioè in tal maniera, «ch'io ne sia consolata».

E, dette queste parole, manifesta il nome suo, dicendo: «Io sonBeatrice che ti faccio andare». E, detto il suo nome, gli dice ondeella viene, per mandarlo in questo servigio, accioché Virgilio conoscamolto calernele; percioché senza gran cagione non è il partirsi alcunode' luoghi graziosi e dilettevoli, e andare in quelli ne' quali non èaltra cosa che dolore e miseria. E dice: «Vegno del luogo», cioè diparadiso, «ove tornar disío». E quinci gli apre la cagione che diparadiso l'ha fatta discendere in inferno, dicendo: «Amor» [grandisono le forze dell'amore: «Aquae multae non potuerunt extinguerecharitatem»] «mi mosse», lá onde io era, ed egli è quegli «che mi faparlare» e pregarti.

Appresso a questo, accioché Virgilio non sia tardo all'andare, comepersona che guiderdone non aspetta della fatica, si dimostra verso luidovere essere grata, dicendo: «Quando sarò dinanzi al Signor mio»,cioè a Dio, «Di te mi loderò sovente a Lui»:—e cosí non una volta, mamolte, nella multiplicazion delle quali si mostrerá esserle statogratissimo il servigio da lui ricevuto. E quantunque questoguiderdone, il quale ella promette, alcuna cosa non monti alla salutedi Virgilio, pur si dee credere piacergli; e questo è, perciochés'egli gli è a grado che la fama di lui tra gli uomini favelli, quantomaggiormente si dee credere essergli caro che una cosí fatta donna nelcospetto di Dio il commendi e lodisi di lui?

«Tacquesi allora», detto questo, «e poi comincia' io», a dire, e(supple) dissi:—«O donna di virtú, sola per cui», cioè per cuisola, «L'umana spezie»: è l'umana generazione spezie di questo genereche noi diciamo «animali»; «eccede», cioè trapassa di virtú, ed, oltrea ciò, in tanto, che essi divengono atti a cognoscere e cognosconoIddio, il quale alcun altro animale non cognosce; «ogni contento»,cioè ogni cosa contenuta, «Dal cielo, c'ha minor li cerchi sui», ilquale è quel della luna, che, percioché piú che alcun altro è vicinoalla terra, è di necessitá minore che alcuno degli altri, e perciò hai suoi cerchi, cioè le sue circonvoluzioni, minori, infra' quali glielementi ed ogni cosa elementata si contiene, e ancora i demòni el'anime de' dannati. Le quali cose tutte, per l'anima razionale elibera, trapassa l'uomo d'eccellenza.

«Tanto m'aggrada 'l tuo comandamento». Qui si dimostra Virgilio assaigraziosamente disposto al comandamento della donna, mostrando che eglinon solamente disidera d'ubbidirla prestamente, ma dice: «Chel'ubbidir», al comandamento, «se giá fosse», in atto, «m'è tardi». Eperò segue; «Piú non t'è uopo aprirmi il tuo talento»; quasi dica:assai hai detto, ed io son presto.

Ma nondimeno le muove un dubbio, dicendo: «Ma dimmi la cagion, che nonti guardi Dallo scender quaggiú in questo centro», pieno di scuritá edi pene eterne. E chiamasi «centro» quel punto il quale fa quellaparte del sesto, il quale noi fermiamo quando alcun cerchio facciamo:e però chiama «centro» il corpo della terra, percioché, avendoriguardo alla grandissima larghezza della circunferenza del cielo ealla piccola quantitá del corpo della terra posta nel mezzo de' cieli,qui si può dire centro del cielo. «Dall'ampio loco», cioè dal cielo,«ove tornar tu ardi», cioè ardentemente disideri.

Al quale Beatrice dice cosí:—«Da poi che vuoi saper cotantoaddentro», cioè sí profonda ed occulta cosa, «Dirotti brevemente—mirispose—Perch'i' non temo di venir qua entro», in questo carcerecieco. «Temer si dee sol di quelle cose, C'hanno potenza di farealtrui male». Sí come Aristotile nel terzo dell'Etica vuole, il nontemer le cose che posson nuocere, come sono i tuoni, gl'incendi e'diluvi dell'acque, le ruvine degli edifici e simili a queste, è attodi bestiale e di temerario uomo; e cosí temere quelle che nuocere nonpossono, come sarebbe che l'uomo temesse una lepre o il volato d'unaquaglia o le corna d'una lumaca, è atto di vilissimo uomo, timido erimesso. Le quali due estremitá questa donna tocca discretamente,dicendo esser da temere le cose che possono nuocere. «Dell'altre no»,cioè quelle «che non son poderose» a nuocere, e che non debbon metterpaura nell'uomo, il qual debitamente si può dir forte.

E quinci dimostra sé essere di quei cotali forti, dicendo: «Io son daDio; sua mercé»: quasi dica: non per mio merito; fatta «tale», cioèbeata, alla quale cosa alcuna noiosa, quantunque sia grande, non puoteoffendere; «Che la vostra miseria», cioè di voi dannati, «non mitange», cioè non mi tocca, quantunque io venga qua entro; «Né fiammad'esto incendio», il quale è qui. E per questa parola nota quegli dellimbo essere in foco, quantunque nel quarto canto l'autore dicaquelli, che nel limbo sono, non avere altra pena che di sospiri. «Nonm'assale», cioè non mi si appressa.

«Donna è nel cielo». Vuole qui mostrare Beatrice non di suo propriomovimento mandare Virgilio al soccorso dell'autore, ma con divinadisposizione, percioché in cielo alcuna cosa non si fa che dall'ordinedella divina mente non muova; e perciò vuol mostrare che «Donna èlassú nel Ciel, che si compiange», cioè si rammarica. Né è questo dacredere che in cielo sia, o possa essere alcuno rammarichío, maconviene a noi da' nostri atti prendere il modo del parlaredimostrativo, a fare intendere gli effetti spirituali; e perciochél'effetto il quale seguí del venire Beatrice a Virgilio, venne da unaclemenzia divina quasi mossa, come le nostre si muovono, per alcunorammarichío; e però dice Beatrice, quella donna compiangersi, cioèmostrare una affezione dell'impedimento dell'autore, come qui tra noimostra chi ha compassion d'alcuno. «Di questo impedimento, ov'io timando», cioè alla salute dell'autore; «Sí che duro», cioè stabile efermo, «giudicio», cioè disposizione di Dio, «lassú», cioè in cielo,«frange», cioè s'apre; e dimostra come le marine onde, cacciatetalvolta dall'impeto d'alcun vento, che vengono insino alla terrachiuse, e quivi frangendo s'aprono: e cosí sta chiusa ed occulta ladivina disposizione, infino a tanto che di manifestarla bisogni.

«Lucia chiese costei», cioè questa donna chiese Lucia, «in suodimando», cioè nel suo priego. Il senso di questa lettera, quantunquealquanto di sopra aperto n'abbia, non si può qui mostrare esserelitterale, e però è da riserbare quando si tratterá l'allegorico. «Edisse», questa donna:—«Ora ha bisogno il tuo fedele, Di te»;percioché è in grandissima tribulazione, per la paura la quale hadelle tre bestie, che il suo cammino impediscono; «ed io a te loraccomando»;—volendo dire, poiché suo fedele era, che ella nel suoscampo s'adoperasse. «Lucia, nemica di ciascun crudele, Si mosse»,udito questo, «e venne al loco dov'io era, Ch'i' mi sedea con l'anticaRachele». Rachele fu figliuola di Laban, fratello di Rebecca moglied'Isach, e fu moglie di Giacob: la quale storia alquanto piúdistesamente si racconterá appresso nel quarto canto di questo libro.«Disse:—Beatrice, loda», cioè laudatrice, «di Dio vera»; quasi vogliaper questo intendere essere vere, e non lusinghevoli né fittizie, leparole con le quali Beatrice loda Iddio. «Che non soccorri quei chet'amò tanto», avanti che impedito fosse in quella valle tenebrosa,«Ch'uscí per te della volgare schiera?», cioè, che per piacerti,lasciati i riti del vulgo, si diede a costumi e a operazionilaudevoli. «Non odi tu la pièta», cioè l'afflizione, «del suo pianto»,il quale egli fa nella diserta piaggia? «Non vedi tu la morte, che 'lcombatte», cioè la crudeltá di quelle bestie, le quali con la paura disé il combattono e conduconlo alla morte, «Su la fiumana»: qui chiama«fiumana» quello orribile luogo nel quale l'autore era da quellebestie combattuto, quasi quegli medesimi pericoli e quelle paureinduca la fiumana, cioè l'impeto del fiume crescente, il quale è ditanta forza, che dir si può «ove», sopra la quale, «'l mar non havanto?»—cioè non si può il mare vantare d'essere piú impetuoso o piúpericoloso di quella.

«Al mondo non fûr mai persone ratte», cioè fûr sollecite, «A far lorpro», loro utilitá, «ed a fuggir lor danno, Com'io», sollecitamente,«dopo cotai parole fatte, Venni quaggiú», in inferno, «del mio beatoscanno», cioè del luogo mio, lá dove io in paradiso sedea, «Fidandomidel tuo parlare onesto»; qui ancora Beatrice onora Virgilio, dicendoil suo parlare essere onesto, il che di certi altri poeti non si puòdire; «Che onora te», Virgilio; e non solamente te, ma ancora «e queiche udito l'hanno»,—e servato nella mente; percioché l'avere uditosenza averlo servato, e poi ad esecuzione in alcuno laudevole atto nonmesso, non può avere onorato l'uditore. E mostra ancora in questepoche parole precedenti l'ardente sua affezione verso l'autore, acciòper quello faccia ancora piú pronto Virgilio al soccorso dell'autore.

«Poscia che m'ebbe», cioè Beatrice, «ragionato questo», che dettot'ho, «Gli occhi lucenti lagrimosi volse», per avventura verso ilcielo, dove è qui da intendere che, detta la sua intenzione aVirgilio, si ritornò. E in questo lagrimare ancora piú d'affezion sidimostra, dimostrandosi ancora un atto d'amante, e massimamente didonna, le quali, come hanno pregato d'alcuna cosa la quale disiderino,incontanente lagrimano, mostrando in quello il disiderio suo essereardentissimo. Per la qual cosa dice Virgilio: «Per che mi fece delvenir piú presto: E venni a te», nella piaggia diserta, dove turovinavi lá dove il sol tace, «cosí come ella vòlse»; quasi vogliadire che altrimenti non sarei venuto. «Dinanzi a quella fiera», cioè aquella lupa ferocissima, «ti levai, Che del bel monte», sovra 'l qualtu vedesti i raggi del sole, «il corto andar ti tolse»; percioché, sedavanti parata non ti si fosse, in brieve spazio saresti potuto soprail monte essere andato; dove per lo suo impedimento, a volervi súpervenire, ti convien fare molto piú lungo cammino.

«Dunque, che è?» cioè quale cagion'è, «perché, perché ristai?» diseguirmi; e reitera la interrogativa, per pungere piú l'animodell'uditore; «Perché», cioè per qual cagione, «tanta viltá», quantatu medesimo nelle tue parole dimostri, «nel cuor t'allette?», cioèchiami colla falsa estimazione, la qual fai delle cose esteriori;«Perché ardire e franchezza non hai?». E massimamente: «Poi che talitre donne benedette», quali di sopra detto t'ho, cioè quella donnagentile, e Lucia e Beatrice, «Curan di te», cioè hanno sollecitudinedi te e procuran la tua salute, «nella corte del cielo», nella qualesussidio non è mai negato ad alcuno che umilemente l'addomandi; e,oltre a ciò, «E 'l mio parlar», al quale tu dovresti dare piena fede,se tanto amore hai portato e porti alle mie opere (come davantidicesti: «Vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore», ecc.), «tantoben ti promette?»—cioè di conducerti salvamente in parte, della qualtu potrai, se tu vorrai, salire alla gloria eterna.

«Quale i fioretti». Qui dissi cominciava la quinta parte di questocanto, nella quale l'autore, per una comparazione, dimostra il perdutoardire essergli ritornato e il primo proponimento. Dice adunque cosí:«Quale i fioretti», li quali nascono per li prati, «dal notturno gelo.Chinati, e chiusi»; percioché, partendosi il sole, ogni piantanaturalmente ristrigne il vigor suo; ma parsi questo piú in una che inun'altra, e massimamente nei fiori, li quali per téma del freddo,tutti, come il sole comincia a declinare, si richiudono: «poi che 'lsol gl'imbianca», con la luce sua, venendo sopra la terra. E dice«imbianca», per questo vocabolo volendo essi diventar parventi, comepaiono le cose bianche e chiare, dove l'oscuritá della notte gliteneva, quasi neri fossero, occulti. «Si drizzan tutti»; percioché,avendo il gambo loro sottile e debole, gli fa il freddo notturnochinare, ma, come il sole punto gli riscalda, tutti si drizzano,«aperti in loro stelo», cioè sopra il gambo loro, «Tal mi fec'io»,quale i fioretti, «di mia virtute stanca», per la viltá che m'era nelcuor venuta; «E tanto buono ardire al cuor mi corse», per li confortidi Virgilio, «Ch'io cominciai», a dire, «come persona franca», forte edisposta ad ogni affanno:—«O pietosa colei», cioè Beatrice, «che misoccorse», col sollecitarti, e mandarti a me; «E tu», fosti, «cortese,che ubbidisti tosto Alle vere parole, che ti porse!»; percioché, dovevenuto non fossi, io era veramente per perire. «Tu m'hai con disiderioil cuor diposto Sí al venir con le parole tue», cioè con i tuoi ùtiliconforti e vere dimostrazioni, «Ch'io son tornato nel primo proposto»,cioè di seguirti. «Or va', ch'un sol volere è d'amendue». Non sipotrebbe in altra guisa bene andare, se non fosser la guida e 'lguidato in un volere. «Tu duca», quanto è nell'andare, «tu signore»,quanto è alla preeminenza e al comandare, «e tu maestro»,—quanto è aldimostrare; percioché uficio del maestro è il dimostrare la dottrina eil solvere de' dubbi.

«Cosí gli dissi: e, poi che mosso fue». Qui comincia la sesta edultima parte di questo canto, nella quale l'autore mostra come da caporiprese il cammino con Virgilio. «Entrai», con Virgilio, «per locammino alto», cioè profondo, «e silvestro», percioché in quello luogoné albergo né abitazione alcuna si trovava.

II

SENSO ALLEGORICO

«Lo giorno se n'andava e l'aer bruno», ecc. È stato dimostrato dallaragione, nella fine del precedente canto, qual via al peccatore tenergli convegna, per dover salire alla beata vita e partirsi dellamiseria della tenebrosa valle. Per la qual dimostrazione, essendosiesso messo dietro alla ragione in cammino, per continuarsi allepredette cose, discrive l'autore, nel principio di questo secondocanto, l'ora nella quale in questo cammino entrarono, la qual diceessere stata nel principio della notte. Sono adunque, intorno allaallegoria del presente canto, principalmente da considerare tre cose:delle quali è la primiera qual ragione possa essere per la quale essodi notte cominci il suo cammino; appresso è da vedere donde potessenascere la viltá, la qual dimostra nel dubbio il quale muove aVirgilio; ultimamente è da vedere qual cagione movesse Virgilio, eperché del limbo, a venire nel suo aiuto. Percioché, veduto questo,assai chiaramente si vedrá per qual cagione da lui si rimovesse laviltá sua.

È adunque intenzione dell'autore di dimostrare nella prima parte, chedissi essere da considerare, che, quantunque l'uomo peccatore, tóccodalla grazia operante di Dio, abbia tanto di conoscimento ricevuto,ch'egli s'avvegga essere stato nelle tenebre della ignoranza, e perquello in pericolo di pervenire in morte eterna, e disideri diritornare alla via della veritá e d'acquistare salute, e per questomesso si sia dietro alla guida della ragione, in lui da lungo sonnostata desta; non esser perciò incontanente tornato nello stato dellagrazia, [se altro non s'adopera. E perciò, accioché in quella tornarsi possa, si vuole insiememente pregare Iddio col salmista, dicendo:«Domine, deduc me in iustitia tua: propter inimicos meos dirige incospectu tuo viam meam»; e, oltre a questo, fare alcune altre cose,secondo la dimostrazione della ragione. E queste sono, come altravolta ho detto, il conoscere pienamente i difetti della vita passata,e di quegli pèntersi e dolersi, e appresso nelle braccia rimettersenedella Chiesa, e al vicario di Dio confessarsene, disposto a satisfare.E, questo fatto, potrá veramente credere sé essere nello stato dellagrazia di Dio tornato, e le sue buone opere essere accettevoli epiacevoli nel cospetto suo e valevoli alla sua salute. Ma, infino atanto che in questa grazia non è il peccatore ritornato, non puòandare per la via della luce, ma va per le tenebre notturno. E perciò,per dovere tosto a quella grazia pervenire, dee il peccatoreingegnarsi di fare ogni atto meritorio: far limosine, l'opere dellamisericordia, usare alla chiesa, digiunare, orare, e simili coseadoperare; percioché, quantunque senza lo stato della grazia a salutenon vagliano, sono nondimeno preparatorie a doversi piú prontamente epiú prestamente menare a meritare e ad avere la divina grazia.] Eperciò, quantunque ad averla l'autore si disponga, percioché ancoranon l'ha, ne dimostra il principio del suo cammino cominciarsi dinotte.

Séguita di vedere, essendo l'autore giá entrato dietro alla ragione incammino, donde potesse nascere in esso la viltá d'animo, la qualdimostra nel dubbio, il quale seco medesimo muove alla ragione: nelquale assai manifestamente mostra lui ancora nello stato della grazianon esser tornato, e per questo aver avuto in lui forza il sospettarede' consigli della ragione. Per la qual cosa in molti avviene che, inse medesimi raccolti, contro alle dimostrazioni della ragionedisputano; e di questo, considerata la nostra fragilitá, non cidobbiamo noi per avventura molto maravigliare. E la ragione può esserquesta. Assai manifesta cosa è, eziandio in ciascun costante uomo, nelmutamento d'uno stato ad un altro alquanto gli uomini vacillare estare in pendente, s'è il migliore o non è, dello stato nel quale sitrova, trapassare ad un altro, o pure in quel dimorarsi. E non è alcundubbio che, stando l'uomo in pendente, che ogni piccola sospinta ilpuò muovere e farlo piú nell'una parte che nell'altra pendere. Avvieneadunque che quegli, i quali, come detto è, seco talvolta raccoltisono, quantunque vere conoscano le dimostrazioni della ragione e santii suoi consigli, nondimeno d'altra parte, ascoltando le lusinghe dellablanda carne, i conforti del mondo, le persuasioni del diavolo, a pocoa poco cacciando della mente loro il fervor preso del bene adoperare,non fermato ancora da alcun forte proponimento, intiepidiscono edivengon vili e timidi; avvisando, per li conforti de' suoi nemici, sénon dovere poter bastare a quello che il bene adoperare e lo statodella penitenza richiede. Per la qual viltá, se da solenne aiutocacciata non è, assai leggiermente miseri volgiamo i passi e nellanostra morte ci ritorniamo. La qual cosa all'autore avvenia, se lepronte e vere dimostrazioni della ragione non l'avesser ritenuto econfortato a seguitar l'impresa.

Ultimamente dissi che era da vedere qual cagione movesse Virgilio, eperché del limbo, a venire in aiuto dell'autore: alla qualdimostrazione tiene questo ordine l'autore. E' pare essere assaimanifesto che ciascheduno, il quale, dalla grazia operante di Diotócco, si desta e vede la miseria nella quale le sue colpe l'hannocondotto, e, cacciate le tenebre della ignoranza, conosce in quantomortal pericolo posto sia; che egli, dopo alcuna paura, disiderifuggire il pericolo e ricorrere alla sua salute: il che, non chel'uomo, ma eziandio ogni altro animale naturalmente procura. E questoassai bene apparisce l'autore aver cominciato a fare nel principiodella presente opera, in quanto, desto e conosciuto il suo malvagiostato, ha cominciato a fuggire il pericolo, e mostra di disiderare dipervenire alla salute: e ora in questa parte ne mostra quale deeessere quello che ciascuno, il quale questo disidera, dee, sí come piúpresto e piú al suo bisogno opportuno, fare. E ciò mostra dovereessere l'orazione; percioché non si può cosí prestamente ricorrereall'altre cose necessarie alla salute come a quella; e, come cheancora questo si potesse, non pare ben si proceda, se questa non vaavanti. Alla quale eziandio la natura c'induce, sí come noi peresperienza veggiamo, percioché, incontanente che alcuna cosa sinistraveggiamo contro a noi muoversi, subitamente preghiamo per lo divinoaiuto. La qual cosa per avventura vuol mostrar d'aver fatta l'autorein quelle parole del primo canto, dove dice: «Guardai in alto e vidile sue spalle»; percioché atto è di coloro, li quali adorano, levareil viso al cielo, accioché in quell'atto parte della loro affezionedimostrino. E a questo, che noi oriamo e preghiamo ne' nostri bisogni,ne sollecita Gesú Cristo nell'Evangelio, dove dice: «Pulsate etaperietur vobis, petite et dabitur vobis». È il vero che l'orazionealmeno queste due cose vuole avere annesse, fede e umiltá; perciochéchi non ha fede in colui il quale egli priega, cioè ch'egli possa farequello che gli è domandato, non pare orare, anzi tentare e schernire.La qual fede quanto fervente e ferma fosse, apparve nella femminacananea, la quale, ancora che non fosse del popolo di Dio, nondimenotanta fede ebbe in Gesú Cristo, che istantissimamente il pregò cheliberasse la figliuola dal dimonio che la 'nfestava; e, non essendoleda Cristo alcuna cosa risposto, la intera fede la fece ferma ecostante di perseverare nel priego incominciato. Alla quale avendoCristo risposto che non si volea prendere il pane dei figliuoli edarlo a' cani, non lasciando per questa repulsa, e sospignendola lasua fede, continuò nel pregare. E, avendo affermato quello, che Cristoavea detto, esser vero, disse:—Signor mio, e i cani, che si allevanonella casa, mangiano delle miche che caggiono della mensa del signorloro.—Volendo per questo dire:—Io cognosco che io non sono del popoltuo, il quale tu tieni per figliuolo, e perciò non debbo il pane de'tuoi figliuoli avere; ma io sono uno de' cani allevato in casa tua;non mi negare quello che a' cani si concede, cioè delle miche checaggiono dalla mensa tua.—La cui ferma fede conoscendo Cristo, non levolle, quantunque de' suoi figliuoli non fosse, negare la graziaaddomandata; ma, rivolto a lei, disse:—Femmina, grande è la fede tua:va', e cosí sia fatto come tu hai creduto.—E quella ora fu daldimonio liberata la figliuola di lei.

Vuole adunque l'orazione farsi con fede, e ancora, sí come voi vedete,con istanzia; percioché Cristo vuole alcuna volta essere sforzato, nonperché la liberalitá sua sia minore, o men volentieri faccial'addomandate grazie, ma per fare la nostra perseveranza maggiore eaccioché piú caramente riceviamo quello che con istanzia impetriamo.Vuole ancora l'orazione esser umile, percioché alcuna nobiltá disangue, né abbondanza di sustanze temporali, né magnificenzad'imperiale o di reale eccellenza la potrebbe di terra levare unattimo. L'umiltá sola è quella che l'impenna, e falla infine sopra lestelle volare e quella condurre agli orecchi del Signor del cielo edella terra. Gran forze son quelle dell'umiltá nel cospetto di Dio: ecome che assai in ciascuna cosa che l'uom vorrá riguardare appaia,nondimeno mirabilmente il dimostrò nella sua incarnazione; perciochénon real sangue, non etá, non bellezza, non simplicitá, ma sola umiltáriguardò in quella Vergine, nella quale Egli, di cielo in terradiscendendo, incarnò e prese la nostra umanitá; sí come essa medesimaVergine testimonia nel suo cantico, quando dice: «Respexithumilitatem ancillae suae»; per che da questa parola degnamente essamedesima segue: «Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles».

Fece adunque il nostro autore fedele ed umile orazione a Dio per lasalute sua: la quale, sí come esso medesimo scrive, salí in cielo nelcospetto di Dio guidata dall'umiltá; percioché, come vedere abbiampotuto nel precedente canto, l'autore non solamente avea cacciata dasé la superbia, ma avea paura di lei e fuggivala. E come dobbiamo noicredere la pietosa e divota orazione guidata dall'umiltá esserericevuta in cielo? Certo, non altrimenti che ricevuto fosse ilfigliuol prodigo dal pietoso padre, del quale il santo Evangelio nedimostra. Fece il pietoso padre uccidere il vitello sagginato, feceparare il convito, fece chiamare gli amici, e con loro si rallegrò efece festa di avere racquistato il suo figliuolo, il quale gli parevaaver perduto. Cosí si dee credere l'onnipotente Padre aver fatto incielo, sentendo per la divota orazione colui alla via della veritáritornare, il quale del tutto partito se n'era e ogni sua grazia aveadispersa e gittata via. Che festa ancora dobbiam credere averne fattagli angeli di vita eterna? la letizia de' quali è maggiore sopra unpeccatore che torni a penitenzia, che sopra novantanove giusti. Postadunque l'orazione nel cospetto di Dio, quivi, dolendosi del malvagiostato di colui che la manda, priega; appresso e quello di che ellapriega scrive l'autore, dicendo che ella chiede in sua dimanda Luciae, come suo fedele e che ha di lei bisogno, a lei il raccomanda. Ecosí dovemo intendere quella donna gentile essere la santa orazionefatta dal peccatore, e in questa parte dovemo intendere per Lucia ladivina clemenza, la divina misericordia, la divina benignitá, la qualveramente è nimica di ciascun crudele, percioché in alcun crudele népietá né misericordia si trova giammai.

Appare adunque per questo che l'orazione dell'autore addomandassemisericordia, per la qual sola noi possiamo, avendo peccato, nellagrazia di Dio ritornare; percioché egli è tanta la indegnitá e lainiquitá del peccatore in adoperare contro a' comandamenti di Dio,che, se la sua misericordia non fosse, alcun nostro merito mai cipotrebbe nel suo amore ritornare.

Quinci, per le cose che seguitano, appare il Nostro Signore averprestati benignamente gli orecchi della sua divinitá a' prieghi fattidall'umile orazione, in quanto dice l'autore che Lucia, cioè la divinamisericordia, chiamò Beatrice, cioè se medesima dispose a mettere inatto il priego ricevuto: il che appare, in quanto Beatrice, che quivila grazia salvificante o vogliam dire beatificante s'intende, allasalute del pregante si dispose: il che dallo intrinseco della divinamente procedette. Grande è per certo, come dice san Gregorio, la virtúdella orazione, la quale, fatta in terra, adopera in cielo: il che quimanifestamente appare, sí come al peccatore è dimostrato; percioché laforza della sua orazione ha rotto e annullato il duro giudicio di Dio,nel quale esso Iddio vuole che il peccatore sia punito; e l'umileorazione ha tanto potuto che, rotto questo giudicio, al peccatore, inluogo della pena, è conceduta misericordia; e non solamentemisericordia, ma ancora preparatagli e mostratagli la via da pervenirea salvazione. Che adunque avviene? Che, per lo desiderio della salutesua, la divina bontá fa che, per la grazia salvificante, si muoveVirgilio del limbo: il quale qui si prende per la ragione, per laquale noi siamo detti «animali razionali», o vogliam dire, per lagrazia cooperante, o vogliam dire l'una e l'altra insieme;conciosiacosaché alcuno piú atto luogo in noi io non cognosca, dove lagrazia cooperante mandatane da Dio si debba piú tosto ricevere chenella sedia della ragione; conciosiacosaché essa, dopo la graziaoperante ben ricevuta, ogni bene in noi disponga e ordini, e con noiinsieme adoperi.

E, a dichiarare come Virgilio del limbo sia mosso, è da sapere, comegiá dicemmo, esser due mondi: l'uno si chiama il maggiore e l'altro ilminore, sí come ne mostra Bernardo Silvestre in due suoi libri, de'quali il primo è intitolato Megacosmo da due nomi greci, cioè da«mega», che in latino viene a dire «maggiore», e da «cosmos», chein latino viene a dire «mondo»: e il secondo è chiamato Microcosmo,da «micros», greco, che in latino viene a dire «minore», e«cosmos», che vuol dire «mondo». E, ne' detti libri, ne dimostra ildetto Bernardo il maggior mondo esser questo il quale noi abitiamo, eche noi generalmente chiamiamo «mondo», e il minor mondo esser l'uomo,nel quale vogliono gli antichi, sottilmente investigando, trovarsitutti o quasi tutti gli accidenti che nel maggior mondo sono. Ed è delmaggior mondo quella parte chiamata «limbo», la quale non ha sopra disé altra cosa, che il cerchio della circunferenza della terra, o laestrema superficie della terra che noi vogliam dire. E, quantunquel'autore, secondo la sentenza litterale, mostri Virgilio essere nellimbo, [cioè nell'uno] del maggior mondo, non è da intendere chequindi fosse mossa la ragione da Beatrice, ma fu mossa dal limbo delmondo minore, cioè dalla piú eminente parte dell'uomo, la quale è ilcerebro, sopra il quale nulla altra cosa è del nostro corpo, se non ilcranio e la cotenna; percioché in quello fu da Dio locata la ragione.E questo, percioché ad essa è stata commessa la guardia di tutto ilcorpo nostro, e, oltre a ciò, il dominio a dovere regolare i movimentidella nostra sensualitá, sí come ad ottima distinguitrice delle cosenocive dall'utili. E convenevole cosa è che colui al quale è commessala guardia d'alcuna cosa, che egli stea nella piú sublime parte diquella, accioché esso possa vedere e discernere di lontano ogni cosaemergente, e a quelle cose, che fossero avverse alla cosa la qualguarda, opporsi e trovar rimedio, per lo quale da sé le dilunghi: laqual cosa ne' sensati uomini ottimamente fa la ragione posta nellasuperiore parte di noi. Oltre a questo, come il savio re pone il suoreal solio in quella parte del suo regno, nella qual conosce esser dimaggior bisogno la sua presenza, accioché per questa si tolgan via lesedizioni e i movimenti inimichevoli, fu di bisogno la ragione esserposta nel cerebro, percioché qui vi è piú di pericolo che in tutto ilrimanente del nostro corpo. E la ragione è, percioché nella nostratesta son gli occhi, gli orecchi, la bocca e tutti gli altri sensi delcorpo, li quali con ogni istanzia nutricano il regno della ragione. Eperciò, se loro vicina non fosse, potrebbon muovere cose assaidannose, dove dalla ragione sono oppresse e diminuite le forze loro. Equesta sedia della ragione essere nel nostro cerebro, e perché quivi,ottimamente sotto maravigliosa fizione dimostra Virgilio nel primodell'Eneida, dove dice:

Aeoliam venit: hic vasto rex Aeolus antro, ecc.,

e, appresso a questo, in piú altri versi.

È adunque nel limbo, cioè nella superior parte di questo minor mondo,la ragione, e quindi la muove la grazia salvificante in soccorso delpeccatore. Il quale movimento non si dee altro intendere se non unrilevarla dallo infimo e depresso stato nel quale lungamente tenutal'aveano l'appetito concupiscibile e irascibile, e, lei sotto i piedidelle loro scellerate operazioni tenendo, aveano occupata la sediasua; e questo per tanto tempo, che essa, non potendo il suo oficioesercitare, era tacendo divenuta fioca, cioè nell'esser fiocadimostrava la lunghezza della sua servitudine: e, cosí rilevatala, inessa pone la grazia cooperante, e parala dinanzi allo smarritointelletto del peccatore. E di questo non è alcun dubbio che noi,quante volte ci ravveggiamo delle nostre disoneste operazioni, tanteper divina grazia ricominciamo ad essere uomini, i quali non siamoquanto nella ignoranza de' peccati dimoriamo: anzi, avendo la ragionperduta, siamo divenuti quegli animali bruti, a' quali, come altravolta è detto, sono i nostri difetti conformi. Il che se altradottrina non ci mostrasse, spesse volte ne 'l mostrano le poetichefizioni, quando ne dicono alcuno uomo essersi trasformato in lupo,alcuno in leone, alcuno in asino o in alcun'altra forma bestiale. Ecome la ragione dalla grazia salvificante è nella sua real sediarimessa, fatta donna e consultrice e aiutatrice del peccatore, iltoglie co' suoi ammaestramenti dinanzi a' vizi, li quali gli hannotolta la corta salita al monte, cioè al luogo della sua salute. E«corta» dice, percioché agli uomini, li quali in istato d'innocenziavivono, è il salire a questo monte leggerissimo, sí come il salmistane mostra, lá dove dice: «Quis ascendet in montem Domini, aut quisstabit in loco sancto eius?». E rispondendo alla domanda, quellon'afferma che io dico, dicendo: «Innocens manibus et mundo corde, quinon accepit in vano animam suam, nec iuravit in dolo proximo suo»; maa coloro diventa molto lunga, i quali ne' peccati miseramente vivono.E, oltre a questo, riprende e morde la viltá dell'animo di quegli, iquali, tirati dalle mollizie del mondo, del divino aiuto mostran didisperarsi; mostrando loro come, per loro [l']umile orazione, lamisericordia di Dio e la grazia salvificante procurin per loro nelcospetto di Dio; mostrando ancora come sicuramente ad ogni affannometter si possano, avendo sé, cioè, la grazia cooperante, con loro ein loro aiuto e consiglio.

Maraviglierannosi per avventura alcuni, e diranno:—A che era dibisogno che la grazia salvificante movesse o rilevasse la ragionenell'autore?—Alla qual domanda è la risposta prontissima. Vuole cosíla ragion delle cose che, negli atti morali, sí come questo è, noi nonpossiamo alcuna cosa bene adoperare né con ordine debito, se noiprimieramente non cognosciamo il fine al qual noi dobbiamo adoperare;percioché la notizia di quello ha a causare i nostri primi atti, e diquindi ad ordinare quegli che appresso a' primi e susseguentementedeono seguire. Come comporrá il cirugico il suo unguento, o il fisicola sua medicina, se prima il cirugico non vede il malore, il fisicol'umore da purgare? Come dará il nocchiere la vela del suo legno a'venti, se esso primieramente non avrá conosciuto e disposto in qualcontrada esso voglia pervenire? Come fará l'architetto fondare unedificio, o preparar la materia da edificarlo, se egli primieramentenon sa che spezie d'edificio debba esser quello che far si dee?Conciosiacosaché altra forma e altro maestro voglia un tempio che unpalagio reale, e altra forma il palagio che una casa cittadinesca. Èadunque di necessitá primieramente cognoscere il fine, che noi pognamoalcuno nostro atto in opera. E perciò, se ben guarderemo, se ildisiderio del peccatore è di salvarsi, esser la grazia salvificantecausativa di quelle nostre operazioni, le quali a salute ci possanperducere; e di queste nostre operazioni conviene che siadimostratrice e ordinatrice la ragione: e però la ragione è la primacosa causata dalla grazia salvificante, la quale l'autor mostra inpersona di Beatrice venire a muover Virgilio. E questo scendere non sidee intendere essere stato attuale; ma semplicemente la volontá diDio, provocata dall'umile orazione del peccatore a misericordia, ècausativa di questo rilevamento della ragione, in quanto in essa stail concedere la grazia salvificante. Adunque, avvicinandosi allaconclusione, dico l'autore, per le riprensioni della ragione in luiritornata, e per gli ammonimenti di lei, avere la viltá, presa da'malvagi conforti de' nostri nemici, posta giú e cacciata da sé;riprende, per lo sano consiglio della ragione, il vigore e la forzasmarrita, e nel primo suo buono proponimento si ritorna, e, ad ognifatica per acquistar salute disposto, con la ragione insieme riprendeil cammino. E questa si può dire essere interamente l'esposizioneallegorica del presente canto. Né sia alcuno sí poco savio, che credaqueste cose, quantunque mostrino nel descriversi aver certeinterposizioni di tempo, non doversi poter fare senza la dimostratainterposizione; percioché egli è possibile di muovere la divinitá, ed'aver veduto ciò che l'autore dee nello 'nferno vedere, e dipervenire alla porta di purgatorio, e ancora di salire in cielo, quasiin un momento, pure che la contrizione sia grande e il fervore dellacaritá ferventissimo e intero, come di molti abbiam giá letto esserestato.

CANTO TERZO

I
SENSO LETTERALE

[Lez. IX]

«Per me si va nella cittá dolente», ecc. In questo canto ne raccontal'autore come alla porta dello 'nferno pervenissero, e come dentro adessa fosse da Virgilio menato, e quivi vedesse i cattivi miseramenteafflitti, e ultimamente pervenissero al fiume d'Acheronte. E dividesiquesto canto in due parti: nella prima mostra come alla prima portadello 'nferno pervenisse, e dentro a quella fosse da Virgilio menato;nella seconda parte discrive quello che dentro della porta udisse evedesse. E comincia quivi: «Quivi sospiri, pianti ed alti guai».

Adunque nella prima parte, continuandosi a quello che nella fine delprecedente canto ha detto, cioè come con Virgilio entrasse in cammino,dice dove pervenne, cioè alla prima porta dell'entrata d'inferno;sopra la qual, dice, vide scritto: «Per me», cioè per entro me, «si vanella cittá dolente», cioè nella cittá di Dite, dolente in perpetuoper li dannati spiriti li quali dentro vi sono; della qual cittá,percioché pienamente se ne scriverá in questo libro appresso nel cantoottavo, qui non curo di dirne alcuna cosa; «Per me si va nell'eternodolore», al quale dannati sono coloro li quali muoiono nell'ira diDio; «Per me si va tra la perduta gente». Dice «perduta», perciochéalcuna potenza di bene adoperare non è in loro; e questi cotalimeritamente si posson dir perduti. «Giustizia mosse», a farmi: e lagiustizia che 'l mosse fu la superbia del Lucifero, la quale meritòeterno supplicio; il quale Iddio volle tanto da sé dilungare, quantopiú si potea, e perciò, nel centro della terra gittatolo, quivi la suaprigione fece, e volle quella similmente esser prigione di tuttiquegli li quali contro alla sua deitá operassero; «il mio altoFattore», cioè Iddio; «Fecemi la divina Potestate», cioè Iddio Padre,al quale è attribuita ogni potenza; «La somma Sapienzia», cioè ilFigliuolo, il quale è sapienza del Padre, «e 'l primo Amore», cioè loSpirito santo, il quale è perfettissima caritá, igualmente moventesidal Padre e dal Figliuolo. E cosí appare questa porta essere statafatta dalla Trinitá è a dimostrare che chi offende in alcuna cosaIddio offenda queste tre persone, e perciò da tutte e tre esserequello luogo composto, dove gli offenditori in perpetuo fuoco sonodannati.

«Dinanzi a me», porta, «non fûr cose create Se non eterne». Cosímostra questo luogo essere stato prima creato da Dio che fosse creatol'uomo, il quale, quanto è al corpo, non è eterno; e che fosse creatopoi che fu creato il cielo e la terra e gli angioli, i quali sonoeterni. [E percioché come parte degli angioli peccarono, che peccaronoprima che l'uomo fosse fatto, fu, come detto è, di presente creatoquesto luogo in lor prigione e supplicio; quantunque i santi tenganoquesto aere tenebroso essere pieno di quegli, come appresso piúdistesamente alquanto si dirá.] E in quanto l'autore dice qui«eterne», favella di licenza poetica impropriamente, come assai spessosi fa: percioché l'essere eterno a cosa alcuna non s'appartiene, senon a quella la quale non ebbe principio né dee aver fine, e questa èsolo Iddio; gli angioli e le nostre anime, e certe altre creature daDio immediatamente create, e quantunque mai fine aver non debbano,percioché ebber principio, non si deono propriamente parlando dire«eterne», ma «perpetue». «Ed io eterna duro», sí come opera creata daDio senza alcun mezzo; percioché per li dottori si tiene ciò, cheimmediatamente fu o sará creato da Dio, è eterno. «Lasciate ognisperanza, o voi ch'entrate», dentro di me, «quia in inferno nullaest redemptio», se ciò di potenza assoluta Iddio non facesse, comefece de' santi padri, li quali ne trasse quando giá risuscitato damorte spogliò il limbo.

«Queste parole», sopra dette, «di colore oscuro», conforme allaqualitá del luogo nel quale per quella porta s'andava, «Vid'io scritteal sommo d'una porta», cioè a quella per la quale in infernos'entrava; «Perch'io» (supple) dissi:—«Maestro», Virgilio; e ben faqui a chiamarlo «maestro», percioché a' maestri si vogliono muovere idubbi e da loro aspettar le chiarigioni; «Il senso lor», cioè quelloche dir vogliono, «m'è duro»,—cioè malagevole ad intendere.

«E quegli», cioè Virgilio, «a me» (supple) rispose, «come personaaccorta», cioè intendente:—«Qui», cioè in questa entrata, «si convienlasciare ogni sospetto», accioché sicuro si vada; «Qui si conviench'ogni viltá», d'animo, «sia morta», cioè cacciata da colui il qualevuole entrare qua dentro. E son queste parole prese dal sestodell'Eneida, dove la Sibilla dice ad Enea:

Nunc animis opus, Aenea, nunc pectore firmo.

«Noi siam venuti al luogo ov'io t'ho detto», cioè all'inferno, delquale vicino al fine del primo canto gli disse; «Che vederai le gentidolorose, C'hanno perduto», per li lor peccati, «il bendell'intelletto»,—cioè Iddio, il quale è via, veritá e vita: [e ilben dell'intelletto è la veritá, per la quale tutti per diverse vie cifatichiamo, e pochi alla notizia di quella pervengono].

«E poi che la sua mano alla mia pose Con lieto viso, ond'io miconfortai». Qui assai manifestamente n'ammaestra l'autore con che visonoi dobbiamo mettere, chi ne segue, nelle dubbiose cose; e dice chedee esser con lieto, percioché dal viso lieto del duca prende confortoe sicurtá chi segue, dove, non avendolo lieto, coloro che a luiriguardano assai leggiermente impauriscono e diventano vili: come noileggiamo le legioni romane, da' contrari auspizi e dal viso diFlaminio consolo turbato, invilite, da Annibale allato al lagoTrasimeno essere state sconfitte. Dice adunque di sé l'autore che,vedendo nell'entrata di cosí dubbioso luogo lieto Virgilio, egli siconfortò tutto.

«Mi mise dentro alle segrete cose». Segrete sono in quanto agli occhimortali manifestar non si possono, percioché cosí i tormenti, come itormentati e i tormentatori ancora tutti, son cose spirituali einvisibili a noi, e quinci segrete; quantunque gli effetti di quelle,secondo che mostrar si possono per iscritture e per ammaestramenti disanti uomini, tutto il dí ci sieno aperti e palesati.

«Quivi sospiri, pianti ed alti guai». Qui incomincia la seconda partedel presente canto, nella qual dissi che si discrivea quello chel'autore nella entrata dello 'nferno avea veduto e udito. E dividesiquesta parte in sette: percioché nella prima l'autor pone moltidolorosamente dolersi; nella seconda gli dichiara Virgilio chi questisieno che cosí si dolgono; nella terza discrive l'autore la pena dallaquale questi son tormentati; nella quarta dice l'autore sé aver vedutemolte anime correre ad un fiume; nella quinta dice sé essere a questofiume pervenuto, e non averlo voluto passare dall'altra parte unnocchiere, che tutti gli altri in una sua barca passava; nella sestagli apre Virgilio perché Carón non l'ha voluto passare; nella settimaed ultima mostra l'autore sé, per un tremor della terra e poi da unbaleno, essere stato vinto e caduto. La seconda comincia quivi: «Edegli a me:—Questo misero modo»; la terza quivi: «Ed io cheriguardai»; la quarta quivi: «E poi ch'a riguardare»; la quinta quivi:«Ed ecco verso noi»; la sesta quivi: «Figliuol mio,—disse»; lasettima ed ultima quivi: «Finito questo».

Dice adunque cosí: «Quivi», cioè nella prima entrata dello 'nferno,«sospiri, e pianti». «Pianto» è quello che con rammarichevoli voci sifa, quantunque il piú i volgari lo 'ntendano ed usino per quel piantoche si fa con lacrime. «E alti guai»: questi appartengono ad ognispezie di dolore e massimamente a quello che con altissime voci edolorose si dimostra; «Risonavan per l'aere senza stelle», cioèoscuro, ed al cospetto del cielo chiuso, «Perch'io, al cominciar, nelagrimai». Ecco una delle fatiche dell'animo, la quale predisse nelcominciamento del secondo canto gli s'apparecchiava. «Diverse lingue»,cioè diversi idiomi, per la diversitá delle nazioni dell'universo, lequali tutte quivi concorrono; «orribili favelle», cioè spaventevoli,come son qui tra noi quelle de' tedeschi, li quali sempre pare chegarrino e gridino, quando piú amichevolmente favellano; «parole didolore», cioè significanti dolore, «accenti d'ira»; accento è ilprofferere, il quale facciamo alto o piano, [acuto o grave ocircunflesso;] ma qui dice che erano d'ira, per la quale si soglionomolto piú impetuosi fare che, senza ira parlando, non si farieno;«Voci alte», per le punture della doglia, «e fioche»; suole l'uomo perlo molto gridare affiocare; «e suon di man», come soglion far lefemmine battendosi a palme, «con elle», cioè con quelle voci: le qualicose intra sé diverse, non melodia, come soglion fare le vocimisurate, ma «Facevano un tumulto», cioè una confusione; «il quals'aggira»; percioché il luogo è ritondo, ed essendo da quel tumultol'aere percosso, e non avendo alcuna uscita, è di necessitá che per loluogo s'aggiri e prenda moto circulare; «Sempre in quell'aria, senzatempo tinta», cioè mutata per contrarietá di venti o d'altroaccidente, «Come la rena quando turbo spira». Dimostra qui l'autore,per una breve comparazione, il moto di quel tumulto, come sopra dissi,esser circulare, e di quella forma che noi veggiamo talvolta muoverein cerchio la polvere sopra la superficie della terra; e questomassimamente avvenire, quando un vento, il quale si chiama da' suoieffetti «turbo», spira. Il quale non pare avere alcuno ordinatomovimento, come gli altri hanno, percioché non viene da diterminataparte, ma essendo la esalazion calda e secca, ché dalla terra surge inalto, pervenuta alla freddezza d'alcun nuvolo, e da quella a parte aparte cacciata, diviene vento; il quale, lá dove s'ingenera, prendemoto circulare, e per questo non è universale, anzi è solamente inquella parte dove generato è, intanto che in una medesima piazza noiil vedremo in una parte di quella e non in un'altra; e, percioché laesalazione è a parte a parte repulsa dal nuvolo, il veggiam noi percerti intervalli far queste circulazioni sopra la terra. E questovento, come noi il chiamiamo «turbo», Aristotile il chiama «tifone»nella sua Meteora, dove chi vuole può pienamente vedere di questamateria.

«Ed io, ch'avea d'orror», cioè di stupore, «la testa cinta», cioèintorniata; e questo dice per lo moto circulare di quel tumulto;«Dissi:—Maestro, che è quel ch'io odo?», che fa questo tumulto, «Eche gent'è», questa, «che par nel duol sí vinta?»,—secondo che leloro voci manifestano.

«Ed egli a me». In questa seconda parte della sua divisione dichiaraVirgilio all'autore chi sien costoro de' quali esso dimanda. «Edegli», cioè Virgilio, «a me» (supple) rispose:—«Questo miseromodo», il quale tu odi e del quale tu se' stupefatto, «Tengon l'animetriste di coloro, Che visser senza infamia», d'alcuna loro malvagiaoperazione, percioché, quantunque buone non fossero, erano intorno así bassa e misera materia, che di sé non davano alcuna cagion diparlare, e perciò si può dire che senza infamia vivessero; «e senzalodo», cioè senza fama, percioché, come del loro male adoperare èdetto, il simigliante dir si può se alcun bene adoperavano.

Ma da vedere è che gente questa può essere. E, se io estimo bene,questa mi pare quella maniera d'uomini, li quali noi chiamiamo«mentacatti» o vero «dementi», li quali, ancora che abbiano alcunsenso umano, per molta umiditá di cerebro hanno sí il vigore del cuorespento, che cosa alcuna non ardiscono d'adoperare degna di laude, anzisi stanno freddi e rimessi, ed il piú del tempo oziosi, quantunquetalvolta sospinti sieno dal disiderio di dovere alcuna cosa adoperare;di che quello segue che l'autore ne dice, cioè «Che visser senzainfamia e senza lodo».

«Mischiate sono», queste misere anime, «a quel cattivo coro». «Coro»[si dice propriamente un'adunazion d'uomini, li quali in figura dicerchio sieno congiunti insieme; o «coro» è detto quello luogo nelquale stanno nelle chiese coloro che cantano, il quale ha figura dimezzo cerchio: e qui si potrebbe prendere per ciascuno di questi duesignificati, percioché, considerato il movimento di questi spiriti, ilquale è circulare, come appresso si dimostrerá, si può il loro dir«coro»; e se per altro significato il vorrem prendere, quello dicostoro potrem dire «coro», cioè loro essere ordinati a modo di coro,ma non a cantare, anzi a piangere miseramente e in eterno.] «Cattivo»il chiama per la similitudine, la quale hanno quegli spiriti conqueste anime de' cattivi, le quali con loro son mischiate; e in tantosono lor simili, in quanto non seppero diliberare che farsi nel tempodella rebellione del Lucifero, ma si stettero freddi e timidi, senzadiliberare di tenersi con Dio come doveano, o di seguire il Luciferocome non doveano.

«Degli angeli». Questo nome angelo è derivato da un nome greco, cioè«aggelos», il quale in latino viene a dire «nunzio» o «ambasciadore»o «messo»: e percioché essi quello oficio appo il diavolo fanno, cioèd'esser mandati, che appo Iddio fanno i buoni angeli, quel nome anticod'angeli ritenuto s'hanno e ritengono, quantunque sieno divenutidimòni [e, secondo che alcun santo vuole, questo nome non è loroattribuito giammai, se non quanto sono in alcuna commissione lorofatta da Dio; la qual finita, non si chiama piú angelo, ma spiritobeato].

«Che non furon ribelli», (supple) a Dio, «Né fûr fedeli a Dio, maper sé fôro»: non tenner costoro né con Dio né col diavolo.

[Ed accioché qui alcuno per men che bene intendere non errasse, è dasapere non essere state che due maniere di angeli, sí come il Maestrone dimostra nel secondo delle Sentenzie, e di queste due l'una nonpeccò, e però appresso a Dio si rimase in paradiso; l'altra che peccò,tutta fu gittata fuori di paradiso, e cadde, e questo aere tenebrosopropinquo alla terra riempié; e questo affermano i santi essernepieno. E da questi talvolta muovono le tempeste e le impetuoseturbazioni che nell'aere sono e in terra discendono; e da questidicono noi essere tentati e stimolati, e venire quelle illusioni dallequali i non molto savi son talvolta beffati e scherniti. Concedononondimeno talvolta di questi dimòni discenderne in inferno adinfestare e tormentare l'anime dei dannati; affermando questi cotalispiriti immondi al dí del giudicio tutti dovere dalla divina potenzaessere racchiusi in inferno. Ora] pare qui che all'autor piacciaquesti malvagi angeli essere di due spezie divisi: delle quali vuolel'una aver men peccato che l'altra, in quanto mostra questa spezie,che men peccò, vicina alla superficie della terra essere rilegata; [epercioché la giustizia di Dio secondo piú e meno punisce, non intendecostoro al dí del giudicio dover essere da Dio nel profondo infernorilegati, come saranno gli altri che molto piú peccarono.]

E però vuolsi questa lettera che segue leggere in questo modo:«Cacciangli i cieli», da sé: e segue incontanente la ragione perché,cioè «per non esser men belli»; percioché i cieli sono bellissimi, edintra l'altre loro singulari bellezze hanno che in essi alcuna maculadi colpa non si truova, percioché in essi alcuna cosa non si riceve senon purissima, ed essi furono purissimi creati da Dio; per che segue,se essi ricevessero questa spezie d'angeli, la quale è viziosa, essimaculerebbono la lor bellezza: e perciò, accioché questo non avvenga,essi gli scacciano e dilunganli da loro. «Né il profondo inferno gliriceve» [cioè riceverá; e ponsi qui il presente per lo futuro,percioché, altrimenti leggendosi o intendendosi, parrebbero le speziedegli angeli esser tre, la qual cosa sarebbe contro alla cattolicaveritá]; e dice «il profondo», a differenza del luogo dov'e' sono ininferno, che veggiamo gli pone nella piú alta parte di quello. Eappresso mostra la cagione perché dal profondo inferno ricevutinon sieno, dicendo: «Ch'alcuna gloria», cioè piacere, «i rei»,angeli, li quali manifestissimamente furon ribelli, «avrebberd'elli»,—veggendoli in quel medesimo supplicio ch'essi [saranno]. Ecosí appare non essere opera de' ministri infernali che questi angelinon sieno nel profondo inferno, ma della giustizia di Dio, la qualenon patisce che di cosa alcuna quegli spiriti maledetti possano averealleggiamento della pena loro.

«Ed io:—Maestro», (supple) dissi, «che è tanto greve», cioè qualtormento, «A lor, che lamentar gli fa sí forte?»—cioè sí amaramente.«Rispose», cioè Virgilio:—«Dicerolti molto breve».

E dice cosí: «Questi», cattivi, che tu odi cosí dolersi, «non hannosperanza di morte», percioché manifesto è loro l'anime essere eterne;«E la lor cieca vita», senza alcuna luce di merito, «è tanto bassa»,cioè tanto depressa, avendo riguardo che in inferno sieno dannati ineterno, e su nel mondo di loro alcuna memoria non sia, e quasi sienocome se stati non fossero; «Che invidiosi son d'ogni altra sorte», dipeccatori, quantunque di gravissimi supplici tormentati sieno. Per chechiaro comprender si può costoro essere miserissimi, poiché diciascuno, quantunque misero, invidiosi sono, conciosiacosaché invidianon si soglia portare se non a migliore o a piú felice di sé. «Fama diloro» [che cosa sia fama, è mostrato di sopra nella esposizione dellalettera del precedente canto] «il mondo», cioè il costume de' mondani,il quale è solamente i segnalati uomini far famosi, «esser non lassa»,percioché furono torpenti e miseri e freddi; «Misericordia e giustiziagli sdegna»; e questo percioché le loro opere non furon tali, cheimpetrar misericordia per quelle sapessero o potessero, per la qualesarebbero stati elevati alla gloria eterna; e furon sí vili e sídolorose, che giustizia gli sdegna, cioè non cura di doverli tra lepiú gravi colpe dannare, quantunque in quelle per mentacattaggineforse peccassero; ma, sí come morti senza la grazia di Dio, gli lasciaquivi, come gittati da sé, miseramente dolersi, come miseramentevissero. [E questa seconda cagione è troppo piú ponderosa che laprimiera, e piú gli prieme; e per questa si manifesta loro sentirequanto la lor vita sia vile.] E questa è la cagione perché, comel'altre anime de' peccatori, non vanno a passare il fiume d'Acheronte,quantunque nondimeno in inferno sieno, lá dove sono. «Non ragioniam dilor»; quasi voglia dire che il ragionar di cosí fatta spezie di gentiè un perder tempo; «ma guarda», se t'aggrada di vedere la lor pena, e,guardando, «passa»—e lasciagli stare. E questo riguardare gli concedeVirgilio, non in contentamento dell'autore, ma in dispetto de'riguardati, li quali noia sentono, vedendo la lor miseria essere daalcuno veduta o conosciuta.

«Ed io che riguardai», secondo m'avea conceduto Virgilio: e quidiscrive la qualitá della loro afflizione, per la quale sí amaramentesi dolgono: «vidi una insegna, Che girando», cioè in giro andando,«correva», cioè correndo era portata, «tanto ratta», cioè sívelocemente, «Che d'ogni posa mi pareva indegna. E dietro le venia», aquesta insegna, «sí lunga tratta», cioè sí gran quantitá, «Di gente»,d'anime state di gente, «ch'io non avrei creduto», avanti che ioavessi veduto questo, «Che morte tanta n'avesse disfatta», cioèuccisa. E dice «disfatta», percioché la morte non è altro che laseparazione dell'anima dal corpo, la quale per la morte separandosi,resta questa composizione dell'anima e del corpo, le quali insiemefanno l'uomo, essere disfatta; percioché, dopo cotale dipartimento,colui, che prima era uomo, non è poi piú uomo.

«Poscia ch'io v'ebbi», guardando, «alcun riconosciuto», il quale nonnomina, percioché, se egli il nominasse, qualche fama o infamia glidarebbe (il che sarebbe contro a quello che di sopra ha detto, cioè:«Fama di loro il mondo esser non lassa» ecc.), «Vidi, e conobbil'ombra di colui, Che fece per viltate il gran rifiuto». Chi costui sifosse, non si sa assai certo; ma, per l'operazione la quale dice dalui fatta, estiman molti lui aver voluto dire di colui il quale noioggi abbiamo per santo, e chiamiamlo san Piero del Morrone, il qualesenza alcun dubbio fece un grandissimo rifiuto, rifiutando il papato.E dicesi lui a questo rifiuto essere in questa maniera pervenuto, che,essendo egli semplice uomo e di buona vita nelle montagne del Morronein Abruzzo sopra Selmona in atto eremitico, egli fu eletto papa inPerugia, appresso la morte di papa Niccola d'Ascoli; ed, essendo ilsuo nome Piero, fu chiamato Celestino. La cui semplicitá considerandomesser Benedetto Gatano cardinale, uomo avvedutissimo e di grandeanimo e disideroso del papato, astutamente operando, gl'incominciò amostrare che esso in pregiudicio dell'anima sua tenea tanto oficio,poiché a ciò sofficiente non si sentía. Alcuni voglion dire ch'essousò con alcuni suoi segreti servidori, che la notte voci s'udivanonella camera del predetto papa, le quali, quasi d'angeli mandatida Dio fossero, dicevano:—Renunzia, Celestino! renunzia,Celestino!—Dalle quali mosso, ed essendo uomo idiota, ebbe consigliocol predetto messer Benedetto del modo del poter renunziare. Il qualegli disse:—Il modo sará questo, che voi farete una decretale, nellaquale si contenga che il papa possa nelle mani de' suoi cardinalirenunziare il papato.—Il quale come a doverla fare il vide disposto,essendo essi in Napoli, segretamente fu col re Carlo secondo, re diCicilia, a cui stanza il detto papa poco davanti avea fatti dodicicardinali, e apertogli l'animo suo, gli promise d'aiutarlo con ogniforza della Chiesa nella guerra sua di Cicilia, dove facesse che,rifiutando Celestino il papato, esso facesse che i dodici cardinali,fatti a sua stanza, gli dessero le boci loro nella elezione: la qualcosa il re gli promise. Laonde esso, con alcuni altri cardinaliitaliani, sotto certe promessioni, ordinato questo medesimo, adoperòche il papa pronunziò la legge del dover potere rinunziare il papato:e il dí di santa Lucia, essendo stato cinque mesi e alcun dí papa,venuto co' papali ornamenti in concistoro, in presenza de' suoicardinali pose giú la corona e il papale ammanto, e rifiutò al papato.Di che poi seguí che la vilia di Natale messer Benedetto predetto fueletto papa e chiamato Bonifazio ottavo. Il quale ivi a poco tempo,percioché vedeva gli animi di molti inchinarsi ad avere nel dettofrate Piero, quantunque rinunziato avesse, divozione come in veropapa, fece il predetto frate Piero chiamare dal monte Sant'Agnolo inPuglia, dove per divozione andato n'era, e quindi, secondo che alcuniaffermano, era disposto di passarsene in Ischiavonia, e quivi inmontagne altissime e salvatiche finire in penitenzia i dí suoi; ilfece chiamare, e fecenelo andare alla ròcca di Fumone, e quivi tennelomentre visse; ed, essendo morto, il fece in una piccola chiesicciuolafuori della ròcca, senza alcuno onore funebre, seppellire in una fossaprofondissima, accioché alcuno non curasse di trarne giammai il corposuo.

Pare adunque l'autore qui volere lui, per questa viltá d'animo, inquesta parte superiore dello 'nferno tra' cattivi esser dannato. Sonoper questo alcuni che riprendono l'autore, dicendo lui qui avereerrato e detto contro a quello articolo che si canta nel Simbolo,cioè: «Et in unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam»; inquanto dice contro a quello che la Chiesa di Dio ha diliberato, cioèquesto frate Piero essere santo, ed egli, mostrando di non crederlo,il mette tra' dannati. Alla quale obiezione è cosí da rispondere: che,quando l'autore entrò in questo cammino, il quale egli discrive, e nelqual dice aver veduta e conosciuta l'ombra di colui che fece per viltáil gran rifiuto, questo san Piero non era ancora canonizzato;percioché, sí come apparirá nel vigesimoprimo canto di questo libro,l'autore entrò in questo cammino nel MCCCI, e questo santo uomo fucanonizzato molti anni dopo, cioè al tempo di papa Giovannivigesimosecondo: e però, infino a quel dí che canonizzato fu, fulecito a ciascuno di crederne quello che piú gli piacesse, sí come èdi ciascuna cosa che dalla Chiesa diterminata non sia; e perconseguente l'autore non fece contro al predetto articolo, ma farebbeoggi chi credesse quello esser vero.

Altri voglion dire questo cotale, di cui l'autore senza nominarlo diceche fece il gran rifiuto, essere stato Esaú, figliuolo d'Isac. Ilquale, essendo primogenito di Isac, come nel Genesi si legge,percioché innanzi a Iacob, con lui ad un parto nascendo, uscí dalventre della madre; ed aspettando a lui, per questa ragione, labenedizione del padre quando a morte venisse, secondo che a queglitempi s'usava; tornando un dí da cacciare, ed avendo grandissimodesiderio di mangiare, trovò Iacob suo fratello avere innanzi unaminestra di lenti, le quali la madre gli aveva cotte, e domandogliele:Iacob rispose che non gliele darebbe, se egli non rifiutasse alleragioni della sua primogenitura e concedessele a lui; per la qual cosaEsaú, tirato dall'appetito del mangiare, rifiutò ogni sua ragione econcedettela a Iacob. E per questo voglion dire l'autore intenderd'Esaú, e lui vuol dire aver fatto il gran rifiuto. La qual cosa né lanego né l'affermo. So io bene, secondo che nel Genesi si legge, Esaúfu reo e malizioso e fattivo uomo, e non fu semplice né mentacatto, efu grande e potente uomo e padre di molte nazioni.

«Incontanente», come veduto ebbi e riconosciuto costui, «intesi»,dalla sua viltá, «e certo fui, Che questa», che cosí correva dietro aquella insegna, «era la setta dei cattivi, A Dio spiacenti ed a'nemici sui», cioè a' demòni; quasi voglia dire: come a Domenedio piacel'uomo il quale s'esercita sempre in bene adoperare, «quia nonsufficit abstinere a malo, nisi faciat quis quod bonum est»; cosídispiacciono a' demòni coloro che son pigri, oziosi e tardi, e non siesercitano in male adoperare.

«Questi sciaurati». Questo vocabolo è disceso dall'antico costume de'gentili, li quali nelle piú lor cose seguivano gli augúri, cioè quellesignificazioni che dal volato e dal garrito degli uccelli, qual buonae qual malvagia, secondo le dimostrazioni di quella facultá,scioccamente prendevano; laonde quelli che malo augurio avevano, eranochiamati «sciagurati»; il qual vocabolo oggi appo noi suona«sventurati». «Che mai», cioè in alcun tempo, «non fur vivi», quanto èad operazioni spettanti ad uomini, li quali si dican vivere. «Eranoignudi»: questo medesimo si può dire di tutti i dannati, i quali nonsolamente son privati di vestimenti, ma di consolazione e di riposo;«e stimolati molto», trafitti, «da mosconi e da vespe, ch'eran ivi»,cioè in quel luogo. «Elle», cioè i mosconi e le vespe, «rigavan lor disangue», il quale delle trafitture usciva, «il volto». Chiamasi lafaccia dell'uomo «volto», in quanto per quella il piú delle volte sidiscerne quello che l'uom vuole: e cosí si diriverá da «volo vis»,che sta per «volere». «Che mischiato di lagrime, a' lor piedi, Dafastidiosi vermi era ricolto», questo sangue mescolato con le lagrimede' miseri cattivi.

«E poi che a riguardare». Qui comincia la quarta parte dellasuddivisione della seconda parte di questo canto, nella quale, poi chediscritta ha la pena dei cattivi, dice aver vedute molte anime tuttecorrere ad un fiume. «E poi», che veduta la miseria de' cattivi, «chea riguardare oltre mi diedi», cioè piú avanti: il general costumedegli uomini pone, li quali, conciosiacosaché tutti siam vaghi diveder cose nuove, sempre oltre alle vedute sospigniamo gli occhi;«Vidi gente alla riva d'un gran fiume, Perch'io dissi:—Maestro», aVirgilio,«or mi concedi, Ch'io sappia quali e' sono», quegli ch'ioveggio, «e qual costume Le fa di trapassar», il fiume, «parer sípronte», cioè volenterose, «Com'io discerno per lo fioco lume»,—cioèper lo non chiaro lume; percioché, sí come l'esser fioco impedisce lachiaritá della voce, cosí le tenebre impediscono la chiaritá dellaluce. «Ed egli», cioè Virgilio, «a me» (supple) rispose:—«Le cose»,delle quali tu domandi, «ti fien cónte», cioè manifeste, «Quandofermerem li nostri passi», lá pervenuti, «Su la trista rivierad'Acheronte».—

Secondo che scrive Pronapide nel suo Protocosmo, Acheronte è unfiume infernale, il quale dice che in una spelunca, la quale ènell'isola di Creti, nacque della prima Cerere figliuola di Celio; e,vergognandosi di venire in publico, per certe fessure della terra sene discese in inferno. Sotto questa fizione è da intendere questo:come altra volta dissi, Titano e i figliuoli combatterono con Saturno,e presero lui e la moglie; per la qual cosa Cerere, figliuola diCelio, percioché confortato avea Saturno che non rendesse il regno aTitano, temendo di lui, si fuggí in Creti, tanto dolente, quanto piúesser poteva, di ciò che avvenuto era a Saturno, e quivi si nascose. Epoi, sentendo che Giove aveva vinto Titano, e liberato Saturno e lamoglie di prigione, non altrimenti che la femmina depone il peso delventre suo partorendo, cosí Cerere, posto in questo luogo, doveocculta dimorava, ogni dolore giú ed ogni amaritudine, uscí in publicolieta. E da questo dolor posto giú fu data la materia alla fizione:quasi voglia dire il dolore essersi tornato al suo principio, cioè alluogo del dolore in inferno. E questo discrive in forma di fiume, adimostrare la quantitá essere stata grande del dolore. Ma il nostroautore gli dá, fingendo, altra origine: percioché, sí come appariránel quattordicesimo canto del presente libro, egli mostra questo fiumee gli altri infernali nascere di gocciole d'acqua che caggiono difessure, le quali dice essere in una statua di piú metalli, drittanell'isola di Creti: e quivi piú a pieno se ne tratterá, e di questo edegli altri.

«Allor con gli occhi vergognosi e bassi, Temendo no 'l mio dir glifosse grave», cioè noioso, «Infino al fiume», d'Acheronte, «di parlarmi trassi», cioè senza parlare mi condussi.

«Ed ecco verso noi». Questa è la quinta parte della suddivisione delpresente canto, nella quale l'autore mostra un dimonio venire versoloro in una nave e passar gli altri, e lui non aver voluto passare. Edè questa parte presa da Virgilio, dove nel sesto dell'Eneida scrive:

Portitor has horrendus aquas et flumina servat terribili squalore Charon, ecc.

per ben ventun verso. Dice adunque: «Ed ecco verso noi venir per naveUn vecchio bianco per antico pelo», [il quale per altro sarebbe parutonero, se gli anni non l'avessero fatto divenir canuto, percioché lagente volgare stimano che il diavolo sia nero, percioché i dipintoridipingono Domeneddio bianco; ma questa è sciocchezza a credere,percioché lo spirito essendo cosa incorporea, non può d'alcun coloreesser colorato;] «Gridando:—Guai a voi, anime prave!», cioè malvage.«Non isperate mai veder lo cielo»: il che vuole che elle intendano, inperpetuo quindi non dovere uscire. «Io vegno per menarvi all'altrariva», di questo fiume, «Nelle tenebre eterne, in caldo e 'n gielo. Etu, che se' costí, anima viva», volgendo il suo parlare all'autore,«Pártiti da cotesti, che son morti»;—quasi voglia dire: percioché conloro tu non déi né puoi passare. «Ma, poi ch'e' vide ch'io non mipartiva», per suo comandamento, «Disse:—per altra via», che perquesta, «per altri porti, Verrai a piaggia, non qui», donde io levol'altre, «per passare», dall'altra parte. «Piú lieve legno», cioènave; è «legno» tra' marinai general nome di qualunque spezie dinavilio, e massimamente de' grossi, come che qui per la sua barca, oper un'altra, lo 'ntenda Carone; «convien che ti porti»,—cioè tivalichi.

«E 'l duca», cioè Virgilio, «a lui:—Carón». Questo Carón, secondo cheCrisippo scrisse, fu figliuolo d'Erebo e della Notte (di questa favolasará il significato nella esposizione allegorica) ed è posto a questouficio di passare l'anime dannate dall'una riva all'altra d'Acheronte,come qui appare. «Non ti crucciare», e incontanente soggiunge lacagione per la quale gli mostra non doversi crucciare, dicendo:«Vuolsi cosí», cioè che costui vivo vada per questo regno de' morti, edov'e' si vuole, «colá, dove si puote Ciò che si vuole», cioè nelladivina mente, percioché Iddio può ciò che vuole; «e piú nondimandare»;—quasi voglia per questo dirgli: non è convenevole che ate si dimostri la cagione della volontá di Dio. «Quinci», cioè dalleparole da Virgilio dette, «fûr quete», cioè quetate, senza alcuna cosapiú dire, «le lanute gote», cioè barbute, «Del nocchier della lividapalude», cioè di Carone. E chiama ora «palude» quello che di soprachiama «fiume», e questo fa di licenza poetica, per la qualespessissimamente si pone un nome per un altro, sí veramente che quelcotal nome abbia alcuna convenienza con la cosa nominata, come è qui,che il fiume è acqua e la palude è acqua, e talvolta in alcuna partecorre il fiume sí piano, che egli par non men tosto palude che fiume.«Livida» la chiama, a dimostrazione che l'acqua sia torbida, e quellatorbidezza sia nera ed oscura. «Che 'ntorno agli occhi avea di fiammarote», a dimostrare la sua ferocitá e il suo furore.

«Ma quelle anime, ch'eran lasse», per dolore, non per lunghezza dicammino, «e nude», di consiglio e d'aiuto; «Cangiár colore», mostrandol'angoscia di fuori, la quale dentro sentivano, «e dibattéro i denti»,come coloro fanno li quali la febbre piglia, che innanzi lo 'ncendiodi quella tremano e battono i denti; «Tosto che 'nteser le parolecrude», dette da Carón di sopra («Io vegno per menarvi all'altra riva»ecc.).

«Bestemmiavano Iddio». Fa qui l'autore imitare a quelle anime ilbestiale costume di molti uomini che, quando attendono o hanno alcunacosa la quale loro a grado non sia, disperatamente cominciano abestemmiare, quasi per quello non altramenti che se Dio spaventassono,si debba diminuire o mitigare la fatica, la quale aspettano o la qualehanno: «e' lor parenti», cioè i padri e le madri, li quali principio ecagione dierono all'esser loro; «L'umana spezie», quasi volessero piútosto essere animali bruti, accioché col corpo si fosse morta l'anima;«il luogo», (supple) bestemmiavano dove nacquero, «il tempo», nelqual nacquero, «e 'l seme», del quale nacquero, «di lor sem*nza», cioèbestemmiavano il seme di lor sem*nza, cioè della quale seminatifurono, «e di lor nascimenti», cioè bestemmiavano il luogo e 'l tempodi lor nascimenti. «Poi si ritrasser tutte quante insieme»; quinciappare loro quivi esser venute sparte; «Forte piangendo alla rivamalvagia», d'Acheronte, «Ch'attende ciascun uom, che Dio non teme»,percioché tutti dichinan quivi coloro che, vivendo, non ebbono temordi Dio, «Carón dimonio, con occhi di bragia», cioè ardenti e focosi;«loro accennando, tutte le raccoglie», in su la sua nave; «batte conremo», cioè con quel bastone col quale mena la sua nave, il quale imarinai chiamano «remo», «qualunque», di quelle anime, «s'adagia», asedere o in altra guisa.

«Come d'autunno» cioè in quella stagione la quale noi chiamiamo«autunno», da mezzo settembre infino a mezzo dicembre, «si levan lefoglie, L'una appresso dell'altra», cadendo, «infin che 'l ramo»,sopra il quale erano, «Vede alla terra tutte le sue spoglie», cioè ivestimenti, li quali, la stagione gli ha fatti cadere da dosso. Ed èquesta comparazione presa da Virgilio in quella parte del sesto librodell'Eneida, che di sopra dicemmo. «Similemente il mal semed'Adamo», il quale fu il primo nostro padre, e del quale noi siamotutti seme: ma parte di questo seme è buono, sí come sono i santiuomini e i servanti i comandamenti di Dio, e parte n'è malvagio, sícome sono i peccatori, li quali ostinati nelle loro colpe muoiononell'ira di Dio: e questa è quella parte che si raccoglie nella navedi Carone. «Gittansi in quel lito», cioè d'in su quella riva, «ad unaad una», quelle anime dannate, «Per cenni», da Carón fatti,«com'augel» fa «per suo richiamo», cioè per lo pasto mostratogli.

«Cosí», raccolte, «sen vanno su per l'onda bruna», d'Acheronte, «Eavanti che sien», queste che pur mò salirono, «di lá», cioè dall'altrariva, «discese, Anche di qua», da quest'altra parte, «nuova schiera»,cioè quantitá d'anime non ancora statavi, «s'aduna». E in questodimostra l'autore continuamente molti morirne sopra il circuito dellaterra, de' quali la maggior parte muoiono nell'ira di Dio, «quiamulti sunt vocati, pauci vero electi».

—«Figliuol mio,—disse» In questa sesta parte della suddivisione gliapre Virgilio la cagione perché Caron non l'ha voluto passare, eperché quelle anime son pronte a voler passare il fiume. Edice:—«Figliuol mio»;—mostra in questa parola Virgilio paternaaffezione all'autore; «disse il maestro cortese». Ben dice «maestro»,percioché, come qui appare, Virgilio gli solve il dubbio della domandafattagli da lui di sopra, dove dice: «Maestro, or mi concedi, Ch'iosappia» ecc., e coloro che solvono bene i dubbi meritamente si possonoe debbon esser chiamati «maestri». «Cortese» il chiama, perciochécontinuo in quello che al suo uficio appartenesse, gli fuliberale.—«Quegli», uomini, o le loro anime a dir meglio, «che muoionnell'ira di Dio», li quali son quegli che [senza contrizione, senzaconfessione, veggendosi nel caso della morte,] consistono pertinacinelle loro nequizie, e cosí, senza riconciliarsi a Dio de' peccaticommessi, si muoiono; [e diconsi morire nell'ira di Dio, in quanto lasua grazia racquistar non hanno voluto, seguendo gl'instituti dellacattolica Chiesa;] «Tutti convengon», cioè insiememente vengono,«qui», a questo fiume, «d'ogni paese», di levante e d'occidente e diciascuna altra plaga del mondo, «e pronti sono a trapassar lo rio»,cioè il fiume, il quale qui chiama «rio», tirato dalla consonanza delverso. E séguita la ragione perché a questo son pronti: «Ché la divinagiustizia gli sprona», cioè gli costringe, «Sí che la téma», la qualehanno delle pene eternali, «si converte in disio», di andar tosto aquelle. «Quinci», cioè per la nave di Carone, «non passò mai animabuona», cioè che al cielo dovesse ritornare, come déi tu, che nonvieni per rimanere. «E però, se Carón di te si lagna», cioè si duole,e non ti vuol passare, «Ben puoi sapere omai che il suo dirsuona»,—avendo intesa la cagione del suo rammarichio.

[Lez. X]

«Finito questo». Questa è la settima e ultima parte della suddivisionedel presente canto, nella quale l'autore mostra sé, per un tremoredella terra e per un baleno, vinto e caduto. Dice adunque: «Finitoquesto», cioè la dichiarazione fattami da Virgilio della prontezzadell'anime a trapassare il fiume, «la buia», cioè oscura, «campagna».«Campagna» sono luoghi piani e larghi, i quali ivi non si dee credereche sieno, ma usa il vocabolo largamente, auctoritate poëtica; edé'si intendere per la qualitá di quello luogo dove vuole dare adintendere che era, qual che si fosse, o montuoso o piano: «Tremò síforte».

Ma qui è da vedere che volle dire questo tremare, conciosiacosachél'autore niente ponga senza cagione; e perciò è da sapere l'autore inogni cosa porre quelli medesimi accidenti avvenire a' dannati, che acoloro che in istato di grazia sono od in via di penitenzia. E quinci,se noi riguarderem bene, come all'entrare d'ogni cerchio di purgatoriosi truova alcun agnolo, il quale, lietamente cantando, conforta chisale in quello; cosí ad ogni cerchio d'inferno si truova alcundemonio, il quale orribilmente spaventa chi discende in esso. E cosícome il monte del purgatorio, quando alcuna anima purgata sale alcielo, tutto triema, e tutti gli spiriti di quello, sentendo iltremore, ed intendendo ciò che significa, da caritá mossi, cantano eringraziano Iddio, che a sé quella anima beata chiama; cosí ininferno, come anime di nuovo vi caggiono, come dalle trasportate daCarón feciono, triema tutta la valle d'inferno: per la qual cosal'anime dannate, che ciò sentono, intendendo venire anime adaccrescere la loro tristizia, tutte oltre al dolore usato sicontristano e piangono.] E cosí l'autore mostra di volere in questaparte sentire, come che non sia cosa nuova, le parti intrinseche ecavernose della terra talvolta tremare, per la revoluzione dell'aereche in quelle è racchiuso e che vuole uscir fuori.

«Che dello spavento, La mente», cioè il ricordarmene, «di sudore ancormi bagna». Suole talvolta agli uomini subitamente spaventati,rifuggire dalle parti esteriori dentro al cuore, sentendolo temere, ilsangue; e per questo coloro, alli quali questo avviene, rimangonopallidi e deboli e quasi insensibili; ed esse parti esteriori, premutedalla passione della paura, mandano per li pori fuori talvoltaun'acqua fredda, la qual noi diciamo «sudore»; e se tosto le partipredette non recuperassero il sangue e le forze loro, caderebbel'uomo, e parrebbegli venir meno come se egli morisse; e forseperseverando il sudore si morrebbe: ed hannone giá alcuni, essendo perpaura il sangue rifuggito dentro, perduti o debilitati alcuni membriin guisa che mai poi operare non gli hanno potuti (e dicono i menosavi questi cotali essere stati guasti dal dimonio) e per avventuraanche se ne son morti.

«La terra lacrimosa», cioè quella valle d'inferno, o per li moltipianti che in quella si fanno, o per l'umiditá, la quale è nellaconcavitá della terra generata dal freddo, il quale ha l'esalazionidella terra calde e umide risolute in acqua: la quale primieramenteaccostata alla terra fredda, è fatta in forma di lacrime, e cosí sipuò dire l'inferno essere lacrimoso.

«Diede», cioè causò, «vento». Generansi i venti, secondo che adAristotile piace nel secondo della Meteora, d'esalazioni calde esecche della terra, cacciate sopra da sé da' nuvoli freddi o da alcunfreddo che nell'aere sia. Le quali cose come in inferno sieno, non so.Estimo che 'l tumultuoso rivolgimento, il quale l'autore vuol mostrareche vi sia, causi alcuno impeto il quale muova quello aere, e l'aeremosso paia vento.

«Che balenò una luce vermiglia». Questi non sono accidenti che lanatura soglia producere sotterra, e perciò è verisimile quellomovimento dell'aere, il quale ho detto essere stato, e, oltre aquesto, quello impeto, avere dalle parti inferiori seco recata qualchevampa di fuoco, la quale in forma di un baleno apparve all'autore. «Laqual», luce, «mi vinse ogni mio sentimento»; segno è, per questo,avere quella luce grandissimo stupore messo nell'autore, ed esserestato tanto, che quello ne sia seguito che dice, cioè: «E caddi, comel'uom cui sonno piglia».

II

SENSO ALLEGORICO

«Per me si va nella cittá dolente». Nel principio del presente cantosi continua l'autore alle cose dette nella fine del precedente, ládove disse, per le vere dimostrazioni fattegli dalla ragione, sé averela viltá dell'anima posta giuso e essersi ritornato nel proponimentoprimo, e cosí, dietro alla ragione, essere rientrato nel cammino dadovere poter pervenire allo stato della grazia, e quindi ad eternasalute, come disiderava; e camminando mostra sé alla porta delloinferno essere pervenuto. E sono intorno al senso allegorico di questocanto da considerare tre cose: la prima è quello che l'autore vogliaintendere per questa porta; la seconda, come si conformi il suppliciodato a' cattivi con la colpa loro; la terza, quello che l'autorevoglia sentire per lo fiume d'Acheronte e per lo nocchiere, ed, oltrea ciò, per lo accidente a lui avvenuto: e, queste vedute, assaiconvenientemente s'avrá il senso allegorico veduto del presente canto.

Avendo adunque riguardo a parte delle parole scritte sopra la porta,la quale l'autor discrive, e alla ampiezza di quella, e similmenteall'averla senza alcun serrame trovata, possiam comprendere quellaessere la via della morte; conciosiacosaché il Nostro Signore dicanell'Evangelio: «Intrate per angustam portam, quia lata et spatiosavia est quae ducit ad perditionem, et multi sunt qui intrant peream»; e cosí per questa via il peccato ne mena a dannazione eterna.Ed è questa via ampia, a farne chiari agevol cosa essere il peccare, equello essere assoluto da ogni strettezza di regola; il che dellevirtú non avviene, le quali sono ristrette e limitate dalli loroestremi. L'essere senza alcun serrame, ne mostra assai chiaro in ogniora, in ogni tempo essere a ciascuno, volendo, possibile d'entrarenella via della morte, ed andare ad eterna perdizione. Ed ancora sipuò per l'ampiezza di questa porta comprendere, essa in tantalarghezza distendersi, che, in qualunque parte del mondo l'uomo pecca,trovi di questa porta la larga entrata. E fu aperta questa dallasuperbia dell'angiolo malvagio, il quale primieramente ardí di levarela fronte contro a Colui che creato l'avea, né mai piú si richiuse.

Dentro alla quale, entrata l'umana considerazione, dietro a' passidella ragione, nel vestibulo della perdizione eterna vede i cattivi einerti, come nella lettera è dimostrato, correre dietro ad una insegnaaggirandosi; e questi essere agramente stimolati da mosconi e davespe, e il sangue di questi dolenti esser ricevuto da putridivermini. Li quali perciò all'entrata della perduta vita dimostrati nesono, accioché da essi prendiamo quanto abbominevole colpa sia quelladella inerzia, veggendo essa non solamente alla divina giustizia, maancora a' diavoli dispiacere: e per questo siamo ammaestrati aguardarci da quella, accioché in tanta miseria non divegnamo, cheigualmente a' buoni e a' malvagi siamo odiosi. Pare adunque questovizio consistere in una freddezza d'animo, la quale, occupate nonsolamente le potenze intellettive, ma eziandio le sensitive, tienecoloro, ne' quali esso dimora, del tutto oziosi, intanto che,brievemente, niuna opportunitá pare che muover gli possa ad alcunoatto operativo; e per questo non come uomini, ma come bruti animali,anzi come vermini pútridi e fastidiosi, menano la vita loro. Ed inquesto pare loro, per quel che comprender si possa, sentire alcundiletto, il quale, percioché da viziosa cagione è preso, senza colpaesser non puote. E però, spenta la loro sensual vita e tolta via lagravezza del misero corpo consenziente alla viltá dell'animo, avendoquel conoscimento assoluti che perduto avevan legati, dal verminedella coscienza morsi, e per quello conoscendo sé niuno onesto segnonella lor misera vita aver seguito, ora senza pro seco dicendo:—Cosídovremmo aver fatto;—non tardi né lenti, ma correndo, seguitano quelsegno che seco estimano dover vivendo aver seguito. E percioché questolor vermine non muore, il seguono in giro, a dimostrare che, come nelcerchio non è alcun principio né fine, cosí questa lor fatica nondebba giammai avere requie né riposo. E a questo atto gli solletica ilvermine della coscienza con due stimoli, con mosconi e con vespe, liquali continuamente li trafiggono. Li quali mosconi e vespe sono daintendere per la memoria di due loro singulari miserie, nelle qualinella loro dolorosa vita presero alcun piacere: le quali furono l'unanel brutto e sporcinoso modo di vivere che tennero, l'altranell'oziosamente vivere. [E queste si deono intendere, percioché imosconi sono generati da putredine d'acqua e di terra corrotte, equesti intender si deono la rimembranza della loro fastidiosa vita, laquale ora conoscono e dispiace loro e, dispiacendo, senza pro gliaffligge e infesta; sí che assai bene dimostrano confarsi in questo lapena con la colpa. Le vespe s'ingenerano dell'interiora dell'asinosimilmente corrotte, e l'asino essere inerte, ozioso e torpenteanimale, assai chiaro si conosce per tutti; e però per le punturedelle vespe, amarissime, assai bene si dee comprendere, per quelle, ilmorso doloroso della rimembranza della loro oziositá, dalla quale sonodolorosamente trafitti, come apparir può per lo sangue il quale cadedalle punture.] Il loro sangue essere da puzzolenti vermini raccolto,ha a rammemorare a questi dolenti che il sangue generato dalladigestione de' cibi, li quali usarono vivendo, non nutricò e sostennein vita corpi umani, anzi putridi e sozzi vermini: per le quali coseassai bene pare si conformi con la colpa la pena di costoro. E questobasti de' cattivi aver detto.

Resta a vedere la terza parte, cioè quello che l'autore per lo fiume eper lo nocchiere e per lo caso, che a lui addivenne, voglia sentire.[E, secondo che io possa comprendere, la sua intenzione è di mostrarecome in inferno, oltre al fiume d'Acheronte, si discenda: e questomostra convenirsi fare passando il fiume, il quale in due manieretrapassarsi, qui, sotto assai artificiosa fizione, discrive. Dellequali dice esser la prima per la nave di Carón, nella quale, comedetto è, esso trapassa l'anime di quegli che in peccato mortale mortisono. E però, avanti che della seconda maniera tocchiamo, è da vederequello che l'autore sente per questo fiume, che per lo nocchiere, cheper la nave e che per lo remo col qual dice che batte qualunques'adagia.]

Vuole adunque per questo fiume l'autore disegnare la vita presente, laquale ottimamente dir si può simile ad un fiume; percioché, sí come ilfiume corre continuo, sempre declinando, senza mai in su ritornare;cosí la nostra vita, dal dí del nostro nascimento, sempre e convelocissimo corso declina verso la morte, senza mai indietrorivolgersi. Il che ci è, oltre alla continua esperienza, per la divinaScrittura mostrato, nella quale leggiamo: «Omnes morimur et quasiaquae dilabimur in terram, quae non revertuntur». Sono, oltre a ciò,i fiumi, quando per abbondanza d'acque e quando per forza di venti,tempestosi. Il che similemente della nostra vita addiviene: perciochéalcuna volta addiviene, per troppa mondana felicitá, che noi gonfiamoe divegnamo superbi, e non ricappiendo in noi, e non essendo a' nostritermini contenti, esondiamo, e, come i fiumi in danno de' campi vicinitalvolta traboccano, cosí noi in danno del prossimo e di noi medesimitrabocchiamo, e similemente siamo da diversi impeti della fortunafieramente afflitti e infestati negli animi nostri. E, come il fiumevolge grandissime pietre nel suo fondo, cosí noi nel segreto delnostro petto continuamente rivolgiamo gravissime e noiosesollecitudini; e né altrimenti che i fiumi con le loro circunvoluzionitalvolta trangugian le navi e' naviganti, cosí noi tranghiottisce lacircunvoluzione de' peccati e della bocca infernale. E, accioché iofaccia fine alle comparazioni, come i fiumi molte afflizioni porgono,cosí la nostra vita è piena di tribolazioni infinite: per la qualcosa, per quel medesimo nome chiamar la possiamo che questo fiume sichiama, il quale è Acheronte, che tanto suona in latino, quanto «cosasenza allegrezza»: la quale per certo è del tutto rimossa dallapresente vita, veggendo non essere alcuno, quantunque vecchio, che converitá possa dire sé avere avuto giammai un dí intero senza milleangosce piú cocenti che 'l fuoco. E sopra questo fiume è una nave,nella quale dall'una riva all'altra sono l'anime trasportate. [Èmanifesta cosa di legni leggieri comporsi le navi, e quelle, senzamolta acqua prendere, sopra essa dimorare]; per la qual mi pare sipossa sentire le nostre concupiscenze, le quali, leggieri e mutabili,non altrimenti per la presente vita trasvolano, che facciano sopral'onde le navi, e seco d'uno appetito in un altro trasportano coloro,li quali miseramente disiderano, né prima a riva gli pongono, che inperpetua perdizione gli conducono: come per essa dice l'autore, cheCarón trasportava l'anime in perpetua doglia.

È, appresso, di questa nave nocchiere un demonio chiamato Carón,bianco per antico pelo, il quale nella lettera dicemmo essere statofigliuolo d'Erebo e della Notte. Per lo quale assai apertamente vedersi puote intendersi il tempo, percioché il Tempo fu figliuolo d'Erebo,cioè del profondo consiglio di Dio, il quale creò lui come l'altrecose, e non essendo avanti la creazione del mondo alcuna lucesensibile nel mezzo delle tenebre, le quali avanti la creazion delmondo erano, produsse lui come cominciò a distinguer quelle in dídistinti, come nel principio del Genesi si legge; e quinci, perchénelle tenebre prodotto fu, sentirono i poeti lui essere figliuolodella Notte, cioè delle tenebre. Il nome del quale Servio, Sopral'«Eneida» di Virgilio, dice esser «'Charon' quasi 'chronos'»; equesto vocabolo in latino viene a dire tempo. Il quale l'autore diceesser «bianco per antico pelo», discrivendolo dall'accidente dellavecchiezza degli uomini, nella quale noi divegnamo canuti: e perquesto vuol dimostrare il Tempo essere vecchio, cioè giá è lungospazio stato prodotto. E nel vero assai è vecchio, percioché, secondosi comprende in libro Temporum d'Eusebio, egli è, dalla creazionedel mondo infino a questo anno, perseverato 6572 anni o in quel torno.E perciò si pone nocchiere sopra questo fiume, percioché dir si puoteil tempo esser quello che in sé il dí della nostra nativitá ne riceve,e con le sue revoluzioni, avendone dalla riva del nostro nascimentolevati, ne mena per la presente vita, qual piú e qual meno, etrasportalo all'altra riva, cioè al dí della morte. È vero che egli èqui posto dall'autore a trapassare l'anime che muoiono nell'ira diDio, e ciò non è senza cagione; percioché quelle, che questa mortalvita finiscono nella grazia di Dio, non si dicono, secondo che i santidicono, morire, ma d'una vita trapassare in altra, e quella essereeterna, nella quale il tempo non ha alcuna cosa a fare; perciochél'eternitá non patisce alcuna dimensione di tempo. De' dannati non sipuò dir cosí, percioché di questa vita vanno in morte perpetua: eperciò pare che il tempo abbia a determinare con certo numero d'anni odi dí lo spazio della presente vita, la quale per rispetto della morteperpetua fu a' dannati morte, in quanto finirono questa vita, laquale, quantunque piena d'afflizioni e di fatiche sia, è nondimenobeata stata a' dannati, per rispetto di quella alla quale in morteperpetua son trapassati.

[Ma da vedere è quello che intender voglia l'autore per lo remo diquesto nocchiere. È il remo un bastone lungo, col quale il nocchierefa muovere la sua nave, e con esso la mena e dirizza d'un luogo ad unaltro. Col quale remo l'autor dice questo dimonio battere l'anime, lequali s'adagiano nella sua nave, intendendo per questo lasollecitudine di coloro li quali all'acquisto delle cose temporali sontutti dati; percioché questa sollecitudine, dalla varietá del tempo edalla qualitá delle cose imprese stimolata, non lascia alcun cupidosentire alcun riposo, ma igualmente il dí e la notte o in pensieri oin opera gli tiene occupati, e sempre con nuove dimostrazioni a varieoperazioni gli sospigne, molesta e affligge, in guisa che, non cheriposo prendere possano, ma elle non lasciano altrui avere spazio direspirare. E, se di ciò per avventura alcuno esemplo aspettaste,lasciando stare la sollecitudine pastorale de' sommi pontefici e legrandi imprese de' re, de' principi e de' signori, riguardate conl'occhio della mente quelle de' mercatanti, co' quali noicontinuamente siamo: ogni piccolo movimento, ora in Inghilterra, orain Fiandra, ora in Ispagna, ora in Cipri, ora in una parte e ora in un'altra, sollecitando, ricordando, avvisando, li fa scrivere, nonlettere, ma volumi a' lor compagni; e innanzi tratto sempre consospetto l'apportate ricevono; ogni vento gli tien sospesi a' lornavili; né sí piccolo romore di guerra nasce, che essi incontanentenon temano delle mercatanzie messe in cammino, e quanti sensali parlanloro, tanti fan loro mutare animi e consigli. Chi potrebbe esplicarequante sieno le cose, che agli avviluppati nelle cose temporalirompano, turbino, guastino, impediscano i desiderati riposi? Niunascrittura è che appieno gli potesse mostrare. E cosí i dolenti, chehanno torto il disiderio della eterna beatitudine alle cose che perirdebbono, sono nella presente vita in continua afflizione, e di quitrapassati alla perpetua.]

La cagione perché questo dimonio niega di passare l'autore, puoteesser questa: percioché egli non potrebbe ancora conducer l'autorealla riva opposita, conciosiacosaché ancora venuto non sia l'ultimo dídell'autore, il quale ancora vivea; e appresso sentiva il dimoniol'autore non essere in disposizione ch'egli volesse passare per doverdi lá dimorare, e perciò non apparteneva al ministro della divinagiustizia, al quale è commesso di trapassare i malvagi, di trapassarsimilmente quegli che malvagi non sono e vanno per esser buoni, sícome l'autore andava. E però gli dice:—«Piú lieve legno convien cheti porti»;—volendo per questo mostrare che, quando la colpa è piúlieve, piú lievemente trapassi Acheronte. E quelle sono da dir piúlievi, le quali talvolta si posson por giuso (come puote l'uomo, chevive, por giú le sue colpe per la penitenza), che quelle che in eternonon si posson metter giú, come quelle sono nelle quali l'uomo simuore. E non è da credere che attualmente l'autore in inferno andasse,o che questo fiume o questo nocchiere e l'altre cose, che qui ealtrove si pongono, vi sieno; ma conviensi a' nostri ingegni in questamaniera parlare, accioché essi con minore difficultá possano dallecose attualmente discritte comprendere le spirituali, le quali peropera d'immaginazione o di meditazione s'intendono. Non ha la divinavolontá bisogno d'alcuno uficiale: basta in lei semplicemente ilvolere, e quello incontanente è mandato ad esecuzione, sí come dice ilsalmista: «Dixit, et facta sunt; mandavit, et creata sunt». Maquesto noi non comprenderemmo, se in alcuni termini dimostrativi nonne fosse posto dinanzi quello che Iddio dispone e adopera, sí comenelle cose dette si può comprendere, cioè noi vivere ed essere daltempo menati alla morte, e dopo quella, se male vivuti siamo, dannati.[E cosí possiam questa maniera, del passare in inferno, dire che siaper sentenza diffinitiva data da Dio, sí come da giudice il qualeesser non può in alcuna cosa ingannato: e come quegli cotali, che daquesta sentenza dannati sono, hanno il fiume valicato, in remiudicatam sono trapassati, senza dovere sperare che mai per alcunacagione cotal sentenza si debba o possa rivocare: quantunquescioccamente Origene, per altro prudentissimo e grandissimo letteratouomo, mostrasse di credere Iddio alla fine del mondo dovere, non ched'altrui, ma eziandio de' demòni, aver misericordia, e perdonar loro emenarnegli in vita eterna.]

[La seconda maniera del trapassare in inferno, cioè di valicare ilfiume d'Acheronte, par che l'autore voglia qui essere per una speziedi sentenza, la quale si chiama «interlocutoria», la quale nostroSignore dá in questa forma: che qualunque uomo cade in peccatomortale, sia incontanente messo nella prigione del diavolo; manondimeno esservi con questa condizione, che, se egli d'avere commessoquel peccato, per lo quale è servo del diavolo divenuto, si vuolericonoscere, e per penitenza riconciliarsi a Dio, che egli possa cosíuscire della detta prigione e ritornare in sua libertá; e, dovericonoscer non si voglia, s'intenda in perpetuo esser dannato a doverestare in quella prigione, nella quale noi miseri tutto 'l dí caggiamo,e all'unghie del diavolo di nostra volontá la gola porgiamo. La qualcosa avvenire discrive l'autore sotto questa fizione.]

Dice adunque per se medesimo, e cosí ciascuno può per se medesimointendere, che «La terra lagrimosa», cioè la presente vita, la quale èpiena di lagrime e di miserie, «diede vento, Che balenò una lucevermiglia», cioè uno splendore grande in apparenza, vano e fugace sícome è il vento, il quale niuno può né pigliare né tenere e semprefugge. E questo splendore dice essere stato balenato da questa cosavana, a dimostrazione che dalla vanitá delle cose della presente vitanasca questa luce a guisa di baleno, il lume del quale essendo súbito,reca seco ammirazione, e poi subitamente si converte in nulla, sí comenoi veggiamo avvenire de' fulgori temporali, che testé sono e testénon sono. Or nondimeno sono appo la nostra fragilitá di tanta forza,che spesse volte occupano in tanto le menti d'alcuno, e con tantaaffezione disiderati sono, che, lasciata la debita notizia di Dio edello splendore eterno, per qual è via, e per li vizi e per lemalvagie operazioni, si trascorre in essi. Di che assai appare aquesti cotali ogni sentimento razionale esser tolto, ed essi caderenelle colpe e nelle miserie del peccato, come cade colui il quale èsoprappreso dal sonno. E fa in questo l'autore debita comparazione:percioché, quantunque, peccando mortalmente, nella infernal morte sicaggia, nondimeno è questa morte in tanto simile al sonno, in quantol'uomo si può da essa destare mentre nella presente vita dimora, sícome nel principio del seguente canto mostra l'autore d'essere statodesto, ma da grave tuono; la gravitá del qual tuono possiam direessere stata alcuna di quelle cose, con le quali davanti nel principiodel primo canto del presente libro dicemmo che Domeneddio toccava ipeccatori con la grazia operante, quando in alcuno la mandava. Emeritamente qui possiam repetere quello che nel predetto luogodicemmo, l'autore per lo sonno non essersi accorto come nella prigiondel diavolo s'entrasse, cioè come si trapassasse il fiume d'Acheronte;ma, destandosi e trovandosi dall'altra parte del fiume, assaileggiermente conoscer si può la sua colpa e la sentenza di Dioavervelo trasportato. E questo trasportamento sarebbe stoltizia acredere che corporale fosse stato. Fu adunque spirituale, comespiritualmente intender si dee noi per lo peccato divenir servi deldiavolo. E, quantunque a quegli, che in questa forma trapassano ininferno, sia licito, volendo, il poterne uscire, non posson peròuscirne per tornarsi addietro per la via donde entrarono, perciochéper lo peccato non si può di peccato uscire, come quegli farebbono cheper quella via n'uscissono, per la quale v'entrarono; ma convienseneuscire per la via opposita al peccato, la quale nulla altra cosa è chela penitenza. E a pervenire a questa via mostra l'autore essergliconvenuto tutto l'inferno trapassare, e di quello, per la parteopposita a quella onde v'entrò, esserne uscito. E questa via, se noiriguardiam bene, il conduce a piè del monte della penitenza, dovetrova Catone, che a quella il drizza e sollecita.

FINE DEL PRIMO VOLUME.

INDICE

I
VITA DI DANTE

I. Proposizione p. 3
II. Patria e maggiori di Dante 6
III. Suoi studi 8
IV. Impedimenti avuti da Dante agli studi 10
V. Amore per Beatrice 10
VI. Dolore di Dante per la morte di Beatrice 12
VII. Digressione sul matrimonio 14
VIII. Opposte vicende della vita pubblica di Dante 18
IX. Come la lotta delle parti lo coinvolse 18
X. Si maledice all'ingiusta condanna dell'esilio 20
XI. La vita del poeta esule sino alla venuta in Italia di Arrigo
settimo 21
XII. Dante ospite di Guido Novel da Polenta 23
XIII. Sua perseveranza al lavoro 24
XIV. Grandezza del poeta volgare. Sua morte 24
XV. Sepoltura e onori funebri 25
XVI. Gara di poeti per l'epitafio di Dante 26
XVII. Epitafio 27
XVIII. Rimprovero ai fiorentini 27
XIX. Breve ricapitolazione 32
XX. Fattezze e costumi di Dante 32
XXI. Digressione sull'origine della poesia 36
XXII. Difesa della poesia 39
XXIII. Dell'alloro conceduto ai poeti 43
XXIV. Origine di questa usanza 44
XXV. Carattere di Dante 45
XXVI. Delle opere composte da Dante 48
XXVII. Ricapitolazione 57
XXVIII. Ancora il sogno della madre di Dante 57
XXIX. Spiegazione del sogno 58
XXX. Conclusione 63

II
REDAZIONI COMPENDIOSE DELLA VITA DI DANTE
(PRIMO E SECONDO COMPENDIO)

Avvertenza 66

I. Proposizione 67
II. Patria e maggiori di Dante 68
III. Suoi studi 70
IV. Impedimenti avuti da Dante agli studi 71
V. Amore per Beatrice 72
VI. Dolore di Dante per la morte di Beatrice 73
VII. Matrimonio di Dante 74
VIII. Digressione sul matrimonio 75
IX. Cure familiari e pubbliche 76
X. Come la lotta delle parti lo coinvolse 78
XI. La vita del poeta esule sino alla venuta in Italia di Arrigo
settimo 79
XII. Dante ospite di Guido Novel da Polenta 80
XIII. Morte di Dante 81
XIV. Gara di poeti per l'epitafio di Dante 82
XV. Rimprovero ai fiorentini 82
XVI. Fattezze e costumi di Dante 83
XVII. Digressione sull'origine della poesia 85
XVIII. Che la poesia è simigliante alla teologia 87
XIX. Dimostrazione della predetta sentenza 88
XIX bis. Perché i poeti nascondono il vero sotto fizioni 90
XX. Dell'alloro conceduto ai poeti 91
XXI. Carattere di Dante 94
XXII. La «Vita nuova» e la «Commedia». Incidenti occorsi
nella composizione di questa opera 95
XXIII. Perché Dante compose la «Commedia» in volgare. A chi
egli la dedicò 99
XXIV. Altre opere composte da Dante 100
XXV. Spiegazione del sogno della madre di Dante 101
XXVI. Conclusione 107

III

COMENTO ALLA «DIVINA COMMEDIA»

Proemio 111

Canto primo:
I. Senso letterale 127
II. Senso allegorico 159

Canto secondo:
I. Senso letterale 195
II. Senso allegorico 227

Canto terzo:
I. Senso letterale 237
II. Senso allegorico 257

*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA, E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE, VOL. 1 ***

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Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution ofelectronic works in formats readable by the widest variety ofcomputers including obsolete, old, middle-aged and new computers. Itexists because of the efforts of hundreds of volunteers and donationsfrom people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with theassistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’sgoals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection willremain freely available for generations to come. In 2001, the ProjectGutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secureand permanent future for Project Gutenberg™ and futuregenerations. To learn more about the Project Gutenberg LiteraryArchive Foundation and how your efforts and donations can help, seeSections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit501(c)(3) educational corporation organized under the laws of thestate of Mississippi and granted tax exempt status by the InternalRevenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identificationnumber is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg LiteraryArchive Foundation are tax deductible to the full extent permitted byU.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and upto date contact information can be found at the Foundation’s websiteand official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project GutenbergLiterary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespreadpublic support and donations to carry out its mission ofincreasing the number of public domain and licensed works that can befreely distributed in machine-readable form accessible by the widestarray of equipment including outdated equipment. Many small donations($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exemptstatus with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulatingcharities and charitable donations in all 50 states of the UnitedStates. Compliance requirements are not uniform and it takes aconsiderable effort, much paperwork and many fees to meet and keep upwith these requirements. We do not solicit donations in locationswhere we have not received written confirmation of compliance. To SENDDONATIONS or determine the status of compliance for any particular statevisit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where wehave not met the solicitation requirements, we know of no prohibitionagainst accepting unsolicited donations from donors in such states whoapproach us with offers to donate.

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Please check the Project Gutenberg web pages for current donationmethods and addresses. Donations are accepted in a number of otherways including checks, online payments and credit card donations. Todonate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the ProjectGutenberg™ concept of a library of electronic works that could befreely shared with anyone. For forty years, he produced anddistributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network ofvolunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printededitions, all of which are confirmed as not protected by copyright inthe U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do notnecessarily keep eBooks in compliance with any particular paperedition.

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1 (2024)
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Name: Terence Hammes MD

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